Per vendicare il grave infortunio capitato alla madre durante una rapina agente di polizia si fa arrestare. Evade con un boss della mala, ma non riuscirà a farsi giustizia: i delinquenti si elimineranno tra loro. Poliziottesco all’italiana imperniato sul canonico tema della vendetta. Una sagra violenta di luoghi comuni.
Un cacciatore mongolo, trovato dagli oppressori del suo paese in possesso di un talismano che lo fa ritenere discendente di Gengis Khan, è oggetto di interessate premure e quasi indotto a firmare un trattato che, se gli darà ozi e ricchezze, lo allontanerà però sempre più dalla causa degli oppressi. Il suo rinsavimento coincide con l’evasione di un partigiano che chiede la sua protezione.
Anche questa versione inglese, più recente, è il rifacimento del racconto di Agatha Christie, con qualche leggera differenza: le persone convocate dal misterioso giustiziere sono rinchiuse in un castello raggiungibile soltanto con una funivia che malauguratamente si rompe dopo che l’ultima vittima è entrata nel castello.
Un film di Vsevolod Pudovkin. Con Vera Baranowskaja, Nikolai Batalov, Ivan Koval Samborskij Titolo originale Mat’. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 65 min. – URSS 1926. MYMONETRO La madre [1] valutazione media: 3,33 su 5 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Tratto dal romanzo omonimo del 1907 di Gor’kij, “La madre”, primo lungometraggio di Pudovkin , si inserisce nel clima politico della Russia degli inizi del XX secolo e segna l’inizio del realismo socialista. Protagonista del film è una contadina, Nilvona Vlasova, moglie del fabbro ubriacone Vlasov, la quale subisce una trasformazione caratteriale in seguito alla morte del marito. Causa del suo cambiamento è il figlio Pavel, operaio socialista e militante del movimento rivoluzionario insieme ad altri suoi amici, che verrà arrestato dopo che sua madre ha rivelato alla polizia dove Pavel ha nascosto le armi; e morirà in un tentativo di evasione durante una manifestazione per il 1 maggio. A quel punto sarà allora Nilvona a raccogliere la bandiera rossa e a farsi uccidere dai militari. La narrazione è strettamente collegata alla dimensione psicologica dei personaggi e alla loro vita quotidiana, per evidenziare i problemi del movimento del proletariato dell’epoca. La protagonista dapprima è una donna disperata, picchiata dal marito, piena di paura, poi, spinta dall’esempio del figlio, anche lei compie una “rivolta” contro quella vita squallida ;cresce in lei un desiderio di libertà e di dignità, di combattere contro quella parte oscura, bestiale che è nell’uomo. E’ Nilvona l’eroina del film, proprio lei, umile, povera ,cosi come gli altri personaggi semplici che abitano il villaggio, immersi in una natura evocativa e mutevole che dà alla vicenda un tocco romantico perfettamente in armonia con il reale. La madre è stato considerato per mezzo secolo un classico del cinema muto sovietico e classificato nel 1958 dai critici di Bruxelles come uno tra i 12 migliori film della storia del cinema per essere sottoposto in seguito ad alcune revisioni.
La vita del trovatore armeno Sayat Nova, vissuto nel Seicento, dall’infanzia alla corte regale, dal ritiro in un convento alla morte, attraverso una serie di episodi, statici come quadri che non raccontano, ma mostrano, evocano, suggeriscono per via di metafore, analogie, estri surrealisti, paesaggi onirici, pause liturgiche. La colonna sonora (musiche, rumori) conta come quella visiva di pittorica sensualità. Ermetico, ma abbagliante. Molte noie con la censura sovietica.
All’inizio del XX secolo, il vedovo Henry vive con il figlio adolescente Wyatt in una piccola fattoria coltivando la terra e allevando animali. La sua tranquillità è interrotta dal ritrovamento di un uomo gravemente ferito in una zona poco lontano dalla proprietà. Henry porta in casa l’uomo – che si chiama Curry ed è uno sceriffo in fuga – e lo cura dopo averlo legato al letto e dopo aver nascosto la borsa piena di denaro ritrovata al suo fianco. Quando gli uomini che danno la caccia a Curry, guidati dal feroce Ketchum, anch’egli un sedicente sceriffo, si presentano a casa di Henry, l’umile contadino si rifiuta di consegnare il suo ospite e si appresta a combattere l’ultima battaglia per difendere sé stesso e il figlio.
Gran bel western! se vi piace il genere non perdetevelo.
Un film di Yakov Protazanov. Con Yuliya Solntseva, Igor Ilyinsky, Nikolai Tsereteli, Nikolai Batalov, Vera Orlova, Vera Kuindzhi, Pavel Pol, Konstantin Eggert, Yuri Zavadsky, Yulia Solntseva, Valentina Kuinzhi, Nikolai Tserectelli, Ygor Ilinski, Yuri Zavadski Avventura, b/n durata 120 min. – URSS 1924. Durante la guerra civile in URSS, un ingegnere sovietico effettua un volo su Marte. La sovrana del pianeta s’innamora dell’esploratore spaziale che prende parte a una rivoluzione tesa a sollevare i proletari marziani, soggetti a un sistema di bestiale sfruttamento. Il protagonista si risveglia e si rende conto che il suo è stato il sogno di un uomo dai nervi logori. Realizzato con notevole dispendio di mezzi, e accolto con molte riserve dalla critica e dalle autorità, è considerato uno fra i primi film sovietici di anticipazione, fra l’altro interpretato da attrici bellissime. Pregevole soprattutto per l’estrosità della messa in scena, che vanta l’impiego di scenografie costruttiviste contrapposte a scorci realistici della Mosca negli anni della NEP.
Ci sono tutti, i personaggi principali del romanzo di Collodi, nel Pinocchio di Matteo Garrone: Geppetto e il suo burattino di legno, Lucignolo, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, fino all’Omino di burro, il Tonno e la Balena. Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell’originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile.
C’è una cura devota nella ricerca delle facce giuste, negli scenari che chiunque abbia letto Pinocchio ha immaginato, nei dettagli dei costumi, del trucco (impressionante il legno con cui è costruito il bambino), degli effetti speciali artigianali, come lo erano stati ne Il racconto dei racconti, e utilizzati con grande parsimonia, ovvero solo quando narrativamente necessari.
In questa cura c’è tutto l’amore e la reverenza che Garrone ha verso il testo di Collodi, il suo perfetto equilibrio nel dosaggio degli elementi narrativi e nella caratterizzazione di personaggi che sono diventati archetipi, verso quell’ingranaggio drammaturgico che vede il percorso di iniziazione alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino (e dunque un uomo) vero dipanarsi per corsi, ricorsi e inciampi, sempre due passi avanti e uno indietro, con un andamento ad elastico sempre pronto a ritornare bruscamente al punto di partenza, proprio quando sembrava così vicino al salto evolutivo.
Gli interpreti son perfetti: Benigni trattenuto e straziante (come già il Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), il piccolo Federico Ielapi minuto ma tosto, sempre in equilibrio fra intraprendenza e desiderio di appartenere, disobbedienza e lealtà.
E poi Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, nati per diventare la Volpe e il Gatto, Gigi Proietti credibilissimo come il burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile, le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna; il grillo parlante Davide Marotta. Standing ovation per Maria Pia Timo (la Lumaca), Enzo Vetrano (il Maestro) e Nino Scardina (L’Omino di burro).
Il fotografo Ernesto e sua moglie, la gallerista d’arte Elena, erano una coppia felice che viveva a Londra insieme al figlio dodicenne Carlo. Ma durante una vacanza nella loro nativa Italia un incidente automobilistico cambia completamente le loro vite. Anni dopo troviamo Ernesto a Londra da solo, a intrattenere relazioni occasionali con modelle giovanissime, e a fare volontariato in un penitenziario londinese dove insegna fotografia ai detenuti. Fra questi il suo preferito è Ian, un talento fotografico naturale in carcere per spaccio, figlio di un fruttivendolo con il vizio dell’alcool e di una madre che non ce la fa più. Quando Ian viene scarcerato, senza aver rivelato i nomi dei suoi fornitori di droga, Ernesto lo raggiunge nel quartiere degradato dove il ragazzo vive e gli propone di aiutarlo ad allestire la sua prossima mostra fotografica. Quel che Ian non sa è che Ernesto pensa che quella mostra sarà l’ultima, e per questo ha chiesto anche l’aiuto di Elena, che non incontrava dall’epoca dell’incidente.
Cinque suore inglesi di Calcutta s’installano in un palazzo sulle pendici dell’Himalaya, ricevuto in dono, e vi aprono una scuola e un’infermeria. L’altitudine, i profumi esotici, la stranezza e la sensualità del luogo (un ex harem) influiscono sulla loro psicologia. La missione viene chiusa. Da un romanzo (1939) di Rumer Godden (autore di Il fiume , cui si ispirò J. Renoir), Powell & Pressburger hanno cavato uno dei più affascinanti melodrammi del dopoguerra “chiuso in un’atmosfera stordente da serra” (E. Martini), fondato sul conflitto tra due culture, anima e corpo, dovere e desiderio. Girato in interni negli studi di Pinewood. Oscar alla fotografia di Jack Cardiff e alle scene di Alfred Junge.
Kalan Varkey è un macellaio di bufali, su cui l’intero villaggio fa affidamento per la carne fresca. Un processo di macellazione va però in tilt creando scompiglio per tutto il paese. Polizia e cittadini si dedicano alla cattura del bufalo scappato ma a prendere il sopravvento sono Kuttachan e Anthony, nemici di vecchia data. Tanti altri cittadini vengono toccati da questa vicenda.
Un viaggio documentario dal Laos alla Tanzania alla ricerca del senso più profondo del ciclo vitale secondo la filosofia buddista. Dall’osservazione dei giovani monaci che pregano, lavorano e imparano i sacri libri alle donne africane musulmane che raccolgono e conservano le alghe, mentre insegnano alle proprie figlie che vegetali e animali sono sacri, perché potrebbero racchiudere le anime di vite precedenti. Tutto può essere buddista secondo il terzo lungometraggio del galiziano Lois Patiño, a prescindere dalla religione professata.
Un prologo racconta della Dea indiana dell’abbondanza e di suo figlio, attaccato violentemente dalle altre divinità e costretto a rimanere nel suo ventre per salvarsi, a condizione di vivere nascosto. La prima parte è ambientata nel villaggio di Tumbbad, in una regione rurale battuta da una pioggia incessante. Qui abita Vinayak, la cui madre si prende cura di una bisnonna, spaventosa figura tra lebbrosa e zombie tenuta in catene e sospesa tra pasti e un sonno profondo.
Kong è un killer ma non per scelta: nato sordomuto e sottoposto in tenera età a ogni genere di bullismo, non poteva che impugnare la pistola e trovare una via nell’odio. Finché nella sua vita entra Fon, una giovane farmacista che aiuta Kong a ritrovare se stesso e a conoscere un lato di sé fin lì ignorato.
Ciò che l’occhio non vede è una sorta di documentazione d’autore firmata da otto registi durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Il critico Tullio Kezich scrive a proposito di questo documento: «Ciò che l’occhio non vede lo vede l’obiettivo della macchina da presa. Questa tesi, che si direbbe di ispirazione antonioniana, mosse quattro anni fa l’iniziativa del produttore americano David L. Wolper che in occasione dei giochi di Monaco ha invitato alcuni autori cinematografici a illustrare ciascuno un aspetto della manifestazione.
Sedotta da un compaesano, Paola si trasferisce in città dove, da lavorante in una sartoria, finisce per darsi con un’amica alla prostituzione di alto bordo, finché fa innamorare un maturo vivaicultore (Ninchi) disposto a sposarla. Tornata al paese per rivedere la sorella appena sposata, è concupita dal giovane cognato, ma ricattata dal primo seduttore si dà la morte proprio mentre sta per essere raggiunta dal suo innamorato. Rossellini iniziò a girare il film nel 1943 col titolo Scalo merci su sceneggiatura scritta con Giuseppe De Santis, Diego Calcagno, Rosario Leone. La guerra interruppe le riprese e indusse Rossellini a riscrivere lo script . Su sue indicazioni, nel 1946 Pagliero lo terminò. L’impianto da melodramma verista dai risvolti moralistici è già esplicito nella trama, ma non sono convenzionali né la cruda analisi dell’ambiente familiare né la dimensione erotica (c’è un primo piano del bel seno nudo della Parvo). Tra l’altro comincia con il suicidio di una sconosciuta cui assiste la protagonista. Prodotto dalla S.A.F.I.R. di Roma e distribuito alla fine del ’46.
Terrore di notte sul metrò. Due teppisti imperversano in un vagone della subway. Di buona intensità drammatica, nonostante la convenzionalità dei personaggi.
Un’organizzazione segreta, specializzata in assassinii politici, si occupa di un caso che la CIA vorrebbe tenere nascosto. Il suo killer n. 1, che sta scoprendo troppo, viene reso invalido dal suo compagno e decide di vendicarsi. Si fa aiutare da un maestro in arti marziali. È uno dei film di Peckinpah dove è percettibile la linea di divisione tra l’autore e il regista esecutore: l’autore emerge nella 1ª parte che ha grinta, ritmo, estro; nella 2ª l’esecutore si adagia nelle convenzioni e negli stereotipi del genere. Ma la sequenza finale tra una flotta di navi in disuso non si dimentica.
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