Dalla tragedia (431 a.C.) di Euripide: abbandonata da Giasone, Medea, regina barbara della Colchide, ricorre alle arti magiche per far morire la rivale Glauce e completa la vendetta, uccidendo i due figli avuti dall’argonauta. È il 4° e ultimo film tragico e mitico di Pasolini, “mescolanza un po’ mostruosa di un racconto filosofico e di un intrigo d’amore” (P.P.P.) e occasione per affrontare il tema del passaggio dal vecchio mondo religioso-metafisico al nuovo mondo laico-pragmatico. Una metafora sul Terzo Mondo affidata alla disponibilità tragica (e insoddisfacente) della Callas. L’eclettismo figurativo e il gusto della contaminazione di Pasolini rivelano qui i loro limiti: è, forse, il più manieristico, squilibrato, algido dei suoi film, sicuramente il più ideologico.
In quattro racconti, quattro registi di scuole e di esperienze diverse, riflettono sui condizionamenti dell’uomo nella società contemporanea e sull’angoscia di oggi e di domani. “Il mondo nuovo”, l’episodio firmato da Godard (per l’interpretazione di Jean-Marc Bory e Alexandra Stewart, e con musiche di Beethoven) prospetta un mondo scampato alle radiazioni di un’atomica nel quale gli uomini, svuotati di ogni qualità, esprimono in un linguaggio allusivo la loro disperazione esistenziale. L’olocausto immaginato dal regista francese non reca tracce visibili sulla pelle dell’uomo, ma ne rivela il vuoto interiore e l’impossibilità del sentimento: la società immaginata da Godard è, in definitiva, il ritratto esasperato di quella moderna e la città nella quale si svolge la breve vicenda è Parigi, assunta (come sarà anche in Alphaville) a simbolo di metropoli del futuro. L’episodio è girato in puro stile “nouvelle vague”, con voce fuori campo e inquadrature dal taglio documentaristico. Il titolo con il quale la pellicola è più conosciuta è composto dalle prime sillabe dei cognomi dei registi. Gli altri episodi sono: “Illibatezza” (di Rossellini), “Il pollo ruspante” (di Gregoretti), “La ricotta” (di Pasolini).
Nato come Vangelo ’70, privato dell’episodio ipertrofico di V. Zurlini che diventò Seduto alla sua destra. Con “L’indifferenza” Lizzani rilegge la parabola del buon samaritano in chiave di neorealismo stradale. In “L’agonia”, con J. Beck e la compagnia del Living Theatre, Bertolucci ribalta la parabola del fico sterile in un originale esercizio stilistico tra cinema, mimo e teatro d’avanguardia. Con “La sequenza del fiore di carta” Pasolini si serve di N. Davoli on the road per una metafora sull’impossibilità dell’innocenza. In “L’amore” di Godard, parafrasi politica alla Brecht della parabola del figliol prodigo, Castelnuovo impersona la Rivoluzione e la Guého la Democrazia: i due si amano, ma non possono convivere. In “Discutiamo, discutiamo…” Bellocchio e un gruppo di studenti dell’Università di Roma dissertano in toni grotteschi sulla scuola di classe e la contestazione studentesca. Finanziata dall’Italnoleggio, è una curiosa operazione di sperimentazione linguistica.
Una buona idea realizzata in maniera inefficace: metà del film è diretta da Pasolini, notoriamente di sinistra, l’altra metà da Guareschi, notoriamente di destra. I due cercano di spiegare la ragione delle varie tensioni sociali
Il giovane pistolero Requiescant si mette alla ricerca della sorella. Ma la ragazza è caduta nelle mani di un sanguinario latifondista. Requiescant, in odio al sanguinario, farà causa comune con un gruppo di peones che si sono ribellati.
Nel ridurre drammaturgicamente – con Sergio Citti e Pupi Avati – Le 120 giornate di Sodoma (1782-85) del marchese De Sade, P.P. Pasolini ricorre alla ripetizione del numero 4. Durante la Repubblica di Salò 4 signori (il Duca/Bonacelli, il Monsignore/Cataldi, S.E. il presidente della Corte d’Appello/Quintavalle, il presidente Durcet/Valletti, che rappresentano i 4 poteri) si riuniscono insieme a 4 Megere, ex meretrici, e a una schiera di ragazzi e ragazze, partigiani o figli di partigiani in una villa isolata e protetta dai soldati repubblichini e dalle SS. Per 120 giorni sarà in vigore un regolamento che permette ai Signori di disporre a piacere delle loro vittime. Lo schema temporale corrisponde a 4 gironi danteschi: l’Antinferno, il girone delle Manie, il girone della Merda, il girone del Sangue. Dopo il massacro, l’epilogo è in sospeso, con un barlume di residua speranza (Pasolini ne aveva girati altri due). In tutto il cinema pasoliniano il sesso è uno strumento per parlare di “qualcosa d’altro”. Qui ha un significato direttamente politico: il rapporto sessuale sadico è una delle tante forme dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. È anche una denuncia, per via di metafora, dell’attuale società dei consumi in cui il sesso è un allegro aspetto della mercificazione dell’uomo nella società capitalistica. Film estremo, è attraversato da due costanti che ne scandiscono il ritmo: la ripetizione ossessiva dei cerimoniali e l’accompagnamento musicale della pianista (S. Saviange). Nel suo cinema all’insegna della congiunzione Marx-Freud il tema della morte – e dei suoi legami con l’Eros – è dominante. Qui trova, attraverso l’accumulazione di fatti sadici, la sua ultima espressione con la maniacale e furiosa tetraggine di un quaresimalista, anche se venata, in contraddizione con Sade, da un pietoso intenerimento per le vittime e gli innocenti. Presentato a Parigi il 22 novembre 1975, 3 settimane dopo la morte di Pasolini, uscì sul mercato italiano nel gennaio 1976 e venne subito sequestrato. Le sue traversie giudiziarie – dall’imputazione di oscenità a quella di corruzione di minori – durarono con fasi alterne sino al 1978. La versione circolante del film è priva di 589 metri (21′) rispetto all’originale.
Come in tutte le favole, non c’è una storia ben definita in questo film: il pretesto narrativo è dato dalle considerazioni filosofiche (in chiave marxista) di un vecchio corvo che si rivolge a due uomini, padre (Totò) e figlio (Davoli). Il corvo sembra convincere il suo limitato pubblico con la saggezza delle sue parole, ma appena si presenta il problema della fame, gli “irragionevoli” umani gli tirano il collo e se lo mangiano. L’allegoria è chiara; il film una tardiva possibilità che Pasolini offrì al grandissimo Totò.
Edipo è stato allevato dal re di Corinto come un figlio, ma non sa di essere un trovatello. Quando viene a conoscenza di una terribile predizione secondo la quale egli ucciderà il proprio padre e sposerà la propria madre, fugge dalla città e arriva a Tebe. Può essere considerato una trasposizione cinematografica dell’autobiografia ideale dell’autore: l’antica tragedia greca è infatti un mezzo del quale egli si serve per parlare di sé e dei propri problemi.
Mamma Roma, prostituta, decide di diventare una rispettabile piccolo borghese. Con il figlio Ettore va ad abitare in un appartamento della periferia romana. Saputa la verità su di lei, il ragazzo delinque, è arrestato e muore in carcere per i maltrattamenti subiti, invocando Guidonia, il paese dov’è cresciuto, ma anche metafora della Madre e del grembo materno. 2° film di Pasolini dopo Accattone, fondato sulle figure retoriche dell’ossimoro e della sineciosi (in cui s’affermano, di uno stesso oggetto, due contrari); che all’uomo dà una vera grandezza. Bianconero: Tonino Delli Colli (con echi di Caravaggio). Musica: Concerto in Do Maggiore di A. Vivaldi.
Dal Decameron (1349-53) di G. Boccaccio Pasolini ha tratto 7 novelle, tutte ambientate a Napoli e dintorni; le ultime sono intercalate dalla storia di un allievo di Giotto (lo stesso Pasolini) che deve affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara. Della cosiddetta “trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte), è il film più trascinante, ilare e lieto. Come gli altri due, ha al centro l’esaltazione di una felicità e di una vitalità _ che è soprattutto sesso _ idealizzate e astoriche in cui un’incombente presenza di morte ricorda, secondo moduli di tradizione decadentistica, che la conciliazione è impossibile. Perciò c’è chi (L. Miccicché) _ collegando i tre film a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) _ ha parlato di “tetralogia della morte”. Orso d’argento al Festival di Berlino, fonte in Italia di roventi polemiche (a destra per le offese al “comune sentimento del pudore”, a sinistra per il suo disimpegno ideologico), incassò sul mercato italiano più di 4 miliardi, cifra da primato, scatenando un’orda di imitazioni che costituirono un filone a parte
Il film è una fedele riproposizione del Vangelo secondo Matteo dal momento dell’Annunciazione alla Resurrezione di Gesù. Le tappe della vita di Gesù Cristo sono ripercorse senza variazioni nella storia, né cambiamenti anche testuali rispetto alla versione di san Matteo. Il Vangelo di Pasolini non intendeva mettere in discussione dogmatismi o miti, quanto far emergere l’idea della morte, uno dei temi fondamentali della sua poetica. Come negli altri film il regista si affida a un linguaggio sonoro ricercato per didascalizzare alcune delle vicende più significative del film. Ecco dunque la Passione secondo Matteo di Bach e soprattutto La musica funebre massonica di Mozart – che accompagna tutta la passione di Gesù – a suggellare la propria immagine della morte: un evento necessario, per niente eroico e soprattutto ineluttabile.
Il Vangelo, come quello di Matteo, disegna una figura di Cristo più umana che divina, un uomo con moltissimi tratti di dolcezza e mitezza, che però reagisce con rabbia all’ipocrisia e alla falsità. Si tratta di un Cristo motivato dalla volontà di redenzione per coloro che subiscono le conseguenze della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei che ne hanno fatto uno strumento di dominio politico e sociale. È un Cristo rivoluzionario che è venuto a portare la spada piuttosto che la pace. Il film fu apprezzato dai cattolici: l’ Osservatore romano scrisse che si trattava di un film “fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo”. La critica di sinistra rispose freddamente: l’Unità si espresse in questi termini: “…il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”.
Sottoproletario romano vive alle spalle di una prostituta che finisce in galera. Ne trova un’altra, se ne innamora e cerca un lavoro. Buono o cattivo, onesto o disonesto, è sempre uno che sta “fuori”. Il 1° e, forse, il migliore dei film di Pasolini, che vi trasferisce la tensione etica e formale dei suoi romanzi sul sottoproletariato romano. È un dramma epico-religioso che tocca il mistero “scandaloso” della Grazia. Cammei di Sergio Citti nel ruolo di un cameriere, di Elsa Morante in quello della detenuta Lina e della giornalista Adele Cambria in quello della madre popolana. Fotografia: Tonino Delli Colli; scene: Flavio Mogherini; musica: 4 brani di J.S. Bach, amatissimo da Pasolini.
Dall’omonima raccolta di novelle arabe, sistemata in forma canonica intorno al 1400: nella storia di Nur-er-Din che cerca Zumurrud, l’amata rapita, e la ritrova sotto le spoglie maschili del re Sair sono contenute, come in una scatola cinese, le altre quattro. “La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni” è la citazione che fa da filo conduttore all’ultima parte della cosiddetta “trilogia della vita”, tutta sotto il segno dell’esaltazione del sesso e della morte incombente. Dei 3 film appare come il più sereno e risolto, probabilmente perché la natura stessa della raccolta araba aveva esentato l’autore da ogni obbligo di fare i conti con la storia e il potere, qui sostituiti dalla forza trascinatrice della fatalità e dei sentimenti assoluti. Incassò la metà di I racconti di Canterbury (1972) e meno di un quarto di Il Decamerone (1971). Presentato (e premiato) a Cannes 1974 in una versione di 155 minuti, poi ridotta dall’autore alla durata attuale. Una denuncia per oscenità è archiviata dalla Procura di Milano.
Tratto da The Canterbury Tales, l’opera maggiore e incompiuta del poeta inglese Geoffrey Chaucer (1343-1400). In cammino verso Canterbury per onorare le spoglie dell’arcivescovo Thomas Beckett, Chaucer (Pasolini) e altri pellegrini raccontano storie e aneddoti. Tra i 24 che compongono la raccolta, il regista ne ha scelti 8, talvolta liberamente rielaborandoli o inventando. Tra Il Decameron (1971) e Il fiore delle Mille e una notte (1974), è il 2° film della cosiddetta “trilogia della vita”, e il meno riuscito. Chaucer è un grande umorista; Pasolini è talvolta ilare, ma quasi privo di umorismo. Nell’uno c’è gaiezza in penombra, nell’altro tetraggine. Il primo è licenzioso, il secondo scurrile con una programmata provocazione in cui entrano, forse, anche il calcolo e un esibizionismo quasi infantile. A livello figurativo sono innegabili l’occhio e il gusto di Pasolini, ma non c’è più l’orecchio, almeno nell’edizione italiana. Non mancano le figure azzeccate (L. Betti, F. Citti) né gli episodi riusciti, ma l’amalgama non convince. Orso d’oro a Berlino. In Italia V.M. 18.
S’alternano, in montaggio parallelo con convergenza finale, 2 storie, l’una a far da specchio all’altra: l'”apocalittica” o arcaica e la “tedesca” o moderna. In una un giovane (P. Clementi), disperato divoratore di farfalle, serpenti e carne umana che vaga per i campi desolati di un vulcano (l’Etna) è gettato dalla società in pasto alle belve; nell’altra il malinconico erede (J.-P. Léaud) di una dinastia industriale che non vuole obbedire, ma non sa disobbedire, è divorato dai porci per i quali prova un’attrazione fisica. La 1ª ha il cupo e chiuso orrore di una saga di tensione epico-lirica; la 2ª è in chiave ironico-satirica con cadenze di operetta morale. L’una è consegnata a un violento silenzio, rotto da grida, lamenti, rumori; l’altra s’affida alla parola in un fitto e caustico dialogo, persino in couplets dalle rime baciate. Morale della favola: la società organizzata è un porcile in cui si ripete storicamente la tendenza (necessità) a distruggere i propri figli ribelli o indifferenti che si rifiutano di accettare l’ordine costituito.
Usi e costumi sessuali degli italiani, raccolti da Pasolini tramite alcune interviste e commentati dallo psicoanalista Cesare Musatti e da Alberto Moravia. Più che di un film sull’amore, si tratta di un’inchiesta sui tabù sessuali nell’Italia della metà degli anni Sessanta.
Il film ha per protagonista un giovane di borgata che durante una rissa ferisce a coltellate un uomo e finisce in carcere. Uscito di prigione, si ammala di tisi e viene ricoverato in sanatorio, dove un sindacalista comunista lo convince a mettere la testa a posto. Il giovane, infatti, decide di sposarsi e di sistemarsi, ma un giorno, per salvare una donna, si getta in un fiume e muore.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.