Quattro storie di truffe ambientate in quattro città diverse. Quattro episodi firmati da Roman Polański, Claude Chabrol, Ugo Gregoretti, Hiromichi Horikawa.
Inghilterra, alla fine dell’Ottocento. Appassionata storia d’amore in forma di ritratto in piedi di una ragazza di campagna che cerca di dimostrare le sue nobili origini, ma finisce per ritrovarsi con un figlio illegittimo. Si ribella, uccide il seduttore, è punita. Dal romanzo Tess dei D’Urbervilles (1891) di Thomas Hardy. Tre temi centrali: natura, amore e destino. Lungo ma non prolisso. Troppo decorativo, sebbene squisito, nell’ultima parte trova la sua giusta combustione drammatica. Manca di sensualità e di slanci lirici. 3 Oscar: fotografia (Geoffrey Unsworth e Ghislain Cloquet), scene, costumi. Restaurato dalla Cineteca di Bologna.
Dal romanzo di Pascal Brukner. Due coppie si incontrano su una nave in crociera per l’India: Nigel e Fiona, Oscar e Mimì. Nigel è un manager piuttosto convenzionale; sua moglie sembrerebbe la sua perfetta omologa, almeno in apparenza. Oscar è su una sedia a rotelle: è un cinico e depravato scrittore americano fallito che vive a Parigi. Mimì è bellissima, parigina e magica, fa sparire le altre donne. Oscar si accorge che Nigel mira a sua moglie e lo incoraggia, ma “in cambio” dovrà ascoltare tutta la sua storia, come fosse un analista.
Repulsione, ovvero storia di una nevrosi, quella di Carol Ledoux, avvenente estetista ossessionata dagli uomini. Il secondo lungometraggio di Roman Polanski, il primo girato fuori dalla Polonia, è una lenta discesa di una donna verso la follia più estrema. Dall’occhio atterrito di Carol adulta che fa da sfondo ai titoli di testa fino ad arrivare all’occhio diabolico della bambina che è stata, nel finale, Polanski registra un tortuoso percorso in una psiche sempre più disturbata. E lo ambienta tra le quattro mura (crepate) di un appartamento, luogo chiuso, tetro e claustrofobico che spesso di qui in avanti sarà teatro delle ossessioni e delle allucinazioni dei suoi personaggi (Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano). I rari momenti all’esterno, per strada o nel salone estetico in cui la ragazza lavora, sono altrettanto angoscianti e non rappresentano certo una tregua, né per Carol né per lo spettatore. E allora si ritorna in casa, quella casa che Carol condivide con una sorella così diversa da lei. I problemi aumentano proprio quando quest’ultima decide di partire per un viaggio con il suo amante sposato, lasciandola sola in casa con un coniglio in putrefazione. Da qui inizia la sua confusione tra realtà e allucinazione e la progressiva discesa agli inferi della sua mente, in cui Polanski fa intuire, senza mai rivelare, un trauma trascorso che l’ha irrimediabilmente segnata fino a trasformarla in una bellissima e catatonica bambola assassina. Scritto dal giovane Polanski insieme a Gérard Brach, con cui a Parigi aveva già collaborato per un episodio di Le più belle truffe del mondo (1963), Repulsion è un’asfissiante opera di realismo fantastico e psicologico che atterrisce grazie alla forza espressionistica del bianco e nero fotografato da Gilbert Taylor, alle soluzioni visive ardite e macabre, oltre naturalmente alla magistrale interpretazione di una spaventosamente imbambolata Catherine Deneuve, dolce e agghiacciante insieme. Con quest’opera, vincitrice dell’Orso d’argento a Berlino 1965, Polanski dà il via alla sua perversa e malata indagine nei meandri della psiche umana, rappresentata dagli spazi angusti di squallidi appartamenti popolati da vicini di casa benpensanti e da anziane signore imbellettate e ficcanaso, troppo sorridenti e troppo truccate per non avere nessun sospetto su un budino preparato da loro. Rosemary lo sa bene.
Nella cartella ci sono due versione 720p, una Criterion e l’altra no. Differiscono di 5 minuti una dall’altra, quale è meglio? a voi l’ardua sentenza.
Se c’è chi pensa che il detto “si nasce rivoluzionari e si muore conservatori” valga per il Roman Polanski che “illustra” (come alcuni hanno scritto) “Oliver Twist” di Dickens non si illuda. Il regista di Rosemary’s Baby e di Il coltello nell’acqua ha conservato intatto il proprio sguardo attento agli angoli oscuri della società e della psiche. Uno sguardo mediato dall’esperienza di Il pianista e proprio da quel film di successo stimolato a rivisitare il proprio passato di bambino salvatosi dal ghetto di Cracovia con la madre uccisa ad Auschwitz. Lo fa per l’interposta persona di uno dei personaggi più famosi dell’universo dickensiano, quell’Oliver Twist che ha già costituito una fonte di ispirazione per il cinema. Polanski legge la vicenda narrata dal grande autore inglese immergendola in una miseria materiale e morale quasi palpabile. Osservate l’illuminazione del film: è dominata da un buio sporco, per nulla gotico ma carico invece delle scorie prodotte dall’abbrutimento dell’essere umano al contempo carnefice e vittima nel tragico incedere dell’industrializzazione forzata. La luce di una bella giornata di sole è un fatto quasi incidentale, secondario, non “normale”. Così al centro della storia sono sì le vicende dell’innocente orfanello costretto a far parte di una banda di ladri organizzati. Ma chi gli ruba il proscenio è Fagin nell’interpretazione magistrale che ne dà un irriconoscibile Ben Kingsley. È lui, padre e padrone della banda di ladruncoli, che detta i ritmi della vicenda con il suo corpo laido che percorre le stanze e le vie del degrado umano ricordando a tratti le caricature infami con cui i nazisti dileggiavano gli ebrei.
In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri d’arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L’imprevisto ‘dare di stomaco’ sbriglia le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un’esilarante carneficina dialettica.
Delphine è l’autrice di un romanzo dedicato a sua madre che è diventato un best seller. La scrittrice riceve delle lettere anonime che l’accusano di avere messo in piazza storie della sua famiglia che avrebbero dovuto rimanere private. Turbata da questa situazione Delphine sembra non riuscire a ritrovare la volontà per tornare a scrivere. C’è però un’appassionata lettrice che entra nella sua vita. Sembra riuscire a comprenderla e a sostenerla in questo momento difficile con la sua capacità di intuizione e con il suo charme tanto da divenirle così necessaria da invitarla a condividere il suo appartamento. Sarà una buona scelta?
Raccolto da un galeone spagnolo dopo un naufragio, il temibile pirata Capitan Red scopre che sulla nave c’è un prezioso trono azteco. Con l’aiuto del suo mozzo, Ranocchio, decide di impossessarsene. Tornato alla regia dopo un’assenza di 8 anni, Polanski ha cucito un film divertente, simpatico e sardonicamente irrispettoso, senza abusi di effetti speciali né tendenze al gigantismo hollywoodiano, ma con un nucleo centrale irrisolto, una opacità di fondo che probabilmente dipende dall’incapacità di Polanski di adeguarsi allo spirito e ai ritmi della commedia, se non volgendoli al grottesco.
È il miglior film di Polanski nella sua vecchiaia. Robert Harris riconosce che, almeno per la struttura, il film è superiore al suo romanzo (2007), da lui adattato col regista. Adam Lang, ex premier britannico, ha scritto un libro di memorie che, giudicandolo noioso, l’editore ha affidato a un “negro” che muore annegato: incidente? suicidio? Gli subentra un altro ghost writer (senza nome) che diventa subito un sopravvissuto con la morte alle calcagna, coinvolto in un inconoscibile complotto alla Hitchcock. L’azione del film si svolge in un’isola sulla costa orientale degli USA, dove l’ex premier risiede con la moglie, la segretaria-amante e un agguerrito servizio di sicurezza. In un thriller politico intessuto di inganni e tradimenti a ogni livello emergono 3 temi polanskiani: la diffidenza per ogni potere pubblico, l’isolamento e l’acqua, da lui associata alla minaccia, alla morte, al male. Ritornano la sua predilezione per i perdenti, il gusto per le atmosfere psicologiche, la capacità di far scaturire dalla realtà l’ambiguità inquietante, l’infallibile direzione degli attori: McGregor e Brosnan non hanno mai avuto personaggi così “importanti”. E la Williams non è mai stata così espressiva. Fotografia: il polacco P. Edelman. Orso d’argento a Berlino 2010 per la regia.
Storia di un incubo in forma di interrogatorio al quale lo scrittore Onoff (Depardieu), apparentemente in preda all’amnesia, è sottoposto da parte di un commissario di polizia (Polanski). Fin dal titolo il 4° film di Tornatore è sotto il segno dell’ambiguità: oltre al suo significato di gergo burocratico-poliziesco, potrebbe essere letto come un esercizio di pura forma, ossia di stile, che mette in discussione lo statuto di credibilità delle immagini: qual è il confine tra fantasia e realtà? tra falso e vero? Allucinato dramma notturno di nordico onirismo, giocato sulla corda pazza dell’assurdo, è un film da prendere o lasciare, senza vie di mezzo. Chi prende ne gusterà la sagacia della costruzione, l’alta tenuta figurativa e sonora (fotografia di Blasco Giurato, musiche di Ennio Morricone), l’ammirevole concertazione degli attori: oltre a Depardieu e Polanski (doppiati da Corrado Pani e Leo Gullotta), c’è un incisivo S. Rubini come poliziotto che verbalizza.
Giovane e bella giramondo americana si ritrova casualmente in una sfarzosa villa sull’isola di Capri. Accolta senza alcuna cerimonia, Nancy viene a contatto con i curiosi e ambigui individui che popolano la residenza estiva. Un mondo a testa in giù in cui il tempo e le convenzioni borghesi sembrano bandite. Unico legame con la realtà il suo inseparabile diario. Se esiste un condimento a cui Polanski non ha mai saputo rinunciare nella sua cucina cinematografica, questo è il grottesco. Presente in ogni suo titolo – anche nelle pellicole d’atmosfera come Rosemary’s Baby o Chinatown – nelle commedie surreali che vanno da Cul de Sac fino a Per favore, non mordermi sul collo, il gusto per l’assurdo trova qui il suo apogeo. In questa epopea della bella Nancy si è voluta trovare una analogia con il mondo all’incontrario descritto da Lewis Carroll. Un parallelismo condivisibile per surrealismo, ma incosistente sul piano allegorico. Il flusso narrativo scelto da Polanski (qui anche in veste di attore) è in continuo divenire, imprevedibile e sconclusionato. La storia si dipana secondo il principio di reiterazione (giornate dagli sviluppi analoghi nello stile che costituirà poi il perno di Ricomincio da capo ) ed è racchiusa secondo la geometria del cerchio. Nancy incarna una visone pura e incontaminata del mondo al pari di una bambina inconsapevole del suo sex appeal, cagione e al contempo salvezza della sua odissea. I curiosi personaggi incontrati lungo la permanenza sono maschere da commedia dell’arte cadenzati da eleganti citazioni classiche di quartetti schubertiani e sonate mozartiane. Su tutti il decadente latin lover interpretato da Mastroianni (quasi una macchietta dei suoi ruoli felliniani), immortalato con una entrata in scena muta indimenticabile. Preso dalle compiacenti messe in quadro delle grazie di Sydne Rome, Polanski non riesce a essere costantemente pungente per tutto l’arco del film. Ma la tanto amata circolarità con cui il film si apre e si chiude – figura retorica presente sin da Il coltello nell’acqua – e la trovata metacinematografica con cui la Rome giustifica il titolo del film, rendono Che? una chicca.
In occasione di un congresso medico gli americani Sondra e Richard ritornano a Parigi e festeggiano vent’anni di matrimonio. La donna sparisce. Il marito inizia una disperata ricerca. Il miglior film francese dell’anno, secondo un sarcastico critico parigino. Come altri Polanski, questo thriller raffreddato e sotto le righe comunica una forte impressione di solitudine. Una volta tanto, l’accostamento a Hitchcock è legittimo: la situazione del protagonista, uomo comune incastrato per caso in un intrigo criminoso; il clima inquietante creato con piccoli tocchi e risultati di una suspense psicologica e ambientale, non mai meccanica; la sequenza sul tetto col tema della vertigine; la spoletta che è il McGuffin (il pretesto) dell’incubo. Ricco di una lunga esperienza parigina, Polanski mette qualche veleno nella descrizione della sgradevolezza dei francesi.
Da una pièce del cileno Ariel Dorfman. In un paese latinoamericano da poco tornato alla democrazia, 15 anni dopo essere stata seviziata e torturata dalla polizia segreta, Paulina Escobar (Weaver) crede di riconoscere in un medico (Kingsley) uno dei torturatori. Lo cattura, lo immobilizza, lo processa, affidandone la difesa al proprio perplesso marito avvocato (Wilson). Epilogo amaro in una sala da concerto dove il Quartetto Amadeus esegue il Quartetto n. 14 in re minore di Schubert ( La morte e la fanciulla ). Film a suspense in chiave di ambiguità, con due modifiche rispetto al testo teatrale. Oltre ai motivi politici di fondo, sono presenti temi cari a Polanski: l’interscambiabilità dei ruoli tra vittima e carnefice, la dialettica tra disperazione e speranza, la relazione tra forza e vulnerabilità (Paulina), il passaggio tra amore, sesso e odio, la nozione di un destino immodificabile. Cinema da camera a porte chiuse con due brevi escursioni all’aperto: il mare e l’acqua sono figure ricorrenti nei film di Polanski. Avete sentito parlare della banalità del male?
L’eccentrico professor Abronsius (Jack Mac Gowran), autore di importanti studi sul fenomeno del vampirismo, arriva con il suo buffo e svanito assistente Alfred (Roman Polanski) nei pressi di un castello in Transilvania: naturalmente a caccia di vampiri. Una volta penetrati all’interno, Alfred nota ben presto la bella locandiera Sarah (Sharon Tate, allora compagna di Polanski), e quando questa verrà rapita dal conte von Kroloc, i due partiranno per portarla in salvo tra mille peripezie. Nonostante la trama possa trarre in inganno, fin dal titolo italiano del film (che è conosciuto anche come Dance of the Vampires, Pardon Me, Your Teeth Are in My Neck) si comprendono le intenzioni del regista, non certo interessato a realizzare un horror, ma nemmeno una vera e propria parodia del genere.Per favore… non mordermi sul collo vive del brillante umorismo ebreo-polacco del suo autore, riuscendo a bilanciare con equilibrio parodia, citazioni filologiche e tensione autentica per dare vita a qualcosa di completamente nuovo. Un qualcosa che lo ha reso capostipite di una serie di parodie farsesche e dissacranti intese a esorcizzare con acume e ironia figure mitiche ed eroiche della tradizione. È dal professor Abronsius e Alfred che derivano allora il dottor Frederick Frankenst(e)in e Igor del Frankenstein Junior di Mel Brooks. Ricco di trovate brillanti e comiche (come ad esempio il figlio del conte, vampiro omosessuale invaghito di Alfred) Per favore… non mordermi sul collo è la prima commedia, il primo film a colori e girato con notevoli capitali (americani) per il trentatreenne Polanski, in questa occasione anche di fronte alla macchina da presa insieme alla sua compagna Sharon Tate (tre anni prima della terribile strage ad opera della banda di Manson). Accompagnato – come tutte le prime opere del regista – dalle musiche del polacco Krysztof Komeda, il film è stato portato sui palcoscenici di Vienna dieci anni dopo in una versione teatrale diretta dallo stesso Polanski.
Nella Scozia dell’anno Mille Macbeth prende il posto del sovrano legittimo dopo averlo assassinato. Deve uccidere i testimoni del delitto e poi figli e amici di quanti ha ucciso prima. Con l’aiuto di Kenneth Tynan, Polanski ha avuto due belle intuizioni nella trasposizione di Shakespeare: fare di Macbeth e sua moglie una coppia di giovani mediocri, quasi piccoloborghesi; capire che i re di Scozia erano dei bútteri e vivevano in rustici casolari. C’è la violenza, anche in eccesso, ma non la nera poesia della disperazione del testo. E i due giovani interpreti non sono all’altezza. Fa macchia il McDuff di Bayley. Il dramma fu portato sullo schermo 9 volte all’epoca del muto e 9 volte (comprese le edizioni televisive) nel sonoro.
“E l’onnipotente lo colpì. E lo consegnò nelle mani di una donna”. È l’epigrafe di Venere in pelliccia , romanzo (1870) di Leopold von Sacher-Masoch, di tendenza erotica sadomasochistica, che un regista di mezza tacca sta cercando di mettere in scena in uno scadente locale periferico. Alle audizioni si presenta in ritardo Wanda, matura, volgare, malvestita più sado che maso, tutto il contrario di quella che il regista cercava. E poco alla volta tutto si mescola, realtà e finzione, i ruoli si capovolgono, regista e attore ma anche dominatore e dominata, uomo e donna. È un gioco di specchi – di nuovo di stampo teatrale – in cui Polanski fa recitare alla Seigner (sua moglie nella vita da 24 anni) molti ruoli in uno e Amalric (suo alter ego) le tiene testa, battuta dopo battuta, situazione dopo situazione. Humour grottesco, attori giusti, splendida fotografia (Pawel Edelman).
Un film di Roman Polanski. Con Josiane Belasko, Jacques Rosny, Maïté Nahyr, Patrice Alexsandre, Serge Spira, Jacky Cohen, Eva Ionesco, Dominique Poulange, Louba Guertchikoff. Titolo originale Le locataire. Commedia, durata 125 min. – Francia 1976. MYMONETRO L’inquilino del terzo piano valutazione media: 3,83 su 37 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Trelkovski, modesto impiegato di origini polacche, prende possesso a Parigi di un appartamento la cui inquilina precedente, Simon Chule, si è uccisa buttandosi dalla finestra. O, sarebbe meglio dire, è l’appartamento stesso a prendere possesso dell’uomo. Circondato da inquietanti e grotteschi vicini, Trelkovski scopre nell’appartamento orribili tracce dell’ex-inquilina e finisce progressivamente in un tunnel di follia che lo conduce al totale sdoppiamento di personalità nella ragazza. Tratto dal romanzo “Le locataire chimerique” di Roland Topor, è il decimo lavoro di Polanski e sicuramente il più kafkiano, grazie alle atmosfere claustrofobiche e grottesche che inchiodano lo spettatore a questo condominio popolato di personaggi che sembrano parenti dei vicini di casa di Rosemary Woodhouse. Una dramma gotico e psicologico sulla diversità e sulla figura dello straniero, interpretato da un Polanski dostoevskijano e interpretabile come metafora e riflessione sull’artista, in bilico tra follia e razionalità estrema e ossessionato da un pubblico volgare e gretto. Come in Rosemary’s baby, anche qui il nemico è rappresentato dalla società, il vicinato che complotta contro il protagonista con fare massonico. E Trelkosky, smarrito come un personaggio di Kafka, finisce per diventare una pedina ingabbiata in un sinistro meccanismo più grande di lui, inesorabilmente condannato a un destino beffardo dal quale non riesce a svincolarsi. Il terrore quotidiano e fantastico e i simbolismi tipici di Polanski si fanno sempre più estremi con lo scorrere del film: dagli inquilini nel bagno ai macabri ritrovamenti all’interno delle pareti (ossessione polanskiana fin dai tempi di Repulsion) si arriva all’inesorabile sdoppiamento di personalità – anche nell’abbigliamento – in Simon Chule. Fotografato dall’operatore Sven Nykvist, capace di prospettive inusuali ed estreme, L’inquilino del terzo piano è uno dei migliori incubi prodotti dalla mente disturbata del regista polacco.
Torna l’Olocausto, e per mano di un “autore”. Pareva che Spielberg avesse detto l’ultima parola, invece ecco una storia sul ghetto di Varsavia. Siamo nel ’38.Comincia a stringersi la tenaglia nazista che produrrà le prime limitazioni per gli Ebrei: prima leggere -la stella di Davide cucita sul braccio- poi pesanti, poi intollerabili, poi mortali. Fino alla decimazione. Wladyslaw, giovane, talentoso pianista, sta suonando Chopin per una registrazione radiofonica proprio mentre arriva la notizia dell’invasione nazista della Polonia. Il giovane assiste all’orribile spirale: tutta la famiglia deportata e poi le condizioni del ghetto: bambini che muoiono di fame, gente uccisa per nulla, e una piccola parte di ebrei che tradiscono per sopravvivere. Alla fine Wladyslaw è di nuovo al piano, proprio come all’inizio. Ma naturalmente l’esperienza lo ha devastato. Niente, neppure Chopin sarà più come prima. Il film ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes 2002. Molti hanno disapprovato.
Dean Corso, esperto di libri antichi, è assunto dal collezionista Boris Balkan, studioso di occultismo che possiede una copia del volume Le nove porte del regno delle tenebre (1666), scampata ai roghi dell’Inquisizione. Ne esistono altre due e sospetta che una delle tre sia falsa. Quale? Il viaggio-inchiesta che porta Corso da New York in Europa è funestato da segni inquietanti e morti misteriose. Dal romanzo El Club Dumas (1993) di Arturo Pérez-Reverte, adattato con Enrique Urbizu e John Brownjohn, è derivato un film polanskiano a 18 carati. Storia di una investigazione (forse l’unica sullo schermo) imperniata su un libro e impregnata di soprannaturale, è un film laico sulla falsità delle apparenze e delle credenze che non si preoccupa più di tanto di prendere le distanze dalla sua materia perché “preferisce la reticenza, l’affidarsi all’intelligenza dello sguardo più che alla visione” (G. Cremonini). Tolto il debole finale, la costruzione narrativa è ingegnosa.
Rosemary Woodhouse (Farrow) sospetta una congiura demoniaca contro la creatura che porta in grembo, organizzata con la complicità del marito attore (Cassavetes) dagli arzilli Castevet (Gordon e Blackmer), coinquilini-stregoni mimetizzati negli abiti della borghesia di New York. Realtà o psicosi? Il polacco R. Polanski – al suo 1° film made in USA dopo 3 britannici – affascinato dal senso di mistero che serpeggia nel romanzo di Ira Levin, ne cava un memorabile esempio di cinema della minaccia e ripropone il tema dell’ambiguità fino a farne la struttura portante della narrazione. È “un incubo cinematografico dove la possibilità di orientarsi tra fantastico e reale è persa sempre, mentre resta a dominare la scena la sensazione di angoscia ridotta al grado zero e perciò ancor più inquietante” (S. Rulli). Oscar per R. Gordon. Prodotto da William Castle per la Paramount, nel 1976 ebbe un seguito TV di nessun interesse.
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