Nella Roma papalina due carbonari compiono un attentato e subito sono catturati dai gendarmi. Un gruppo di popolani romani cerca di salvarli, ma inutilmente. Rimane libero però il Cornacchia, che continua a fare l’oppositore scrivendo versi irriverenti sulla statua di Marco Aurelio.
Un’organizzazione contrabbanda la droga in modo semplice ed efficace. La nasconde in piccoli oggetti di persone del tutto ignare. Una volta a destinazione c’è chi recupera la “roba”. L’addetto a questa operazione è un assassino fin troppo crudele: uccide sistematicamente gli inconsapevoli corrieri e arriva persino ad ammazzare durante una lite il gran capo in persona. La polizia però è sulle sue tracce. Inseguimento in macchina per le vie di New York, sparatoria e punizione finale.
Nel primo episodio, una celebre diva americana intreccia una relazione con un uomo sposato. Nel secondo, un giornalista che deve scrivere un articolo su un magnate dell’industria s’innamora della protetta di costui. Ancora: due sposini siciliani in viaggio di nozze vengono guidati da un amico incontrato per caso nei night della Costa. Nell’ultimo episodio, un commerciante romano di frutta e verdura accompagna la moglie a un provino cinematografico; ma è lui invece a restare irretito dalle lusinghe del cinema, finché la moglie lo riconduce alla realtà e alla bancarella di ortofrutticoli.
3 episodi (più “L’università”, semidocumentario): “La bomba alla televisione” (con V. Gassman come regista anarchico); “Concerto a tre pifferi” (ritratto di un industriale); “Il prete” (A. Sordi parroco di campagna che vorrebbe sposarsi). Scritto da Benvenuti & De Bernardi, non è all’altezza del tema. Il migliore scritto da R. Sonego, è l’ultimo con Sordi in gran forma, mentre Gassman istrioneggia a ruota libera. In mezzo c’è il grande M. Simon che riesce a ridurre N. Manfredi a spalla.
Una malattia per molti versi simile all’influenza suina ma capace di svilupparsi anche per contatto con estrema rapidità sta colpendo il mondo. La comunità medica mondiale si trova in breve tempo a dover affrontare la ricerca di una cura e il controllo del panico che si diffonde progressivamente ovunque. Le persone reagiscono in modo diverso e a seconda della responsabilità che è stata loro attribuita o che si sono autonomamente conferita. Se un alieno fosse messo dinanzi a Ocean’s Eleven, Full Frontal e Il Che quasi sicuramente non direbbe che sono frutto del talento dello stesso regista. Perché uno dei grandi pregi di Steven Soderbergh (anche quando, come in questo caso, lavora su commissione) è quello di continuare a sperimentare sia sul piano della sceneggiatura che su quello linguistico cinematografico.
Sono passati sedici anni dalla morte di Marco Aurelio e Roma è sotto il governo tirannico e corrotto di Geta e Caracalla, imperatori fratelli, quando, dalla Numidia, con un carico di schiavi, arriva in città il misterioso prigioniero di guerra Annone, che si fa subito notare per le sue capacità nella lotta e viene scelto come gladiatore da Macrino, ambizioso consigliere dell’Impero. La vittoria nei combattimenti può fare di Annone un uomo libero, ma tutto ciò a cui il giovane sembra aspirare è la vendetta nei confronti del generale Acacio, marito di Lucilla e responsabile della morte di Arishat, sua amata sposa.
Eroiche peripezie di Maximus, generale romano di origine ispanica. Quando Commodo (161-192), succeduto al padre Marco Aurelio (121-180), lo arresta e gli fa massacrare la moglie e il figlio, diventa schiavo e poi gladiatore, idolo della folla, finché nel Colosseo combatte contro l’imperatore. Al di là dei costi (107 milioni di dollari, riprese a Malta, in Marocco, la foresta di Bourne Woods in Inghilterra), del dispiego di effetti speciali computerizzati e del can-can plurimediatico, il megafilm della Dreamworks (Spielberg & Co.) è una parabola fantastorica sulla società dello spettacolo e sull’uso dello spettacolo che il potere _ tutti i poteri, anche religiosi _ ha fatto per suggestionare e dominare le masse. La sua inattendibilità storica è esplicita ed esibita nei personaggi, nelle scene, nei costumi: nell’itinerario di Scott si collega, nel bene e nel male, a Blade Runner e Alien. Altrettanto espliciti sono i suoi meriti (l’interpretazione del poliedrico neozelandese Crowe; la furente battaglia iniziale, cioè l’ordine del dominio contro il caos della ribellione; i combattimenti nel circo dove eccelle il talento di Pietro Scalìa al montaggio) e i suoi demeriti (anacronismi, scritte latine sbagliate, banalità nella sceneggiatura di David H. Franzoni e soci). Critica divisa: trionfo spettacolare del postmoderno o finto cinema che punta al solleticamento del nervo ottico? 5 Oscar: miglior film, Crowe, costumi, effetti speciali e suono.
In una landa desolata del Nord-Est Italia, tra cave di pietra, case sparse e anonimi centri commerciali, vivono un padre e un figlio. Rino Zena, disoccupato e ostinato, educa Cristiano, un adolescente timido e irrequieto che i compagni schivano e le ragazzine umiliano. Soli contro il mondo e contro tutti, hanno un solo amico: Quattro Formaggi, un disgraziato offeso da un incidente con i fili dell’alta tensione e ossessionato da Dio, dal presepio e da una biondissima pornodiva. Uniti da un amore viscerale, Rino e Cristiano tirano avanti un’esistenza orgogliosa che reagisce alla prepotenza del prossimo e all’ingerenza dei servizi sociali. Dentro una notte di pioggia e fango una ragazzina cambierà per sempre i loro destini.
Partendo da un fatto di cronaca che ha del sorprendente, Cold fish racconta di un nucleo familiare composto da un uomo, una donna più giovane sposata dopo la morte della precedente compagna e una figlia di primo letto che mal tollera la nuova presenza. I tre, cominciano a frequentare il tenutario di un grande negozio di pesci amazzonici, poichè egli non ha denunciato la figlia, presa a rubare in un supermercato. Con il procedere dell’invadenza dell’uomo sempre di più emerge uno scenario paradossale: morti, cadaveri fatti a pezzi e ascesa sociale folle diventano la regola della loro vita volenti o nolenti, fino ad un finale impensabile anche date le premesse.
harley Varrick, un ex acrobata d’aereo, decide di cambiare vita e dedicarsi alle rapine in banca. Ma a Tres Cruces, nel New Mexico, rapina una banca, che in realtà è un deposito in cui una banda di gangster tiene il denaro da riciclare. Ciò scatena una furibonda caccia all’uomo.
Nella Little Italy di New York J.R. passa le sue giornate con gli amici Joey e Sally (Salvatore) detto Gagà, tutti e tre vitelloni un po’ ribaldi, americanizzati ma ancora impregnati della cultura dei loro genitori immigrati dall’Italia del Sud. 1° film lungo di M. Scorsese, girato a basso costo (40 000 dollari), parzialmente in 16 mm, influenzato da Godard e Cassavetes. Appare a ritroso come un brogliaccio di Mean Streets (1973) dove il racconto è subordinato alla descrizione dell’ambiente e dei personaggi sui temi dell’educazione sessuale, dell’etica sessuale e del maschilismo. La legna di Scorsese è ancora verde, e spesso fa fumo, ma è legna buona. 1° film di H. Keitel. Altri titoli: Bring on the Dancing Girls , I Call First , J.R. Distribuito in Italia nel 1978.
Famoso ballerino s’innamora a Londra di gentile signora in attesa di divorzio. 2° film RKO della più grande coppia di ballerini mai vista sullo schermo. Trabocca di balletti deliziosi e di canzoni. C’è la stupenda “Night and Day”, ma anche “Continental” (17′ di danza e musica) dove, per chi sa vedere, è chiaro che per la coppia ballare corrisponde a far l’amore. C’è anche B. Grable, allora sconosciuta, che si fa valere.
Andrea, ufficiale della Nato, parte per una vacanza di riposo in montagna consigliatagli dallo psicanalista, che gli ha rimproverato l’eccessiva frenesia amorosa. Ma anche in vacanza Andrea non perde il vizio di correre dietro alle donne.
Dal romanzo The Executioners (1958) di John D. MacDonald. Dopo 14 anni di carcere uno stupratore terrorizza a fuoco lento la famiglia del suo avvocato difensore. 1° film di genere e 1° remake di Scorsese, da Il promontorio della paura (1962). Il suo fascino perverso nasce dal fatto che, nonostante tutto, si è portati a provare simpatia per il criminale più che per la vittima, moralmente spregevole quanto lui, almeno fin quando verso il finale la violenza, prima latente, esplode con isterica e magniloquente frenesia. Sapiente costruzione drammatica nell’alternarsi di tempi forti e deboli, ottima squadra di attori, notevoli contributi di F. Francis (fotografia), E. Bernstein (che ha arrangiato la partitura originale di B. Herrmann), Saul e Elaine Bass (titoli di testa). Brevi apparizioni di Robert Mitchum, Gregory Peck, Martin Balsam, interpreti del film precedente
Jim Carrey affronta l’autostrada del demenziale deciso a percorrerla a grande velocità. Con questo film il regista Shaydac si mette a sua completa disposizione dandogli corda. Il problema è di non usarla per impiccarsi. Una comicità come quella del Nostro (che inserisce nei titoli di coda gli spezzoni scartati) rischia, alla lunga, di diventare ripetitiva e noiosa.
In una zona povera e depressa dell’Ohio, l’amicizia tra Martha, obesa e fulva 40enne, e il 20enne Kyle è turbata dall’arrivo della disinibita ragazza-madre Rose. Pochi giorni dopo Rose è trovata strangolata. Prodotto, scritto e diretto dal polimorfo e prolifico S. Soderbergh che l’ha anche fotografato (in digitale) e montato sotto pseudonimo, è il film più breve, più grigio, meno costoso (1,5 milioni di dollari), forse più gelido, sicuramente più anaffettivo fatto negli USA da molti anni. Nessuna compassione per i personaggi atoni, interpretati senza una stecca da sconosciuti trovati sul posto. Agli spettatori e ai critici il compito di interpretarlo: pamphlet sul degrado etico e sociale della provincia USA? parabola sulla banalità del male? compatto e controllatissimo esercizio di narrativa antihollywoodiana? 1° film distribuito negli USA contemporaneamente in sala, in DVD e su una pay-TV: malissimo sul primo mercato, bene negli altri. Fuori concorso a Venezia 2005. Bubble sta per bolla, ma anche chimera, frode.
Dal romanzo Hier ( Ieri , 1995) di Àgota Kristóf, sceneggiato da Doriana Leondeff col regista. Figlio della prostituta di un villaggio dell’Est europeo, ucciso il padre (così crede), il piccolo Tobias fugge all’Ovest. 20 anni dopo lavora da operaio in una fabbrica di orologi della Svizzera francese, consolato, nella sua grigia routine, dalla scrittura e dall’attesa di Line, la donna che amerà e che cerca in tutte le donne che incontra finché arriva davvero: è la sua sorellastra. È il 6° lungometraggio narrativo di S. Soldini, il primo incentrato su un personaggio maschile, forse il più intenso e lirico, certamente il più ambizioso a livello stilistico, ma irrisolto e diseguale sul piano drammaturgico. Le componenti psicanalitiche della storia sono trascurate o rimosse come nel finale “psicologicamente verosimile, ma concettualmente indifendibile” (V. Buccheri). Si affaccia sul melodramma, ma poi frena e non si abbandona. L’atout del film è la scelta del ceco I. Franek che dà al protagonista un febbricitante tormento. Al suo fascino, anche nelle incursioni oniriche, contribuiscono la fotografia in formato largo di Luca Bigazzi e la musica di Giovanni Venosta ben mixata col suono di François Musy. Girato a La-Chaux-de-Fonds. Le voci italiane dei due protagonisti sono di Fabrizio Gifuni e Licia Maglietta.
Dwight è un derelitto, fruga nella spazzatura e dorme nella sua macchina. Capiamo come sia arrivato a questa condizione solo quando viene a sapere che un uomo sta per uscire di prigione: la persona che anni prima ha ucciso i suoi genitori e che ora è di nuovo a piede libero. La notizia gli ridà forza, lo rimette in sesto, determinato a pareggiare i conti uccidendo la persona che la legge ha lasciato libera. Dwight però è anche una persona normale, che ha poca confidenza con le armi o con la violenza, ed è solo la forza del desiderio che lo anima a spingerlo. Non è un semplice film di vendetta Blue Ruin, la sua propensione ad inseguire dalla prima inquadratura fino all’ultima il concretizzarsi di un desiderio di vendetta personale, senza fare preamboli ma anzi raccontando durante lo svolgersi degli eventi del film (e molto lentamente) i crimini originali che hanno scatenato la catena di ripicche, lo rende uno degli studi più puri sull’aberrazione umana cui questo sentimento può portare. In questo senso fa un preciso uso, quasi matematico, della più efferata violenza, non risparmiando nulla allo spettatore. In quest’idea narrativa è contenuta anche l’essenza dello spirito di un film che intende guardare pornograficamente il suo protagonista nel suo forzarsi a portare a termine un’impresa per la quale non è tagliato. La dicotomia tra il desiderare molto qualcosa e il non è essere molto capace a portarla a termine è dunque l’espediente narrativo che Jeremy Saulnier usa per mettere in scena la follia del gesto in sè, puro nella propria inesorabile semplicità. Uccidere a sangue freddo quando non lo si è mai fatto prima, trascinare la propria vita in un baratro ancor più profondo di quello in cui già non versi solo per desiderio di rivalsa umana. Jeremy Saulnier scrive e dirige un protagonista tanto più inadatto al vendicarsi quanto più determinato a farlo e, dei tanti possibili angoli, sceglie di mostrarci quello che più mette in luce l’investimento personale, sentimentale e carnale che la sua vendetta richiede. Cosa si deve sacrificare? Come è possibile diventare degli omicidi? Come ragiona una persona normale coinvolta in una catena di assassinii? In questo senso Blue ruin si differenzia dal vengeance movie idealtipico, poichè la sua rivincita più viene perpetrata meno ha un sapore soddisfacente, invece che essere un lungo viaggio o una lunga pianificazione per il più clamoroso dei confronti (destinato a giungere al culmine del climax narrativo) è un lento mettere a punto il meno calcolato dei piani dal più improvvisato dei killer, tradendo qualsiasi crescendo emotivo (emblematica la bellissima scena del confronto con la sorella nel fast food, un dialogo struggente che arrivato al suo culmine è interrotto comicamente da un uomo che chiede un po’ di ketchup). Trascinati e motivati inizialmente da una spinta tra le più forti per portare rancore, gli stessi spettatori assistono all’esaurirsi e all’impoverirsi di questa, a come la propulsione della rabbia lasci il posto a una lucida follia e soprattutto alle conseguenze che un gesto di vendetta comporta. Non è certo priva di umorismo (benchè serissima in ogni sua componente) quest’odissea nel grottesco americano, nelle case piene di armi e nelle leggi senza senso che negli Stati Uniti fanno da quadro a simili regolamenti di conti, nei vecchi amici del liceo disposti a prestare un po’ di pallottole e nei mitra nascosti nelle poltrone. Un senso dell’umorismo pacato ma acuto da cui ben si comprende la distanza che Jeremy Saulnier prende dal proprio protagonista mentre lo guarda perseverare nei suoi istinti e desideri peggiori, noncurante dei rischi a cui tutto ciò lo espone.
Ancora sconcertato dalla morte del figlio, il padre ( Jo Sung-ha ) dello studente delle superiori Ki-tae ( Lee Je-hoon ) cerca di rintracciare i suoi due migliori amici, i compagni di classe Hee-joon ( Park Jeong-min ) e Dong- yoon ( Seo Jun-young), per cercare di trovare una spiegazione. Attraverso il compagno di classe di Ki-tae, Jae-ho, il padre incontra Hee-joon, che dice di non poter essere d’aiuto perché ha cambiato scuola “settimane prima di quello che è successo a Ki-tae”. Successivamente, Hee-joon rimprovera Jae-ho per aver dato il suo numero di telefono al padre di Ki-tae, ma Jae-ho gli dice che Ki-tae “è impazzito” dopo che si è trasferito. Hee-joon riesce a rintracciare Dong-yoon e lo esorta a contattare il padre di Ki-tae e fornire alcune risposte. Parallelamente, i flashback del tempo rivelano gradualmente ciò che è realmente accaduto, a partire dalle punture e dal bullismo di Ki-tae nei confronti di Hee-joon e dalla risposta di quest’ultima.
“Io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”: frase storica, storico film, giunto – a venticinque anni dalla sua prima uscita – alla terza edizione, dopo il director’s cut del 1992 e la versione, a quanto pare definitiva, del 2007. Torna dunque in servizio l’ex poliziotto fallito Rick Deckard, prestato all’unità speciale Blade Runner, per dare la caccia ai replicanti, uguali in tutto e per tutto agli esseri umani salvo per l’apparente incapacità di provare dei sentimenti e per la durata limitata delle loro esistenze: circa quattro anni. In una Los Angeles del futuro, anno 2019, cupa, nebbiosa e terribilmente affollata, il simulacro dell’esistenza nella pessimistica penna di Philip K. Dick ritrova vita nelle immagini girate nel capolavoro di Ridley Scott. Oltre al piacere di rivedere un classico del cinema – con tutti i costrutti filosofici che ne conseguono – questa nuova versione di Blade Runner sembra soddisfare più un ben determinato piano commerciale, piuttosto che una vera e propria rivisitazione operata dal regista rispetto alle scorse versioni. A parte la rimasterizzazione dell’opera e lo zampino già noto dell’artista francese Moebius (Jean Giraud) chiamato a evocare alcuni scenari tratti da un suo fumetto a sfondo fantascientifico, nonché delle musiche a sfondo futuristico dei Vangelis, “Blade Runner” vanta dei cambiamenti quasi impercettibili (almeno rispetto al Director’s Cut del 1992) rimanendo quello che era: il cult movie che ha conquistato almeno tre generazioni di spettatori. La voce narrante, onnipresente nell’originale del 1982, è totalmente sparita, togliendo al film la sua caratterizzazione principale e indebolendo parzialmente la storia (passata) del personaggio interpretato da Harrison Ford. Più nitida, invece, la scena centrale del sogno, importante chiave di (non) lettura sulla vera natura di Rick Deckard, forse anch’egli un replicante. Ed è il finale a confermare una tendenza pessimistica (rispetto all’happy end “ecologista” imposto dalla produzione nella prima stesura, portata a termine con le scene scartate da Kubrick in Shining), che si rifà sostanzialmente a quello della seconda versione. Insomma, il ritorno al cinema (e in un cofanetto con ben 5 dvd) di Blade Runner è un piacere per gli occhi e per la mente. Ma non aspettatevi grosse novità: dopotutto i replicanti vivono all’incirca quattro anni, mentre Blade Runner è già entrato nella storia.