Un marito geloso incapace di controllarsi, una giovane moglie molto sexy che si presenta a un provino in una stanza d’albergo da un finto regista. Un giovane spacciatore di droga a domicilio, una ragazza disorientata a cui viene riconsegnato il suo cane lupo. Un venditore di hot dog appena uscito dalla galera. Un misterioso studente, un pulitore di vetri impegnato in una pausa con una porno attrice, un anziano pittore dilettante, un gruppo di paramedici impegnati in una difficile operazione di soccorso e delle suore affamate. Sono questi i personaggi le cui vicende si intrecciano sullo schermo ognuna delle quali ha luogo tra le 17 e le 17.11 di un giorno qualunque a Varsavia.
Sono tre anni che il telefono di una nota star hollywoodiana non squilla, tre anni che attende invano di tornare sotto i riflettori. L’occasione arriva con un film indipendente a basso budget ambientato in un supermercato. L’artista in disarmo, indeciso se accettare o meno la parte, fa un sopralluogo per osservare da vicino i comportamenti del personale e degli acquirenti. Colpito dal carattere determinato di Scarlet, una cassiera latina che occupa e “presidia” la “cassa amica” (massimo dieci pezzi), l’attore è deciso a farne una “protagonista”. Trucco, costume, portamento e recitazione sono alcune delle cose che Scarlet imparerà per superare un colloquio di lavoro e la paura di non essere all’altezza della vita.
Agnes e Atli sono coppia giovane con bambina. La relazione dà segni di stanchezza e si rompe quando Agnes sorprende il marito guardare un video in cui fa sesso con la sua ex. Sbattuto fuori di casa, Atli torna a vivere con i genitori, nella loro villetta con giardino. Ma sotto quell’albero, che sconfina nella proprietà dei vicini, c’è un lutto che pesa e un equilibrio apparente che è sul punto di scoppiare, con devastanti conseguenze.
Emily Taylor è una giovane donna, esaurita dalla depressione. Ora che il marito Martin è finalmente fuori di prigione, dovrebbe lasciarsi il buio alle spalle ma il suo stato emotivo peggiora invece ulteriormente, fino a spingerla sull’orlo del suicidio. Inizia così il rapporto con il dottor Banks, psichiatra di successo, con le pillole e i loro effetti collaterali, blackout compresi. Un giorno, Martin viene trovato esanime in casa, pugnalato a morte. Le tracce conducono alla moglie ma lei non ricorda nulla. Più passa il tempo e s’impilano i suoi film, nella memoria e nella storia del cinema, più due aspetti s’impongono con evidenza riguardo a Steven Soderbergh: innanzitutto, la stretta continuità tematica, sotto la multiforme declinazione formale che le sue produzioni assumono di volta in volta, e, in secondo luogo, la riuscita del contorno più e meglio che del piatto principale. Side Effects non fa differenza: simile per molti aspetti al precedente Contagion, anche ma non solo per l’utilizzo di Jude Law nella posizione di chi è costretto ad inventarsi mezzi non sempre leciti per il bene della verità (e dunque eroe ma non senza ombre, personaggio sempre un po’ scomodo e ambiguo, specie in materia di insider trading), il film esordisce in maniera superbamente accattivante per poi non riuscire a mantenere lo stesso livello di interesse e adagiarsi su percorsi a dir poco scontati. Eppure non c’è dubbio che Soderbergh sappia dov’è la piaga e sappia come muovere il dito (ovvero la macchina da presa) al suo interno. Pochi come lui riescono ad avere una visione macro della società e micro del virus che circola in essa e sanno restituire entrambi i piani, magistralmente amalgamati, nel contesto di un film narrativo cosiddetto tradizionale. Pochi come lui, ancora, sanno assortire cast così oculati, anch’essi trasudanti uno spirito del tempo, in bilico tra aderenza allo show business e critica allo stesso. Probabilmente, è proprio la formula narrativa obbligata a stare stretta al regista, sembra infatti che lui per primo perda interesse nella chiusura del film e si affidi per svolgere questo compito alla via più rodata, per quanto prevedibile. In fondo, ciò che gli premeva fare a quel punto l’ha già fatto, perché il suo è un cinema che pone le domande, che scandaglia le questioni, che -soprattutto- le approccia (spesso per primo) in termini squisitamente filmici. Side Effects , da questo punto di vista, parla chiaro: non è il cinema che si fa giornalismo d’inchiesta, denunciando i complotti e gli affari dietro le cure del bene più fragile e insondabile, e cioè l’anima, ma, all’esatto contrario, è la perversione della società e della cronaca che si offre al cinema come occasione perfetta, sfaccettata ed intrigante quanto basta per costituire una sfida allettante per un regista come Soderbergh.
Due detective svedesi vengono mandati in un paesino della Norvegia per aiutare la polizia locale a risolvere un caso di omicidio. Durante l’inseguimento nella nebbia del sospetto killer, accidentalmente uno dei poliziotti uccide il suo collega. Per nascondere l’incidente il detective accusa del delitto il sospetto assassino in fuga. Ma l’uomo ha visto tutto e baratta il suo silenzio con quello del poliziotto.
6 “racconti selvaggi” (questo il significato del titolo originale stravolto in quello italiano commercialmente fantozziano): 1) i passeggeri di un aereo in volo scoprono troppo tardi di essere accomunati da relazioni con una stessa persona; 2) la cameriera di un autogrill deve servire l’usuraio che ha rovinato la sua famiglia; 3) un sorpasso ostacolato e un insulto scatenano una faida tra 2 automobilisti; 4) ingegnere esperto di demolizioni col tritolo è ingiustamente multato; 5) ricco imprenditore paga il giardiniere perché si accusi di 2 omicidi colposi commessi da suo figlio; 6) pacchiana festa di nozze si trasforma in un duello rusticano tra gli sposi. Il Leitmotiv apparentemente è la vendetta interpersonale, ma è in realtà la ribellione istintiva dell’individuo al “sistema”, alla civiltà organizzata, alle istituzioni, ai suoi costumi, ai suoi riti, alle sue false comodità tecnologiche, alla sua corruzione. Il 3° lungometraggio dell’argentino Szifrón, anche sceneggiatore, Almodóvar produttore, è un noir ibrido per registro e valore: i primi 3 relatos sono dei pulp di largo consumo, i rimanenti sono graffianti grotteschi con una potente e mirata carica satirica. Su tutti svetta il 4°, il più originale, verosimile e universale: impossibile non immedesimarsi in “Bombito”. Miglior film europeo a San Sebastián, il più visto in Argentina nel 2014
Un film di George Stevens. Con Elizabeth Taylor, Warren Beatty, Charles Braswell Titolo originale The only game in town. Commedia, durata 113′ min. – USA 1970. MYMONETRO L’unico gioco in città valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Tratto dal romanzo di Frank D. Gilroy e da lui adattato. Las Vegas: lui ha il vizio del gioco, lei è una ballerina legata a un uomo più anziano e sposato che continua a prometterle che divorzierà. È una commedia a due personaggi fatta di niente e ricca di fascino, tutta giocata sulle nevrosi dei personaggi. E. Taylor è in gran forma, ma soprattutto è Beatty che fa sembrare tutto più intenso, brillante e insieme doloroso. Ultimo film di Stevens.
Scapolo impenitente tenta di dissuadere il nipote dal matrimonio, ma il giovane parte alla controffensiva e vince la battaglia. Lo zio sconfitto finirà per sposare la segretaria che l’amava in segreto. Commedia umoristica senza molte pretese è più che altro una sfilata di storielle, abbastanza ben condite da trovate divertenti, interpretate da noti attori di varietà.
Venduto come schiavo, un giovane orefice viene scelto dai cristiani per disegnare il calice in cui conservare il sangue di Cristo, poi rubato. Coinvolto in intrighi e battaglie, riuscirà a tornare dalla dolce moglie. Esordio di Newman (al posto di M. Brando renitente) in un bizzarro colossal epico-religioso con dialoghi assurdi, scene e costumi terribili, tratto da un best seller di Thomas B. Costain. “Newman recita la sua parte con il fervore emotivo di un autista di autobus che annuncia le fermate locali” (dal New Yorker).
Diplomatico vedovo con figli piccoli assume Cinzia come governante. La vedovanza gli pesa, la governante è attraente. Sit-com al servizio della Loren giunta di fresco a Hollywood. Sdolcinata e prevedibile, ma dialogata con brio. Scritto dal regista con Jack Rose, anche produttore per Paramount.
Quattro marinai di un cacciatorpediniere italiano, in libera uscita a Barcellona, si mettono nei guai in cerca di sottane. È il peggiore dei 4 film interpretati da U. Tognazzi nel 1958: una commediola militar-musicale che sfrutta fino all’inverosimile l’impianto rivistaiolo.
Gli orfani Baudelaire sono tre ragazzi decisamente sfortunati. Alle loro ricchezze punta un diabolico furfante che li perseguita senza tregua. La favole gotiche non sono una prerogativa di Tim Burton, così come i film per ragazzi non sono un monopolio di Harry Potter. Queste le conclusioni che molti spettatori faranno una volta riemersi da questo atipico, brillante, serrato, avvincente film che conferma il talento cristallino di uno dei migliori interpreti del nostro tempo, Jim Carrey, e rilancia le quotazioni di un regista, Brad Silberling, passato più volte dalla polvere all’altare. Confezione curatissima, con scenografie e costumi a dir poco sontuosi, storia incredibilmente fresca e divertente, capace di unire i cliché dei film del genere a trovate innovative e citazioni a raffica ed un cast in piena forma a partire dal protagonista indiscusso, Carrey, sapiente maschera tragicomica e multiforme, qui al suo meglio (la scena in cui rifà il verso a Viale del Tramonto è pronta per diventare un cult di sempre). Fondamentali i ruoli della fotografia, affidata a Emmanuel Lubezki, che avvolge le scene con tonalità che passano del verde smeraldo all’ocra, per chiudersi in un nero pece molto inquietante, alla colonna sonora, a cura di un Thomas Newman davvero irriconoscibile e lontanissimo dalle rassicuranti ed ammiccanti melodie di Nemo o dalle acute e laconiche stilettate sonore di American Beauty. Piacevole viaggio nella fantasia e eccellente intrattenimento per tutti, Lemony Snicket’s (cui unico difetto è un doppiaggio in italiano non particolarmente riuscito) dimostra inequivocabilmente che Alice nel paese delle meraviglie ed Il mago di Oz, hanno trovato un degno erede. Da vedere.
Un film di Boris Sagal. Con Charles Gray, David McCallum, Suzanne Neve, David Bick, David Dundas Titolo originale Mosquito Squadron. Guerra, Ratings: Kids+13, durata 90 min. – Gran Bretagna 1970. MYMONETRO La squadriglia dei falchi rossi valutazione media: 2,00 su 1 recensione.
Un coraggioso tenente della Raf viene ritenuto disperso, ma è stato catturato dai nazisti che lo tengono in un castello con altri prigionieri. Le avversità gli hanno fatto perdere la memoria.
Una donna divorziata con due figli adolescenti si stabilisce nella casa del padre in un villaggio della California apparentemente tranquillo. In realtà è infestato da una banda di vampiri. Il figlio maggiore si innamora di una bella vampiretta (però suscettibile di normalizzazione), la madre addirittura del capo vampiro.
Un film di Peter Sasdy. Con Linda Hayden, Christopher Lee, Anthony Corlan Titolo originale Taste the Blood of Dracula. Horror, durata 95′ min. – Gran Bretagna 1970. MYMONETRO Una messa per Dracula valutazione media: 1,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nella Londra vittoriana tre nobilastri annoiati convincono Lord Courtley a ridestare il suo maestro, il vampiro Dracula ma poi, terrorizzati, uccidono l’amico. Per vendicarsi, Dracula sottomette alla sua volontà i figli dei tre malvagi. Solo uno dei giovani riesce a sottrarsi e affronta il vampiro. 4° Dracula della Hammer con C. Lee, banale e stracolmo di insulse trovate macabre. Seguito da Il marchio di Dracula.
È il 2° dei 3 musical diretti da Stevens per la RKO e il 6° della coppia Astaire/Rogers. Se l’azione narrativa è, come il solito, convenzionale _ un seguito di equivoci, baruffe, riconciliazioni sino al prevedibile matrimonio finale _ è ravvivata da dialoghi spiritosi e da un’intensità emotiva dei personaggi, merito di una sceneggiatura accorta (Howard Lindsay e Allan Scott) e della regia elegante. Eccellente la partitura di Jerome Kern (musica) e Dorothy Fields (testi) con le coreografie di Hermes Pan: “A Fine Romance”, “The Way You Look Tonight” (premiata con l’Oscar), “Pick Yourself Up”, lo struggente “Never Gonna Dance”, “Waltz in Swing Time”. C’è anche un numero di alto virtuosismo tecnico: “Bojangles of Harlem”, omaggio al nero Bill Robinson con cui Astaire aveva lavorato a teatro vent’anni prima.
Durante la guerra 1940-45 due bambini inglesi, sfollati in campagna, scoprono che la padrona di casa studia da strega. Insieme a lei mandano a monte uno sbarco tedesco. Fantasia musicale sulla scia di Mary Poppins. Trucchi efficaci e poche invenzioni spiritose in un racconto greve.
Alla fine dell’Ottocento Beppe Musolino, carbonaio calabrese, ama la bella Mara, ma è inviso a suo padre che la vorrebbe sposata con Don Pietro, capo della ‘ndrangheta. Della sua uccisione è accusato Musolino e, in base a tre false testimonianze, condannato. Evade, si dà alla macchia, si vendica di due testimoni. Quando in un’imboscata Mara muore, mette a morte l’assassino e si costituisce. Versione romanzata e romantica di una storia vera per mano di 8 sceneggiatori (oltre al regista, F. Brusati, E. De Concini, I. Perilli, V. Talarico più A. Leonviola, M. Monicelli e Steno), prodotta da Ponti-De Laurentiis, è un melodramma paesano d’azione, modellato sul western americano (scene di tribunale comprese), ribattezzato southern da Ennio Flaiano. Fotografia: Aldo Tonti. A. Nazzari in gran forma brigantesca. G. Musolino (1876-1956) fu condannato a 21 anni di carcere nel 1897 e all’ergastolo nel 1901. Trasferito dopo il 1945 in un manicomio criminale, fu rilasciato in tempo per vedere il film, protestando per lo scarso rispetto alla verità della sua vicenda.
Trascurata dal marito, la principessa Lucia, per ingelosirlo, s’inventa invio di omaggi e telefonate misteriose. Morta la commedia di costume, le è subentrata quella evasiva, brillante, frivola che non ha più agganci con la realtà. Vitti in gran forma e Abatantuono colorito per placida enfasi e linguaggio immaginoso. Dalla commedia Appuntamento d’amore di Aldo De Benedetti, sceneggiata dal regista col figlio Enrico Vanzina.
Durante un soggiorno in un albergo vicino Chicago, Richard Collier, commediografo in crisi di ispirazione, crede di riconoscere nella fotografia dell’attrice Elise McKenna, diva degli anni ’10, l’anziana signora che 8 anni prima, agli esordi della carriera, gli aveva donato un orologio augurandogli un avvenire di successo. Sfogliando i vecchi registri dell’hotel, Collier scopre, in una pagina del 1912, accanto al nome della donna anche il suo. Irretito dal mistero, Collier, per mezzo dell’autoipnosi, lascia vagare la propria coscienza nel tempo fino a ritrovarsi in un impossibile passato in compagnia di Elisa per rivivere con lei una intensa storia d’amore e quando i due devono separarsi lui le fa dono di un orologio…Ridestatosi nel presente, Collier non sa più evadere da una profonda malinconia: il ricordo della donna è più che mai vivo e la sola speranza che gli resta per incontrarla di nuovo è abbandonarsi alla morte. L’incisione sulla cassa di un orologio: “Come back to me”… La sensazione di riconoscere in un viso il volto di un’altra… L’assurdo accostamento di due nomi lontani 70 anni l’uno dall’altro… La convinzione di vivere in un passato… Lo stesso orologio che passa di mano in mano e il tintinnio di una moneta del 1980 che fa svanire un sogno fin troppo simile ad una realtà… Gli elementi per un film di successo – e per una interessante divagazione in chiave intimistica sul tema del viaggio nel tempo (con un probabile riferimento formale al classico Il ritratto di Jennie) – ci sono tutti.C’è, soprattutto, una bella sceneggiatura tratta da un intrigante romanzo di Matheson. Ma, si sa, una cosa è il romanzo, un’altra il suo adattamento cinematografico… Nonostante le buone intenzioni (la cura nella ricostruzione d’ambiente, il taglio delle inquadrature, l’uso delle ombre e del colore pastoso), l’eccessiva componente sentimentalistica e l’interpretazione non molto convincente di Christopher Reeve non liberano il film dalla patina del preziosismo formale. Apprezzato più in America che in Italia.
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