Anna, una donna sulla trentina, rievoca l’infanzia funestata da morti, incubi e nevrosi. A dieci anni, dopo la morte dell’amatissima madre, aveva tentato di uccidere il padre, non riuscendovi. Costui era poi morto d’infarto, e di Anna si era occupata una zia. Solo con la fine dell’adolescenza si era poi liberata delle sue angosce.
Tratto dall’omonima pièce di Bertold Brecht, un film per la televisione in cui Schlondorff tematizza la ribellione, aderendo in tal modo all’ideologia (sessantottina) che imperversava a quel tempo in Europa.
Romanzo epistolare imperniato sull’amore tra due sorelle di colore e sui loro differenti destini dal 1908 al 1937. Dalla brutale negritudine dell’adolescenza all’emancipazione dell’età adulta. Tratto dal forte e pluripremiato romanzo (1981) di Alice Walker, premio Pulitzer 1983. S. Spielberg ha rischiarato la torva materia epica del romanzo con i colori romantici dell’elegia, smussando le tinte e attenuando i passaggi spinti. Carico d’emozioni, figurativamente sontuoso, regia inventiva. W. Goldberg un po’ teatrale, ma bravissima. Sceneggiato da Menno Meyjes. Fotografia: Allen Daviau. 11 candidature agli Oscar, nemmeno una statuetta. Nella stagione 2005-06 ne fu tratto il musical di Marsha Norman, Brenda Russell, Allee Willis e Stephen Bray. Grande successo.
Una ragazza che ha partecipato ad un ballo di militari (durante il quale si è ubriacata) si accorge di aspettare un figlio. Tenta così di sposare l’uomo che ama senza riuscirvi per una serie di disavventure. Divenuta madre di sei pargoli conquista fama in tutti gli Stati Uniti.
Da un romanzo di P. Benchley. Uno squalo semina il panico sulle spiagge di una cittadina americana dove ha divorato due bagnanti. Uno scienziato, un pescatore, lo sceriffo locale si impegnano a fondo per eliminare il mostro.
Oklahoma, primi anni Venti. Ernest Burkhart ha combattuto in guerra e torna nella nativa Fairfax in cerca di fortuna. Suo zio William Hale gli ha promesso un lavoro all’interno della Nazione Indiana degli Osage, che sono diventati improvvisamente ricchi perché sul terreno “risarcito” loro dagli yankee – perché sembrava infruttuoso – è comparso il petrolio in grandi quantità. Su consiglio dello zio, Ernest sposa una donna nativo-americana, Molly, in parte perché spera di appropriarsi delle sue ricchezze, in parte perché ne è davvero innamorato.
Nella Nazione Indiana gli Osage si stanno ammalando e muoiono uno dietro l’altro di una strana “consunzione”, o di quella malinconia che i conquistatori sono ben contenti di far loro affogare nell’alcool. Quelle morti sono strategiche e stanno avvenendo anche nella famiglia di Molly. E la cittadina di Fairfax è piena di disperati pronti a commettere omicidi, furti e rapine, sapendo che la legge chiuderà un occhio su chi prende di mira i “pellerossa”.
Killers of the Flower Moon, ispirato al romanzo omonimo di David Grann, stana il peccato originale degli Stati Uniti: quella avidità e prepotenza di cui i pionieri si autoassolvono raccontandosi un mare di bugie.
In questo senso va alle radici profonde dell’ethos (o della mancanza di etica) dell’epopea di conquista, generatrice di quel comportamento criminale che avrebbe in seguito preso varie forme, dal gangsterismo alla mafia ai crimini dell’alta finanza. Ciò accomuna il film di Martin Scorsese, che ne è regista e sceneggiatore insieme ad Eric Roth, ad altre “origin story” come Il petroliere che espongono senza mezzi termini il cinismo opportunista dell’America, ma lo apparenta anche a Casinò, che raccontava il gioco d’azzardo come istituzionalizzazione dell’avidità. Ma per restare nel mondo di Scorsese Killers of the Flower Moon rimanda oltretutto al recente Silence, che raccontava un altro annientamento di una “civiltà” conquistatrice su una indigena.
Rispetto al best seller cui è ispirato, Killers of the Flower Moon cambia il protagonista: non più un agente di quel Bureau of Investigation che va ad indagare sulle morti in Oklahoma e che sarebbe diventato il nucleo fondante dell’FBI, ma Ernest Burkhart, che “ama i soldi quanto sua moglie” e che viene manipolato dallo zio per venalità e ignoranza, mantenendo una perversa misura di sincerità contenuta nel suo stesso nome (“Earnest” significa “onesto” o “autentico”). Se Burkhart è la faccia parzialmente inconsapevole del Male, William Hale è il Male che giustifica se stesso sulla base di quel senso di innata superiorità che gli fa considerare inevitabile l’eliminazione di una comunità diversa dalla propria. La sua cattiva coscienza è più evidente, e agghiacciante, nei momenti in cui dichiara di amare il popolo Osage e di volersi scusare per “i tanti problemi che vi abbiamo causato”, così come è agghiacciante la spietatezza prosaica con cui dichiara che per gli indiani d’America “il tempo è passato”, rendendoli di fatto dispensabili.
Killers of the Flower Moon è un grande affresco che, prendendo le mosse da una serie di delitti, si libera della detection per illuminare le dinamiche dietro i comportamenti criminali, e il lato oscuro dell’animo umano che li razionalizza come “affari”. Ma il senso di impunità e di autolegittimazione non è solo quello dei protagonisti di questa storia: è quello che ha consentito ad ogni sistema di potere di fare il bello e il cattivo tempo ritenendosi dalla parte giusta della Storia, e nel caso specifico è una critica sostanziale del sistema nordamericano.
Un commesso viaggiatore ha la malaugurata idea di superare a tutti i costi un’autocisterna che non gli dà strada. Da quel momento comincia una gara che si trasforma in un incubo: l’altro pilota, invisibile, fa di tutto per buttarlo fuori strada. Sceneggiato da Richard Matheson, maestro dell’horror quotidiano, e tratto da un suo racconto, nato come film-TV di 73′ e diretto in 16 giorni dal 24enne Spielberg, nel ’73 fu distribuito, allungato di un quarto d’ora, nelle sale cinematografiche e divenne un successo internazionale. A parte la maestria tecnica (con un ingegnoso senso del ritmo e dello spazio), Spielberg ha il merito di aver trasformato, spingendo una situazione banale alle estreme conseguenze, un qualsiasi on the road in un thriller onirico e angoscioso dagli evidenti risvolti metaforici.
Cowboy texano arriva a New York deciso a fare soldi con le donne ma passa brutte esperienze e un duro inverno con Ratso Rizzo, italoamericano zoppo e tubercolotico. Cinedramma patetico su una strana amicizia che sboccia come un fiore nel fango di Manhattan.Ebbe 3 Oscar: film, regia, sceneggiatura (Waldo Salt, da un romanzo di James Leo Herlihy). Per Hoffman, piccolo grande uomo, soltanto una nomination; la ebbe anche Voight. Fu per entrambi il 3° film e il definitivo lancio come star. Grande successo anche per la canzone “Everybody’s Talkin'” di Fred Neil, cantata da Henry Nilsson.
Divorziato che vive (quasi felicemente) da solo ospita un amico, ancora dolorante per la sua recente separazione, ma la convivenza si trasforma in una specie di matrimonio di cui ha gli inconvenienti più che i vantaggi. Scritto da Neil Simon che adattò un suo grande successo (1965) di Broadway, è il raro caso di una commedia che migliora passando dal palcoscenico allo schermo. Scontati gli elogi ai 2 protagonisti e ai loro comprimari, almeno una parte del merito spetta a G. Saks.
New York, 1846, quartiere di Five Points.Una cruenta battaglia tra gangs sancisce il trionfo di William Cutting detto Billy the Butcher, capo dei nativi americani e la morte di Padre Vallon, protettore degli emigranti. Sedici anni dopo il figlio di questi, Amsterdam, esce dal riformatorio fermamente deciso a ingraziarsi l’assassino di suo padre per poi fare vendetta. Conosciuto Billy, Amsterdam ne viene in pratica adottato e arriva a salvargli la vita. Una volta scoperto e sfigurato, si risolverà a combattere apertamente contro di lui. Ma sono gli anni della Guerra Civile: l’ultimo scontro tra le gang sarà decisamente superato in violenza e ferocia dall’intervento delle truppe inviate a far rispettare la coscrizione obbligatoria. Gangs of New York è probabilmente il film più atteso dell’anno: per le traversie produttive, per il montaggio infinito, per il suo cast stellare. Il risultato, pur notevole, è inferiore alle attese. Si direbbe che Scorsese, per la prima volta alle prese con un kolossal, voglia approfittare dell’occasione per chiudere i conti con tutto il suo passato di innamorato del cinema. Ma lo fa nel modo più sbagliato, infilando a raffica citazioni e stilemi (da Griffith a Leone, da Ejzenstejn a Von Sternberg) che non si coagulano in racconto coerente. Resta una somma smisurata di pezzi di bravura intervallata da lunghi tempi morti, con un cast adeguato nei ruoli di contorno ma poco azzeccato per quelli principali (con la gigantesca eccezione di Daniel Day-Lewis) e incredibili movimenti di macchina contraddetti da clamorosi errori di montaggio. Ma se l’ambizione era quella di riproporre una seconda “Nascita della nazione” va largamente delusa. Più grande, in tutti i sensi, che realmente bello.
Gli anni d’oro dell’eccentrico miliardario Howard Hughes, industriale, produttore, regista, progettista e aviatore, ma ancora più celebre per i suoi amori per le dive più belle e famose dell’epoca.
Tre amici (un indossatore volante, uno sfaccendato e un posteggiatore) hanno il vizio delle corse dei cavalli. Perdono sistematicamente e ogni volta escogitano cervellotici stratagemmi per riuscire a pagare i debiti.
Frank Morris, già fuggito più volte dalle carceri statunitensi, è rinchiuso ad Alcatraz. Con due detenuti, la notte dell’11 giugno 1962 riesce a fuggire. Di loro non si è mai saputo più niente. Siegel riscatta gli stereotipi prosciugandoli con lo stile. Fa economia di tutto, perfino della violenza, con una tensione che arriva alla suspense ma senza cercarne gli effetti. È un film da scuola del cinema, una vetta del genere carcerario.
Samuel L. Jackson è di nuovo Shaft e questa volta scende in campo con il figlio (che ha il volto di Jessie T. Usher) e con il padre interpretato da Richard Roundtree, l’attore che in origine ha vestito i panni del detective nero John Shaft nelle prime tre pellicole degli anni Settanta celebri film del genere blaxploitation. Bastano poche note del tema centrale scritte da Isaac Hayes per riportare alla mente il detective nero, sicuro di sé, dalla risposta pronta e dal pugno facile di nome John Shaft. La pellicola diretta da Tim Story dopo essere stata distribuita nelle sale è entrata nel bouquet di Netflix che l’ha coprodotta.
Sono numerose le curiosità legate a questo film e al personaggio di Shaft, a cominciare dal fatto che la saga dedicata al detective nero ha perfino dato origine a una serie tv negli anni Settanta sempre con Roundtree. Il personaggio Shaft ha inoltre un’origine letteraria: scaturisce dai libri scritti da Enrnest Tidyman che ha realizzato la sceneggiatura anche del primo film della saga (l’autore divenne poi famoso per il fortunato script de Il braccio violento della legge).
Il film racconta le vicende di un gruppo di criminali nella Detroit del 1955, intenti a portare un colpo all’apparenza piuttosto semplice: rubare un documento. Ma quando il loro piano va in fumo, la ricerca del mandante e del suo fine ultimo li trasporta tra i vari ranghi di una città dilaniata dai conflitti di razza e in continuo cambiamento.
Dopo essere stato per piú di vent’anni fuori dal mercato della droga Superfly è deciso a rientrare nel giro. Arrivato negli Stati Uniti ben presto si accorge che a controllare il traffico ora ci sono due poliziotti corrotti che non hanno alcuna intenzione di cedere una fetta dei loro affari. Ma Superfly, deciso a riprendere la sua parte, darà inizio ad una lotta spietata
Licia Maglietta è la “casalinga pescarese” che durante una triste gita in corriera rimane per strada e finisce a Venezia. Chiama il marito e gli dice che tornerà presto. A Venezia fa incontri particolari e ci scappa anche l’intermezzo sentimentale col maturo cameriere Ganz. Film della fuga, dolcemente anomalo, francesizzante. Per schemi non italiani, appunto. Infatti ha sorpreso un po’ tutti, compreso il pubblico che lo ha onorato. La Maglietta sembra toccata dalla grazia. Lei, non bella, diventa bellissima e affascinante. Il film si è giocato la nomination italiana per l’Oscar ed è stato battuto, da I Cento passi.
Negli ultimi quattro mesi della sua vita, Abraham Lincoln cambiò la storia dell’umanità ponendo legalmente fine alla schiavitù dei neri d’America. L’ottenimento dell’approvazione del 13° Emendamento in discussione alla Camera dei Rappresentanti richiese una battaglia ardua ed estenuante, condotta contro il tempo e nell’ambito di una devastante guerra civile: una guerra nella guerra che lo coinvolse totalmente, come Presidente, come padre, marito e come uomo. Al cinema, come nella letteratura, esistono due grandi strade: da un lato ci sono le pellicole che si lasciano impressionare, evitando il più possibile d’intervenire sulla realtà, e dall’altro ci sono le pellicole che impressionano, costruendo una narrazione ad hoc. Che il cinema di Spielberg appartenga a questa seconda categoria non è un mistero, eppure questa volta, più che in precedenza, quest’appartenenza è ribadita apertamente. “Noi siamo balenieri”, dice Lincoln, citando uno dei maggiori romanzi americani, quel “Moby-Dick” che narra appunto di una missione che non dà scampo, che non si può abbandonare nemmeno di fronte alle richieste più razionali (qui neppure davanti all’ipotesi della cessione immediata di un conflitto che ha già versato una quantità disumana di sangue). Inoltre, nel caso non fosse abbastanza chiaro, Spielberg fa di Lincoln un racconta storie, ovvero un narratore, qualcuno che, per analizzare la realtà, ha bisogno di passare dal filtro dotato di ordine e di senso del racconto. Con l’aiuto fondamentale della sceneggiatura di Kushner (già autore del meraviglioso Munich), il regista ci invita dunque dentro un grande romanzo, dove ogni personaggio ha il suo momento ma tutti convergono come falene verso un’unica luce, emanata dal protagonista. L’impresa, tentata e superata, è quella di rendere intima e interiore una questione di giustizia e di politica universale. Man mano che il film si dipana, infatti, appare sempre più evidente come per Lincoln, che all’epoca dei fatti era già un leader molto amato, far passare l’emendamento non fosse un obiettivo accessorio né il frutto di una fortunata coincidenza: ne andava della sua identità storica e privata, dice il film, che sovrappone alla perfezione i piani. Come un dagherrotipo, che richiede un certo tempo di esposizione, Lincoln abbisogna di tutta la sua durata per restituire un ritratto integro, che, prima che di un uomo, è soprattutto il ritratto di una visione politica. Una visione che combina idealismo e realpolitik, illuminando due fattori fondamentali: da un lato, la statura eccezionale dell’essere umano (che in termini cinematografici si traduce nella scelta di un attore come Daniel Day-Lewis), dall’altro la capacità di guardare al di là delle convenienze (è suo figlio forse diverso dagli altri figli, che sta sacrificando sul campo come mosche?) e di usare quasi ogni mezzo, se il fine è di natura superiore. Non si può, perciò, pensare che il film di Spielberg non parli, oltre che del passato, anche al presente e al futuro.
Eroiche peripezie di Maximus, generale romano di origine ispanica. Quando Commodo (161-192), succeduto al padre Marco Aurelio (121-180), lo arresta e gli fa massacrare la moglie e il figlio, diventa schiavo e poi gladiatore, idolo della folla, finché nel Colosseo combatte contro l’imperatore. Al di là dei costi (107 milioni di dollari, riprese a Malta, in Marocco, la foresta di Bourne Woods in Inghilterra), del dispiego di effetti speciali computerizzati e del can-can plurimediatico, il megafilm della Dreamworks (Spielberg & Co.) è una parabola fantastorica sulla società dello spettacolo e sull’uso dello spettacolo che il potere _ tutti i poteri, anche religiosi _ ha fatto per suggestionare e dominare le masse. La sua inattendibilità storica è esplicita ed esibita nei personaggi, nelle scene, nei costumi: nell’itinerario di Scott si collega, nel bene e nel male, a Blade Runner e Alien. Altrettanto espliciti sono i suoi meriti (l’interpretazione del poliedrico neozelandese Crowe; la furente battaglia iniziale, cioè l’ordine del dominio contro il caos della ribellione; i combattimenti nel circo dove eccelle il talento di Pietro Scalìa al montaggio) e i suoi demeriti (anacronismi, scritte latine sbagliate, banalità nella sceneggiatura di David H. Franzoni e soci). Critica divisa: trionfo spettacolare del postmoderno o finto cinema che punta al solleticamento del nervo ottico? 5 Oscar: miglior film, Crowe, costumi, effetti speciali e suono.
Film di 3 ore con 8 personaggi principali (DiCaprio, strepitoso protagonista assoluto), che nasce dal libro omonimo e autobiografico di Jordan Belfort, sceneggiato da Terence Winter: è la storia vera di un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a sé stesso, un uomo che vola su un elicottero personale, possiede 8 auto di lusso, veleggia su uno yacht di 50 m, colleziona conti da 700 000 dollari per alberghi e prostitute, inghiotte ogni giorno una quantità di pastiglie fra sedativi e farmaci vari, mescolati con morfina e cocaina. Poi arriva la débacle ma, alla fine, non paga nemmeno un prezzo troppo alto: restituisce una parte di soldi, scrive un libro e diventa protagonista di un film. La Giustizia non esiste. Scorsese racconta il tutto con alto livello di follia, intensità e umorismo: “… ha il dono di prendere qualcosa di scritto in una pagina e di renderlo un capolavoro di narrazione visiva. Ha creato uno tsunami di follia” (T. Winter). È un film, insieme, onesto e divertente.
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