È la seconda parte del film fiume dedicato da Troell agli emigrati svedesi in America all’inizio del secolo scorso (la prima parte circolò nei cinema col titolo Karl e Kristina). Qui è descritto l’arrivo della famiglia nel Minnesota. Dopo dieci anni Kristina muore di parto. Karl rimane solo, a portare avanti la famiglia e la terra.
Alcune storie che hanno come punto di partenza la morte di Togliatti. Protagonisti un comunista che lavora alla sede del partito e trova la moglie a letto con un’amica, un giovane che ribadisce la sua fedeltà al Pci mentre un amico si dimostra anticonformista, un profugo venezuelano che è richiamato in patria a sostituire un compagno caduto, un regista prossimo alla morte che sospende i lavori di un film e si mette a girare il mondo.
Mary è una studentessa thailandese all’ultimo anno di liceo. Mentre prova a concentrarsi sullo studio per l’esame di maturità insieme all’amica del cuore Suri, la ragazza si ritrova ad affrontare cambiamenti improvvisi che sconvolgono la sua vita serena e la spingono a provare nuovi sentimenti d’amore. Le pressioni degli adulti sulla necessità di pianificare il futuro aumentano e le certezze acquisite sembrano crollare. Tra compiti in classe, lunghe chiacchierate con l’inseparabile amica e i primi batticuore, Mary si sforza di trovare la propria strada e di dare un senso alla sua vita, proprio nel momento in cui tutto sembra volersi sottrarre al suo controllo.
Da un paese della Toscana nell’agosto 1944 un gruppo di uomini, donne e bambini fugge dai tedeschi nel rischioso tentativo di raggiungere la zona già occupata dall’esercito americano. Favola generosa di molte bellezze tra cui le immagini che come le rondini passano in folla, in continua oscillazione tra ricordi personali e memoria collettiva, cronaca e fantasia, epica ed elegia. Anticipa i temi di Claudio Pavone sulla Resistenza come guerra civile. Premio speciale della giuria a Cannes. Una delle 4 partiture musicali _ e la più calda _ scritte da Nicola Piovani per i Taviani. Fotografia: Franco Di Giacomo.
Takashi sopravvive ad un incidente d’auto ma perde la memoria. Peggior destino ha Ryoko, la sua ragazza, che muore nell’incidente. Con l’aiuto dei genitori Takashi inizia la risalita e torna a frequentare i corsi di medicina. Al corso di dissezione gli capita di dover operare proprio sul cadavere di Ryoko, assieme ad un’altra studentessa che lo corteggia, Ikumi. I ricordi cominciano a riaffiorare, ma non è sempre facile distinguere il reale dall’immaginario. Tsukamoto è un regista dotato di temperamento creativo geniale. Avere tale dote non sempre significa essere un grande regista, ma il giapponese, autore di più di qualche film di culto, si merita un posto anche in questa categoria. Ce lo dimostra con un film che in pochi avrebbero potuto prevedere dopo il torbido A snake of June. Anziché adagiarsi su una comoda rivisitazione (in termini di stile e temi) di quest’ultimo, Tsukamoto vira bruscamente e realizza un film che mette all’ordine del giorno tutta una ridda di questioni inedite nel suo cinema. Prima di tutto la virata è in senso strettamente cromatico: l’opaca tonalità metallica dei film precedenti lascia il posto ad un colore pieno e morbido, sebbene tutt’altro che rassicurante, visto che gran parte del film si svolge in una camera per la dissezione di cadaveri. Ma è soprattutto l’agenda dei temi che rende Vital un’opera di grande fascino e complessità. Al centro c’è il rapporto che intercorre tra la “coscienza” e il corpo, ma tutto intorno c’è una vasta serie di sottotesti che meriterebbero ognuno ulteriori approfondimenti. Tsukamoto grande regista, dunque, perché capace di fare un cinema intelligente e destabilizzante, con la naturalezza e il coraggio un po’ folle dei samurai di un tempo.
Tira e molla di sentimenti a Napoli tra Cecilia, libraia, e Tommaso, proprietario di un ristorante. Intorno a loro, altri personaggi in crisi. È il più ambizioso ma anche il meno riuscito dei film di M. Troisi che dà il meglio di sé nei lunghi monologhi. Brava e bella F. Neri, tutti bravi i comprimari cui, caso raro, Troisi concede il giusto spazio. Film d’amore, sull’amore, intorno e dentro l’amore, ha avuto i suoi sostenitori: “Piccolo piccolo e anarchico… uniforme e imprendibile, fluidissimo e singhiozzante, febbricitante e dolcissimo” (Gariazzo & Chiacchiari).
Un uomo, traumatizzato dall’eccessivo affetto materno, è l’insospettabile autore di numerosi delitti. A mettere la polizia sulle sue tracce sono alcune rivelazioni della ragazza che egli segretamente ama; l’assassino viene eliminato in extremis, proprio quando sta per fare di lei – che ha rifiutato di sposarlo – l’ennesima vittima
Uno dei film più belli e poetici di Bertrand Tavernier. Presentato a Cannes e ingiustamente lasciato senza premi, descrive il rapporto tra padre e figlia. Lui è anziano e molto malato, lei è tornata a trovarlo preoccupata. La moglie assiste triste e malinconica al loro rapporto sereno, dopo anni di incomprensioni. Nella versione originale Bogarde parla inglese mentre la Birkin sia inglese che francese; in quella italiana si è supplito lasciando solo l’inglese con i sottotitoli in italiano.
La vita di un uomo cambia radicalmente dopo il suicidio della fidanzata. Lo shock per la morte dell’amata gli fa desiderare ossessivamente di possedere un’arma, della stessa tipologia con cui la donna si è tolta la vita. Vagando per la città, l’uomo viene aggredito e picchiato brutalmente da una violenta banda di punk. Spinto dal desiderio di vendetta, si ritrova con una pistola tra le mani.
L’aborigeno Sam vive nella fattoria del “bianco” Fred, in relativa armonia, insieme alla moglie Lizzie. Ma intorno a loro, nell’Outback australiano qui narrato come il corrispettivo del Far West, gli aborigeni sono gli indiani: privati della propria terra, dei propri diritti e della propria libertà, e ridotti ad una schiavitù identica a quella (di esportazione) che opprimeva gli africani importati negli Stati Uniti. Quando nella zona si trasferisce Harry, un reduce di guerra gonfio di rancore e di aggressività repressa, il fragile equilibrio fra i proprietari terrieri anglosassoni e i loro servi aborigeni salta
Timido impiegato pubblicitario è costretto, per ragioni di lavoro e per i capricci di una top model, a esibirsi come celebre seduttore. Conciliare satira con comicità è meno facile di quel che si dice. Nell’adattare, seminandola di gag visive irresistibili, la commedia di G. Axelrod, Tashlin ci riesce. Uno dei più divertenti commenti sui costumi, la pubblicità, la TV, il sesso, il mondo degli affari americani degli anni ’50. La collinosa Mansfield marilineggia con piacere. “È il più all’avanguardia tra i film di Tashlin, e senza dubbio il più politico: di conseguenza, uno dei più incompresi” (J. Rosenbaum).
Edogawa Rampo (all’anagrafe Hirai Taro, 1894-1965) è uno dei massimi punti di riferimento della letteratura moderna giapponese; fortemente influenzato dalla narrativa poliziesca anglosassone di Arthur Conan Doyle ed Edgar Allan Poe (a cui è ispirato il suo nome d’arte), ha progressivamente creato un proprio riconoscibilissimo stile narrativo in cui ai “topoi” propri della “detective story” si mescolano elementi come l’erotismo ed il bizzarro. L’interesse del cinema giapponese nei confronti degli scritti di Edogawa Rampo è sempre stato altissimo; nomi più o meno noti (Shin’ya Tsukamoto, Toshiyuki Mizutani, Tai Kato, Yasuzo Masumura)si sono confrontati con i suoi scritti, traendone riduzioni filmiche di diverso valore, a volte altissimo e personale, altre volte mediocre. L’idea di un film collettivo ispirato ai racconti brevi di Rampo non può non portare alla mente un’operazione analoga effettuata nel 1968, in cui tre dei registi più importanti del periodo (Federico Fellini, Louis Malle e Roger Vadim) rivisitano attraverso la propria sensibilità altrettanti racconti di Edgar Allan Poe; ma se in quel caso i risultati erano stati alterni (ottimo l’episodio felliniano, tiepidini gli altri due), i quattro episodi che compongono questa pellicola funzionano a meraviglia, nonostante le differenze stilistiche che li caratterizzano o, forse, proprio grazie ad esse.
Il medico Nagai si dedica alla radiologia ancora agli albori. La moglie muore per il bombardamento atomico. Lui, colpito da leucemia, mentre si spegne lentamente, diviene l’animatore della rinascita del suo popolo.
Nella comunità ultraortodossa di Gerusalemme, Aaron, un uomo irreprensibile, è sposato con Rivka con la quale ha quattro figli. Si innamora di Ezri, un giovane studente. In nome di questo amore ripudia la sua famiglia e la comunità ortodossa la quale però lo condurrà ad un tragico destino.
Tavernier si impegna in una storia in tempo di guerra. In Capitan Conan e La vita e nient’altro era di scena la prima guerra mondiale, qui è la volta della seconda. Parigi, 1942. Jean Devaivre è assistente alla regia e cerca di nascondere la sua attività in seno alla Resistenza. Lavora alla Continental, una società tedesca che da due anni produce film francesi. Jean Aurenche è invece sceneggiatore e poeta e si rifiuta di lavorare per i nazisti, cercando a modo suo di combatterli. Le esistenze di questi due personaggi sono destinate a incrociarsi. Presentato al Festival di Berlino.
Un film di Jacques Tourneur. Con Victor Mature, Yvonne De Carlo Titolo originale Timbuktu. Avventura, Ratings: Kids+13, b/n durata 91 min. – USA 1959. MYMONETRO La prigioniera del Sudan valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un ufficiale francese di stanza a Timbuctu, nel Mali, cerca di domare la ribellione nazionalista araba capeggiata da Mohamed Adani. Ha con sé la bella moglie Nathalie: la vicenda personale si inserisce in un complesso piano politico che costerà la vita all’eroico ufficiale.
Siamo nel 1910. Andrea e Nicola, figli di un capomastro toscano, rimasti senza lavoro, decidono di emigrare in America. Dapprima mandriani, passano in California e trovano lavoro, successo e denaro col grande D.W. Griffith che sta lavorando a Intolerance . I temi toccati sono molti (famiglia, artigianato, orgoglio, speranza) e innervano un film che ha l’andatura di un romanzo. Ricco di citazioni e trappole emotive, questa saga familiare allinea una folta, vigorosa galleria di bravi attori, tra cui spicca Dance (Griffith). Oleografico l’epilogo sul Carso. Musiche di N. Piovani.
Giuseppe Tornatore ha collaborato col Maestro – definizione per una volta appropriata – in un arco temporale che va da Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016), frequentandolo per circa trent’anni. Nel 2018 ha scritto “Ennio. Un maestro” (Harper Collins), intervista fluviale e conversazione franca, a trecentosessanta gradi: in Ennio ne riprende argomenti, andamento cronologico e tono disteso, modesto, autocritico con cui Morricone si era concesso alle sue domande. Attorno a lui, nel film, una schiera di musicisti, registi, colleghi ed esperti portano testimonianze rilevanti e inerenti una carriera straordinaria, che supera il concetto di prolifico: centinaia le opere firmate, da Il federale (1961) all’unico Oscar vinto per una colonna sonora, The Hateful Eight nel 2016, a 87 anni.
Dopo una sanguinosa rapina in una banca del Texas, i due fratelli Seth (G. Clooney) e Richard (Q. Tarantino) prendono in ostaggio un predicatore disilluso che viaggia in camper con due figli (J. Lewis e il piccolo E. Lui) e sconfinano nel Messico dove approdano al locale “Titty Twister”. Un volo finale in dolly della cinepresa svela il mistero. Basato su una vecchia (1990) sceneggiatura di Q. Tarantino, il 3° film del messicano Rodriguez ( El Mariachi ) – anche operatore alla macchina e montatore – è una sagra del tarantinismo più trash , in altalena tra la parodia cinica e l’estasi del pecoreccio. L’edizione originale era di 108′, potata vigorosamente in quella italiana, insignita tuttavia di un V.M. 18 e ancor più ridotta per farla passare in TV.
Qui Tarantino è attore non regista. Mamma mia cos’era Salma Hayek in questo film.
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