I componenti di una famiglia vivono ormai da anni l’uno separato spiritualmente dagli altri. Ma una serie di avvenimenti negativi mette in crisi ciascuno dei personaggi che ritroveranno la solidarietà in occasione della nascita di un bambino, ultimo arrivato nella famiglia.
Antonia e Massimo sono sposati da quindici anni. Il loro è un matrimonio felice fino a quando Massimo muore in un incidente stradale. Antonia si chiude nel proprio dolore, accudita dalla madre e dalla cameriera filippina. Un giorno però, grazie a una dedica sul retro di un quadro, scopre che il marito aveva un’amante da sette anni. Questo la obbliga a uscire di casa e a iniziare una serie di ricerche. Raggiunge così lo stabile e l’interno da cui era stato inviato il regalo. L’appartamento è intestato al nominativo Mariani e per lei è ovvio cercare la signorina Mariani. Dopo diversi tentativi di depistaggio da parte della colorita comunità di gay e travestiti che affolla l’appartamento scoprirà la verità: l’amante di suo marito era un uomo, Michele. La prima reazione è di profondo disgusto ma progressivamente il contatto con il gruppo le farà scoprire una realtà diversa. Sarà un’esperienza capace di farla tornare a vivere pienamente. Ferzan Ozpetek, dopo il patinato ma piuttosto sterile Harem Suare, torna ai temi prediletti già presentati con originalità ne Il bagno turco. Eliminate le tentazioni esotiche (anche se non possono mancare due attori e la musica turchi), disegna caduta e ascesa di una donna borghese le cui sicurezze si sgretolano dinanzi alla progressiva scoperta della realtà. Margherita Buy è bravissima nel sottolineare i progressivi slittamenti del cuore del suo personaggio, così come Accorsi lo è nel costruire un Michele gay convinto che vede minare dal di dentro le sue certezze in materia sessuale.
Presentato alla Mostra di Venezia questo film di Olmi non ha ottenuto il riscontro di critica che ci si aspettava. Forse ci sono stonature qua e là, come ad esempio le voci degli animali e del vento doppiate con enfasi troppo teatrale e recitata. Alcune cadute di ritmo. Ciononostante si tratta di un’opera suggestiva. Pare che Olmi abbia filmato le stagioni in tempo reale e che quindi le riprese siano state lunghe e laboriose. Il colonnello Procolo è diventato responsabile di una foresta vecchia di secoli. Tutore del nipotino, che non potrà ereditare fino alla maggior età, il vecchio vuole vendere legname abbattendo gli alberi. Uno di essi, travestito da guardia forestale, cerca di impedirglielo. Procolo, vedendo poi il bambino come una minaccia al suo potere, cerca in più riprese di metterlo in pericolo. Quando poi, schiavizzato il vento, sarà a un passo dal riuscirci, andrà alla sua ricerca morendo lui stesso in una tormenta.
Soggetto di Mario Rigoni, Tullio Kezich, Ermanno Olmi. Un reduce di guerra, tornato al paese, trova la fidanzata. I giovani emigrano, i vecchi non ci sono più, la vita è diversa. Si mette a fare il “recuperante” di ordigni bellici, un lavoro sempre al limite del pericolo di un’esplosione. Solo il lavoro “vero” redime il giovane e gli dà coscienza di sé.
Una scelta coraggiosa e per nulla commerciale quella di Olmi. Evitando i classici metodi di epicità, attraverso i quali la Sacra Bibbia è sempre stata rappresentata, cerca di entrare in un’atmosfera ascetica. Essendo un libro trasmesso oralmente di generazione in generazione, il regista dà molto spazio alla voce narrante, con una musica etnica che ricorda le atmosfere new-age e la colonna sonora di L’ultima tentazione di Cristo di Peter Gabriel, nei momenti più tenui. Parte dalla creazione, come testimonia il titolo, e arriva a Noè, interpretato da Antonutti. Un’operazione particolare che può anche deludere ma che va rispettata.
Rievocazione degli anni più oscuri di Alcide de Gasperi. Dall’avvento del fascismo all’opposizione, sconfitta negli anni Venti, alla vita clandestina durante la guerra. Bravo e misurato Fantoni nel ruolo principale. Solo corretta la regia di Olmi, che tenta invano un «telecinema» di divulgazione alla Rossellini.
La cotta è un film per la televisione a mediometraggio sceneggiato e diretto da Ermanno Olmi. È stato prodotto dalla Rai Radiotelevisione Italiana nel 1967. Della durata di cinquanta minuti circa, completa la serie dei primi film di narrazione di questo regista – iniziata con Il tempo si è fermato, del 1958 – dopo una lunga esperienza in campo documentaristico. Narra dell’iniziazione sentimentale (con i riflessi psicologici ed i turbamenti che questo passaggio di vita comporta) di due giovani poco più che adolescenti.
Girato in bianco e nero e ambientato nella Milano del miracolo economico italiano che cominciava a sfumare verso l’autunno caldo e gli anni della contestazione, il mediometraggio è interpretato da due attori non professionisti, Giovanna Claudia Mongino e Luciano Piergiovanni, rispettivamente nei ruoli di Jeanine, adolescente di origine francese, ed Andrea, giovane milanese alla ricerca di nuove ed originali tecniche di seduzione e corteggiamento delle coetanee.
La vita di Giovanni XXIII, il “papa buono”, ricostruita attraverso la lettura del suo diario spirituale, dall’infanzia a Sotto il Monte sino all’elezione alla più alta carica religiosa.
Nel novembre 1526 Joanni de’ Medici, capitano di ventura al soldo di papa Clemente VII, suo zio, conduce azioni di guerriglia a nord del Po per fermare la marcia su Roma degli Alemanni dell’imperatore Carlo V, guidati da Zorzo Frundsberg. Ferito, dopo quattro giorni di agonia per cancrena muore in Mantova a soli 28 anni. Alla vigilia dei 70 anni, ribaltando la tesi di Condottieri (1937) di Trenker che fece di Joanni un precursore di Mussolini, attento alla lezione di Rossellini e Tarkovskij, trovata la Padania in Bulgaria, Olmi fa il suo 1° film “epico” in cadenze antiepiche che è, in filigrana, una meditazione sulla morte di profondo respiro religioso e di forte tensione etica, ma anche sull’onore, il coraggio, il dolore, la metamorfosi tecnologica della guerra che la rende ancora più disumana. Il film più costoso e difficile della sua quarantennale carriera è anche stilisticamente il più libero, di semplicità raffinata nella scrittura, potente nei veloci scorci di battaglie, attenta alla cultura materiale e ai volti dei bambini. Magnifica fotografia del figlio Fabio Olmi. Determinante nel condurre le immagini, soprattutto nel Requiem, l’apporto musicale di Fabio Vacchi. Premi Sacher per il miglior film dell’anno e per la Ceccarelli. 9 David di Donatello.
Rou è un giovane che, dopo aver compiuto un crimine, ritorna nel suo paesino natale, rurale e cattolico, dove si innamorerà di una giovane ragazza (Kyoko), che si sta preparando a diventare suora. Rou, tuttavia, non ha buoni ricordi legati a quel posto, visto che il prete del luogo, Padre Kamiya, abusava sessualmente di lui quando era bambino. Proprio per questo, infatti, Rou dovrà confrontarsi con le sue emozioni dentro di lui, tra cui la tremenda voglia di vendetta verso Padre Kamiya, che pentito delle sue turpi azioni, si è amputato entrambe le gambe. Ma per Rou questo non basta: lega, infatti, amicizia con un ragazzino di nome Toru, scoprendo che gli atteggiamenti lussuriosi dei religiosi non sono certo finiti…
Un film di Nagisa Oshima. Con Kenzo Kawarazakhi, Atsuo Nakamura Titolo originale Gishiki. Drammatico, durata 122′ min. – Giappone 1971. MYMONETRO La cerimonia valutazione media: 3,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In viaggio con l’amata cugina Ritsuko verso un’isola sperduta, rifugio e tomba di loro cugino suicida, il giovane Masuo Sakurada rievoca, sull’arco di un quarto di secolo e attraverso una serie di cerimonie che sono altrettanti “momenti della verità”, le vicende della famiglia. Due ore dense di fatti, conflitti, tensioni e di bellezza figurativa, Gishiki è la summa del cinema di N. Oshima, il film che, anche per la limpida simmetria dei suoi ritorni all’indietro, più ha contribuito a farlo conoscere nel mondo. Opera dominata dalla presenza della morte, è una riflessione sulla difficoltà di essere giapponesi, oggi, e un bilancio storico-esistenziale del dopoguerra in Giappone. Film corale che propone almeno due personaggi memorabili: il vecchio despota Kazuono e la dolcissima zia Setsuko, interpretata da Akiko Koyoma, moglie del regista.
La storia è una variazione della vicenda faustiana da un poema di Fausto Maria Martini del 1915. Una anziana dama dell’alta società, Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli) stipula un patto con Mefisto (Ugo Bazzini), per riacquistare la giovinezza in cambio della quale però lei ha il divieto di innamorarsi. Alba è corteggiata da due giovani fratelli, Tristano (Andrea Habay) e Sergio (Giovanni Cini). Film muto fra i più importanti della sua generazione, sia per l’ispirazione dannunziana, che si riflette nel soggetto e nella scenografia della nobiltà decadente fortemente polarizzata sull’estetica Liberty, sia per l’interpretazione di Lyda Borelli, star del muto italiano. La colonna sonora è firmata da Pietro Mascagni, uno dei maggiori compositori dell’epoca e primo compositore di professione in Italia a firmare una colonna sonora, sincronizzandola con le scene del film (lavoro che definì “lungo, improbo e difficilissimo”)
Chloé ha un dolore che non passa. Giovane donna fragile, somatizza un segreto che custodisce nel ventre e affronta in terapia. Paul, lo psichiatra, la ascolta senza dire niente fino al giorno in cui decide di mettere fine alle sedute. La seduzione che Chloé esercita su di lui è incompatibile con la deontologia professionale. Ma Chloé ricambia il sentimento di Paul e trasloca la sua vita (e il suo gatto) nel suo appartamento. Tutto sembra volgere al meglio, quando scopre che il compagno le nasconde la sua parte oscura: Louis, gemello monozigote che svolge la stessa professione in un altro quartiere di Parigi. Intrigata, prende un appuntamento. L’attrazione è fatale. Chloé li ama entrambi, uno con dolcezza, l’altro con bestialità. Alienata e divisa, scende progressivamente all’inferno.
Uno dei due guardiani di una grande diga, vicino all’Adamello, è costretto a scendere a valle in seguito alla nascita di un figlio. Il suo posto viene preso da un giovane studente. I rapporti fra quest’ultimo e il rude montanaro, del quale è diventato collega, dapprima sono freddi e imbarazzanti, poi fra i due nasce una amicizia sincera, nella serenità delle candide distese nevose, delle montagne maestose, del silenzio.
Un film del genere “yakuza”, cioè il “nero” giapponese, e un quadro sulla violenza insita nei giovani che cercano di arrivare ai loro scopi con troppa facilità. Mako, una giovane, viene molestata da un uomo di mezza età. Un ragazzo la salva. Poi quest’ultimo si rivela un sadico. Uno dei primi film di Oshima, realistico e spietato.
Breve e avventurosa vita del partigiano Silvio Corbari, Medaglia d’oro della Resistenza, che insieme a giovanissimi compagni tra l’8-9-43 e i primi mesi del 1944 diede molto filo da torcere alle SS, agli Alpenjäger e ai loro complici fascisti con incursioni in Romagna e in Toscana e anche, maestro di travestimenti, con imprese beffarde. Tradito da un delatore, fu arrestato già gravemente ferito e impiccato due volte a Castrocaro e a Imola. Lasciati i fratelli Taviani, Orsini – sceneggiatore con Renato Nicolai – balza nel cinema nazional-popolare con un film d’azione di matrice eretica che nella Resistenza privilegia l’individualismo contro il controllo dei commissari politici del PCI, la spontaneità contro l’organizzazione, offrendo a Gemma un personaggio insolito, diverso da quel Ringo che l’aveva reso un divo degli “spaghetti-western”. Al passivo una voce narrante intrusiva e la troppa musica di Benedetto Ghiglia.
Romain è un giovane fotografo di moda a cui viene diagnosticato un cancro all’ultimo stadio. Alla (chemio-)terapia preferisce il decorso ineluttabile della malattia. Lascia la professione, il proprio compagno e gli affetti familiari per ritirarsi in solitudine nel suo appartamento parigino. Il ripiegamento affettivo è interrotto soltanto dalla visita all’anziana nonna e dall’incontro casuale con una coppia sterile a cui fa dono di un figlio. Davanti al mare si congeda dal mondo. Con un meccanismo a ritroso già applicato da Ozon in Cinqueperdue, per riferire la fine di una storia d’amore, ne Il tempo che resta è la vita di un uomo a procedere all’indietro fino all’infanzia, fino al punto zero in cui vita e morte coincidono e si annullano. Questa volta è la fine di una vita a venire esibita con un sapiente equilibrio dal regista francese. Il suo cinema, coerente alla sua poetica mortifera, non cede a soluzioni ricattatorie da consunzione melò, né tantomeno degenera in una indifferente insensibilità. La morte prossima di Romain è un fatto privato che si traduce in gesti carichi di emotività, perché sono gli ultimi e perché guariscono l’anaffettività del personaggio: la carezza al padre, l’abbandono sul petto della nonna, le foto scattate di nascosto alla sorella. Il volto di Romain, interpretato da un impenetrabile e patito Melvil Poupaud, “il ragazzo delle tre ragazze” di Eric Rohmer, ribadisce la frontalità del cinema di Ozon. Un attacco diretto che in Le temps qui reste si fa addirittura letterale: i primi piani dominano sui totali fino all’ultima sequenza dove è sempre il mare a “rubare” la vita, quella di Romain come quella del marito di Charlotte Rampling in Sotto la sabbia. Su un campo lungo finale e sostenuto si spegne il sole, in primissimo piano la vita.
Un incidente stradale in cui quasi inavvertitamente uccide un uomo mette in crisi un maturo pubblicitario a un passo dal pieno successo professionale. È, forse, l’opera più matura di E. Olmi prima di L’albero degli zoccoli . Il cambio di registro sociologico frena quella partecipazione emotiva che riscalda i suoi film precedenti, ma gli detta una maggiore lucidità critica e una durezza sommessa che gli asciugano le frange crepuscolari. Con la sordina della malinconia è anche una mesta meditazione sull’avvicinarsi della vecchiaia e sulla morte.
Un marito vuol uccidere la moglie e la chiude nel suo appartamento sola con un “mamba” (il più velenoso e pericoloso dei serpenti). Ma la donna non si lascia ammazzare dal rettile. Anzi architetta una trappola per far fuori il consorte mascalzone.
Sarah è una giovane scultrice dalla personalità introversa. Vive isolata in una casa lungo la costa per lavorare alle sue creazioni e un giorno, camminando sulla spiaggia, intravede un relitto con un uomo privo di sensi. Senza troppi indugi la donna decide di salvare il naufrago e prendersi cura di lui. Una volta sveglio l’uomo non ricorda nulla di sé, non ha nome né passato, la sua sopravvivenza ora dipende totalmente dalla volontà di Sarah. Ma la donna comincia a sviluppare una morbosa ossessione.
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