Un film di Eyal Sivan. Titolo originale Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne. Documentario, durata 128 min. – Francia, Germania, Belgio, Israele, Austria 1999.
Montaggio di 2 delle 350 ore del processo ad Adolf Eichmann facendo riferimento al libro di Hannah Arendt La banalità del male. Uno dei più determinati criminali di guerra appare come un essere mediocre, che ha ‘eseguito il proprio lavoro’ con metodica e burocratica applicazione.
Anna vive con suo padre Karl in una landa desolata nel nord della Norvegia. Karl ha annegato sua moglie ed il suo neonato figlio di colore nel mare appena ha scoperto che lei le è stata infedele. Per questo Karl è ossessionato dalla sua coscienza per ciò che ha fatto e annega i suoi pensieri nell’alcool. Anna sta cercando l’amore della sua vita, ma non ci sono molti pretendenti attorno a lei, fino a che non scopre un’altra piccola famiglia dall’altro lato della montagna. Incontra così la vedova alcolizzata coetanea di Karl, suo figlio Peder, e il figlio adottivo, Ante, arrivato dal mare su di un pezzo di legno.
In un remoto rifugio del Perù, il pazzo dottor Alexander Torkel sta lavorando sull’energia atomica. Quando il minerologo Stockton con il biologo Bulfinch e la sua assistente Mary Mitchell lo raggiungono, Torkel non vuole svelare la natura dei suoi esperimenti. Il gruppo, insospettito da alcune dicerie e dallo strano contegno del collega, decide di indagare: a suo rischio e pericolo … Il dottore, infatti, ha costruito una macchina che rimpicciolisce gli esseri viventi e la utilizza, con grande compiacimento personale, anche su loro. Ancora oggi, il film di Schoedsack si lascia seguire con interesse e si fa apprezzare per gli ottimi – all’epoca sbalorditivi – effetti speciali di Farciot Edouard e Gordon Jennings, nomination per l’Oscar.In Italia il film fu distribuito in una versione in bianco e nero.
Grazie a un sortilegio legato a un antico anello, il giovane avvocato Wilby si trasforma in un cane ogni volta che viene letta una certa formula. Per il povero avvocato, che ha mire politiche, la situazione è davvero insostenibile, perché la trasformazione avviene nelle circostanze più inopportune.
Chi ama l’umorismo di situazione di Tati e la comicità impassibile di Keaton, non perda questo film del palestinese Suleiman. Dai racconti del padre e dalle lettere della madre l’autore ha allineato 4 episodi familiari, situati a Nazareth nel 1948, nel 1970, nel 1980 e a Ramallah oggi. Ha un sottotitolo: Arab-Israelis , il termine ufficiale con cui gli israeliani indicano i palestinesi rimasti sulla loro terra. Tolto l’episodio del ’48, esplicitamente realistico e antisraeliano, è una commedia dove la violenza non è quasi mai esibita, ma una presenza costante con una catena di gag che spesso trovano nella ripetizione la fonte della loro buffoneria. È il ritorno di Suleiman, dopo anni di esilio, nella parte di sé stesso che continua a tacere perché, spiega da regista, il silenzio è molto cinegenico, un’arma di resistenza che destabilizza e fa impazzire i potenti.
Una ragazza, per vendicare un’amica, accetta di collaborare con la polizia per scoprire un sadico assassino di donne. Nel corso delle indagini s’innamora di un proprietario di night club, ma si spaventa quando crede di aver scoperto delle prove contro di lui. Tutto finirà bene.
Valeria viene condannata alla pena capitale per l’uccisione del fratello. I due poliziotti che l’accompagnano al luogo dell’esecuzione sono costretti a rifugiarsi in un convento a Fen, in Inghilterra, poiché la regione tutt’intorno è allagata. La giovane suor Maria crede la ragazza innocente e riesce a scoprire il vero assassino. Questi tenta di gettare la suora dal campanile, ma ella si aggrappa alla fune della campana: l’allarme è dato.
Tutti i detenuti più “difficili” sono rinchiusi nel blocco 11 ed è lì che scoppia la rivolta. Le richieste dei prigionieri, trattamento più umano e possibilità di imparare un lavoro, sono accettate dal governatore, ma il capo dei rivoltosi ci rimette per sempre la libertà.
Primi anni del Novecento. In un cimitero di campagna si sta seppellendo una bara quando un uomo, dopo averla benedetta, la perfora provocando un grido e una fuoriuscita di sangue. Successivamente una coppia di neosposi inglesi si trova con l’auto in panne proprio da quelle parti. Trovata ospitalità in una locanda desolatamente priva di clienti i due vengono invitati a cena dal proprietario del castello che domina la zona. Non sanno che si tratta del capo di una setta di vampiri.
Durante la guerra di Secessione, un soldato nordista, ferito e abbandonato dai suoi in territorio nemico, è accolto in un collegio femminile dove scatena rivalità e gelosie che gli saranno fatali. Tratto da un romanzo di Thomas Cullinan e sceneggiato da Grimes Grice (Albert Maltz) e John B. Sherry, adorato dai fans di Siegel e di Eastwood, fu un disastro al botteghino. Cupo dramma gotico fiammeggiante, esprime, in versione misogina, il pessimismo esistenziale di Siegel in uno stile espressionista, carico di ralenti onirici, splendidamente fotografato (Bruce Surtees) su colori autunnali. La critica scoprì le doti di Eastwood attore.
Martin Delambre sposa una giovane dall’oscuro passato. I due si sono incontrati in circostanze quanto meno insolite: lei è fuggita da una casa di cura e lui l’ha incontrata per strada, l’ha accolta in casa, finché è nata una travolgente passione. La donna potrebbe, adesso, vivere un’esistenza serena, ma il destino dei Delambre è in agguato. Henry, padre dello sposo, non ha infatti rinunciato agli esperimenti con il teletrasportatore – la macchina che scompone la materia per ricomporla in un altro luogo – provandola su cavie umane con risultati disastrosi. Il film ha poco in comune con i due precedenti ispirati al romanzo di George Langelaan. La sceneggiatura piega volentieri sul versante dell’horror ed il regista Don Sharp la asseconda senza grande ispirazione. Protagonista è Brian Donlevy, già interprete di due film del dottor Quatermass. Nel cast figura l’attore Burt Kwouk più noto per avere impersonato Chato, il domestico dell’ispettore Closeau nella serie della Pantera Rosa.
Scampato più volte alla morte, il dottor Fu Manchu riorganizza una diabolica setta di dissidenti cinesi (i “Fazzoletti Rossi” di cui al fuorviante titolo italiano) e progetta una nuova strategia di terrorismo internazionale scegliendo le coste africane del Mediterraneo come zona di operazione. Dopo avere rapito le figlie di alcuni eminenti scienziati egli li costringe a collaborare con lui nel perfezionamento di una super-arma che sprigiona potenti scariche di energia distruttiva attraverso le onde radio. Ma l’ispettore Nayland Smith, suo indomabile avversario, comprende che il sequestro degli scienziati nasconde una terribile minaccia per la pace nel mondo e, deciso ad annientare il mandarino cinese, ottiene la collaborazione della Legione Straniera e di Franz Baumer, il coraggioso fidanzato di Marie Lentz, una delle ragazze scomparse. Baumer riesce ad individuare l’avveniristico laboratorio segreto di Fu Manchu e, sfuggito alla prigionia, allerta Smith appena in tempo per evitare un terrificante attentato. Il film è più vicino agli intrecci fantaspionistici di James Bond che non allo spirito delle pagine di Sax Rohmer. La storia si distacca notevolmente dall’omonimo romanzo, anche ne conserva il ritratto dello spietato protagonista, uomo dalla mente geniale e perversa che adopera i ritrovati della scienza con la stessa disinvoltura con la quale si applica all’ipnotismo e alle più sadiche torture. Christopher Lee, per la seconda volta nel ruolo di Fu Manchu, offre un’interpretazione convincente e il racconto, arricchito da belle scenografie e da una suggerita atmosfera erotica, procede senza tempi morti – e senza pretese – all’insegna dell’avventura pura. Nel cast figura anche Burt Kwouk (il servitore Cato dell’ispettore Clouseau della saga della Pantera Rosa) nei panni di un seguace di Fu Manchu.
Sceriffo dell’Arizona è inviato a New York per ottenere l’estradizione di un assassino. Lo preleva, se lo fa portar via dai suoi complici, è esonerato dal servizio, lo riacchiappa. 1° film del sodalizio Siegel-Eastwood, è il tentativo di mescolare il western col poliziesco o, meglio, di verificare l’etica del primo nel contesto metropolitano del secondo. Su una sceneggiatura riscritta 8 volte e destinata ad altro regista, Siegel fa un film violento e teso che manca di un preciso punto di vista sul protagonista. Eroe o antieroe?
Padre, madre e due figli in viaggio in macchina attraverso il paesaggio maestoso del Cile settentrionale. Le dinamiche familiari viste dal punto di vista dei ragazzi, narrate mettendo la macchina da presa alla loro altezza, osservando il mondo degli adulti dalla loro prospettiva.
Jeff è un fotografo trentenne. Hayley una ragazzina di quattordici anni ma molto, molto più sveglia di quanto la sua età potrebbe far credere. I due, dopo lunghe sessioni di chat in internet decidono di incontrarsi. Dopo un drink e una fetta di torta si recano a casa di Jeff, ma quella che poteva diventare una giornata allegra e piacevole si trasforma per il fotografo in un incubo senza fine… Inquietante e teso, Hard Candy rovescia la favola di Cappuccetto Rosso: stavolta a subire è il lupo, mentre la potenziale vittima si palesa come il più feroce dei carnefici. Tanta la carne al fuoco in questo splendido thriller che procede di minuto in minuto come un equilibrista in bilico sul filo che rischia di cadere a ogni istante. Lo script rivela poco a poco le ragioni che portano l’altrimenti innocente Hayley a torturare e mutilare Jeff, sospetto pedofilo, permettendo allo spettatore di scoprire un pezzo alla volta il puzzle ordito dall’inquietante teenager. La messa in scena minimalista, con la macchina da presa che insiste sistematicamente sui volti dei protagonisti, l’ambiente colorato ma al tempo stesso asettico che funge da sinistro teatro dell’orrore per questo duello fisico e psicologico, caratterizzano un film teso e vibrante che in certi frangenti lascia davvero senza fiato. Strepitosi i due protagonisti, Ellen Page, già vista nell’ultimo episodio degli “X-Men” e Patrick Wilson: per loro, se continueranno su questa strada, si preannuncia un radioso futuro.
In una cittadina del New Hampshire è uccisa una ragazzina. Accusato dell’omicidio è un suo coetaneo (Furlong) che cerca di fuggire. Il padre scultore (Neeson) lo crede colpevole e cerca di aiutarlo facendo sparire le prove. La madre pediatra (Streep) lo crede innocente e vuole il processo. La sorellina (Weldon) racconta i fatti. Tratto da un romanzo di Rosellen Brown e sceneggiato da Ted Tally, è un dramma a tema, pulito, compatto, robusto, poco inventivo, la cui vera protagonista è la famiglia, intesa come comunità di affetti e cellula della società.
Nelly lascia il marito dopo averlo mantenuto un anno. Incontra l’anziano Arnaud che le dà del denaro e un lavoro (ribatterà al computer un manoscritto dell’uomo) senza chiederle nulla in cambio. Nelly è asciutta e silenziosa, fredda si direbbe, e bugiarda. Viene corteggiata da un editore, che viene subito scaricato quando dimostra intenzioni serie. Quando la donna cerca di tornare sui propri passi è tardi. A Nelly non rimane che l’anziano, col suo affetto almeno. Ma anche lui parte per un lungo viaggio con l’ex moglie. Straordinario Serrault e monocorde Emmanuelle. Equilibrio di sentimenti perfetti, così come la conduzione dei rapporti e delle piccole vicende periferiche, fra realismo, sensibilità e intelligenza. La soluzione di tutti gli intrecci è definita, l’unica possibile. Un caso in cui l’autore oltre a cercare, “trova” davvero. Dialoghi essenziali, minimali, ma con impennate di fraseggio, profondità e poesia mixate con naturalezza e maturità da un regista che si dimostra anche straordinario scrittore, e che non ha avuto bisogno delle frequenti “invenzioni francesi”, quella ricerca dell’imprevedibile e originale a oltranza che caratterizza quel cinema e anche quello di Sautet fino a Un cuore in inverno. Film essenziale e ben girato.
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