Il corpulento Paolo ha un passato da sciupafemmine (e per questo la moglie l’ha mollato), un presente in cui sciupa sé stesso lavorando svogliatamente, bevendo troppo, e un futuro che sembra già sciupato. Una zia slovena muore e a lui spetta l’eredità: ma non si tratta di soldi, bensì di Zoran, un ragazzotto con occhiali enormi che parla un italiano arcaico, imparato da vecchi libri. Paolo non vede l’ora di scaricarlo, ma deve aspettare che la burocrazia faccia il suo corso. Poi scopre che Zoran tira le freccette con abilità mostruosa. Si sorride in diverse occasioni: il protagonista, profittatore antipatico, con accento veneto e sbronza molesta, è triste e infelice, contrapposto al nipote, una macchietta in salsa slava che parla in modo buffo, ma ha sensibilità umana. Interessante opera prima di Oleotto, di ritorno nel suo Friuli dopo aver studiato cinema a Roma. Distribuito da Tucker Film.
Regia di Anna Odell. Un film Da vedere 2013 con Anna Odell, Anders Berg, David Nordström [II], Erik Ehn, Fredrik Meyer, Kamila Benhamza, Lena Mossegård. Titolo originale: Återträffen. Genere Drammatico – Svezia, 2013, durata 90 minuti. Uscita cinema giovedì 25ottobre 2018 distribuito da Tycoon Distribution. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: Valutazione: 3,50 Stelle, sulla base di 4 recensioni
Anna Odell, artista e regista svedese, scopre che i vecchi compagni di scuola hanno organizzato una riunione dopo vent’anni e non l’hanno invitata. Perché? La questione agita e interroga l’autrice, outsider della classe, che decide di farne un film. Un film che risponde alla domanda e alterna due parti distinte, due livelli di fiction che si corrispondono e completano. Un progetto che immagina nel primo atto quello che sarebbe potuto accadere se Anna fosse stata invitata e pratica nel secondo un esercizio sperimentale: Anna invita a casa sua i compagni, interpretati da attori, per vedere il film insieme e registrare le loro reazioni. Il secondo asse finzionale espone poi le complicazioni a cui la regista deve fare fronte a seconda del consenso o del rifiuto dei compagni davanti al suo invito.Tra documentario e fiction, il progetto di Anna Odell affonda nella vita reale, nella vita di una donna che desidera discutere del passato tra adulti per potere finalmente voltare pagina e superare il trauma di un’infanzia vessata.The Reunion non è però un regolamento di conti e nemmeno una terapia di gruppo, ancora meno un documentario classico sul bullismo. The Reunion è un film singolare, improbabile e curioso che apre su una cena di vecchi compagni di classe che indossano la propria maschera sociale e sfoderano larghi sorrisi, rivelando nell’interazione le rispettive personalità.
Sopraggiungendo non invitata, Anna Odell, che interpreta se stessa, indispone l’assemblea che fa fronte comune alla sua intrusione. Ma vent’anni dopo, Anna non ci sta e rivendica progressivamente le ragioni che l’hanno condotta al loro cospetto. Nessuno sembra avere voglia di ascoltarla e la condanna è collettiva, più severa e crudele del disprezzo. Recriminazione dopo recriminazione, gli animi si scaldano fino all’espulsione violenta di Anna dal gruppo e dal locale da parte di una brigata meschina incapace di intenderla. Anna Odell è folle? Questa è certamente la domanda che si sono posti i suoi ex camerati quando la regista li ha chiamati, convocati e inchiodati alle proprie responsabilità e davanti al suo film.
A Tokyo, la famiglia Toda, che può vantare ben cinque figli a carico, ritorna nella sua vecchia casa per celebrare un anniversario. Il padre e capofamiglia (Hideo Fujino), alcolizzato di lunga data, ha un attacco di cuore e muore. L’uomo non ha però lasciato la propria famiglia in condizioni rosee e le conseguenze di ingenti debiti che pendono sul capo di tutti loro, causati dall’avventato e irresponsabile genitore, non tarderanno ad arrivare. Ozu si concentra su un ménage familiare chiuso e ripiegato su se stesso, ergendo una famiglia specifica a specchio della condizione dell’intera popolazione giapponese. Il regista anticipa la luttuosità e le problematiche del periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, vissuto in maniera tutt’altro che rosea dal paese del Sol Levante, e il suo sguardo appare orientato agli elementi più pietosi e drammatici e agli snodi della vicenda più forzatamente dolenti. Una scelta che in qualche modo mette alle strette il suo cinema e lo traghetta nei pressi di una riproposizione stanca e grigia di elementi commoventi e soluzioni lacrimose, che tuttavia lasciano intravedere qua e là lo stile e la sensibilità del regista. Che è però sepolta sotto un considerevole cumulo di vicende che si protraggono stancamente e senza troppo nerbo, alternando meccanicamente situazioni tutte uguali e passaggi telefonati che non giovano né al grado di interesse del film né al suo spessore intimistico, storico e drammatico. Anche il finale, che pure tenta uno scarto, si affida a un colpo di coda poco efficace, che lascia trasparire in maniera fin troppo didascalica i chiari propositi moraleggianti. Un ritratto di una classe media al collasso, lodevole nei propositi ma non sempre all’altezza nei risultati.
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Ciò che l’occhio non vede è una sorta di documentazione d’autore firmata da otto registi durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Il critico Tullio Kezich scrive a proposito di questo documento: «Ciò che l’occhio non vede lo vede l’obiettivo della macchina da presa. Questa tesi, che si direbbe di ispirazione antonioniana, mosse quattro anni fa l’iniziativa del produttore americano David L. Wolper che in occasione dei giochi di Monaco ha invitato alcuni autori cinematografici a illustrare ciascuno un aspetto della manifestazione.
Il fiume Inguri segna il confine naturale tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia. I secessionisti hanno reclamato questa porzione del paese, cacciando brutalmente i georgiani che la abitavano. Proprio lungo questa tormentata frontiera, in primavera, lo scioglimento del ghiaccio dà vita a piccole isole itineranti, che si fanno e si disfano a seconda delle stagioni e dei capricci della natura. Un vecchio contadino e sua nipote adolescente si installano in questa terra di nessuno, costruendo una precaria baracca di legno, per coltivarvi il necessario per sopravvivere al rigido inverno. Quando sull’isola compare un ribelle ferito, il già fragile equilibrio di questa insolita coppia si spezza pericolosamente. Quello diretto dal georgiano George Ovashvili è un film che indaga tra le pieghe dei conflitti. In primo luogo, il difficile rapporto tra uomo e natura, cristallizzato nel tentativo ancestrale di dominare, a mani nude, un ambiente riottoso, pronto a sottrarre con violenza ciò che un attimo prima aveva dato. In seconda battuta, c’è la lotta fratricida tra due popoli, che si manifesta nella presenza dei soldati georgiani che pattugliano il confine con le loro barchette, alla ricerca dei ribelli. Sopraggiungono molesti, così come il rumore degli spari nella notte, a turbare la quiete della vita del contadino, scandita solo dai ritmi di un lavoro paziente, in balia della natura. Il terzo contrasto, non meno importante, è quello tra la prudente saggezza dell’uomo anziano e l’incosciente desiderio di emozioni della nipote sulla soglia dell’adolescenza. La routine lenta e faticosa che li unisce, al contempo li divide, determinando il sentore strisciante di una deflagrazione che non si consuma mai veramente. Almeno non a parole, in un’opera dove gli sguardi, le inquadrature – carrellate o movimenti di macchina a mano – e la fotografia in 35 mm – contano molto più dei dialoghi, ridotti all’osso per l’intera durata del film. Un film da festival, in cui la sceneggiatura è scarna, al pari delle battute, e il ritmo è dilatato. Un film dove l’immagine ha la meglio sulla parola, esibendoci, in tutto il suo crudele splendore, una natura tanto generosa quanto capricciosa. Il regista ce la mostra con estremo realismo, ai limiti del documentario. I due attori protagonisti contribuiscono a rafforzare questa poetica del reale, agendo davanti alla macchina da presa con grande naturalezza, parlando solo con gli occhi: solcato, lui, dalla fatica dell’età e dalle intemperie della vita – ma nonostante tutto determinato e teneramente preoccupato per la nipote – e animata, lei, da un bisogno di vita che la spaventa e la incoraggia al contempo. In questo deserto di comunicazione, non è tanto la parola a mancare, quanto le risposte alle domande che questa storia incompiuta di uomini suscita. Curiosità e desiderio di emozioni più forti che il regista non soddisfa, interessato più ai capricci della natura che a quelli degli uomini.
Da un romanzo di Salvator Gotta, sceneggiato dal regista con Curt Alexander e Hans Wilhelm: sotto anestesia dopo un tentato suicidio, Gaby Doriot, diva del cinema, rivive la sua vita e i suoi amori sfortunati, seminati di morti violente. La fine della rievocazione coincide con quella dell’operazione. Unico film italiano di M. Ophüls, esule dalla Germania nazista e chiamato a Roma da Angelo Rizzoli.
Un ufficiale russo si innamora a Tokyo di una ragazza giapponese di nobili origini che s’è venduta a una casa da tè, dopo la morte dei genitori, per allevare il fratellino. Un servo della fanciulla, geloso, lo denuncia al controspionaggio giapponese.
Muore Laura, la sua amica più cara fin dall’infanzia, la persona con la quale da sempre ha avuto il rapporto più profondo e importante della sua vita, sul filo della passione amorosa, e Claire non si dà pace, nonostante l’ottimo marito che la ama. Poi scopre che David, il vedovo di Laura, rimasto solo con una bimba piccola, indossa in segreto i vestiti della moglie, si trucca, indossa una parrucca bionda. Claire lo spinge non solo a continuare ma a uscire allo scoperto e David, nei panni di Virginie, sostituisce Laura. Dal romanzo di Ruth Rendell The New Girlfriend , un inquietante, intrigante dramma con a tratti toni di commedia, dove i rapporti e le manipolazioni dei rapporti e le ambiguità sono il clou della vicenda: interessante la ricerca di David della sua identità sessuale, ma ancora più interessante la psicologia di Claire, innamorata della sua migliore amica ma anche di suo marito, fatalmente attratta da un uomo travestito da donna. Gli attori calzano ogni personaggio come un guanto, Duris grande en travesti.
Nel consacrarsi a una passione che non sarà mai ricambiata, una romantica viennese trasforma la sua infatuazione per un pianista in un’ossessione amorosa che la consuma fino alla morte. Da un racconto di Stefan Zweig uno dei più squisiti “film di donna” della storia del cinema, immerso in un clima magico e, insieme, ossessivo. In mano d’altri poteva uscirne una storia sentimentale strappalacrime. Ophüls ne fa un capolavoro romantico.
Per pagare un debito una signora dell’alta società parigina vende gli orecchini, dono di nozze, e dice al marito di averli smarriti. Equivoci a catena e tragico epilogo. Da un romanzetto di Louise de Vilmorin un film di strenua eleganza che ricama con leggerezza sui temi cari a Ophüls: l’amore, la morte, il piacere, la provvisorietà del vivere.
Ragazza sogna di sposare un miliardario. Ci riesce, ma lui è fuori di testa, un paranoico sadico. Lei, già incinta, lo lascia. Lui la perseguita, la ricatta, vuole distruggerla. Lui muore, lei abortisce. Ophüls prese in mano il film, iniziato da John Berry, in condizioni disastrose e si districò ammirevolmente. È il suo film più fittamente parlato, ma gli attori sono diretti benissimo. Assai interessante la tematica. Scritto da Arthur Laurents dal romanzo Wild Calendar di Libbie Block.
In seguito a un incidente occorso al più noto cognato, Yann Kermadec prende parte alla Vandée Globe, regata in solitaria e senza assistenza intorno al globo terrestre, dalla Vandea francese verso il Capo di Buona Speranza, poi attraverso il Pacifico sfiorando l’Antartide per rientrare nell’Atlantico superando Capo Horn e poi risalire verso casa. Durante la sosta alle Canarie, un ragazzino in fuga dalla Mauritania sale a bordo clandestino sperando di giungere in Francia e non sapendo su che barca è salito. Solo dopo molte ore, Yann lo scopre e liberarsi di lui gli costerebbe l’espulsione. Non è solo la storia di un viaggio – splendide riprese in mare, con la velocità e la lentezza della barca, il vento, le onde, i tramonti -, non è solo la storia di una gara – la competizione tra personaggi ben resi senza inutili digressioni sentimental-familiari -, è anche la storia di una scelta, di un’umanità diversa, di un’etica che va al di là di una vittoria, perché davvero “ci sono molti modi per vincere”. Lucky Red distribuisce.
Ricca signora USA si sbarazza del cadavere del losco seduttore della figlia che l’ha ucciso senza volerlo. Compare un testimone del delitto che la ricatta. Tra i due nasce una strisciante passione senza futuro. 4° e ultimo film USA del tedesco Ophüls, scritto da Henry Garson e Robert Soderborg per la Columbia, tratto dal romanzo The Blank Wall (1947) di Elisabeth Sanxay Holding. Il regista firma un noir anomalo, sacrificando la suspense al disegno dei personaggi col suo inconfondibile stile dai morbidi e complessi movimenti della cinepresa. Messo in DVD nel 2013 dalla Sinister Film in edizione originale e doppiata, arricchita dal documentario Ophüls e il noir (41′) del cinecritico Lutz Baker.
Durante la Seconda guerra mondiale, un pilota americano di colore, sopravvissuto all’abbattimento del suo aereo in Giappone, viene fatto prigioniero dagli abitanti di un piccolo villaggio e diventa ben presto vittima del loro razzismo.
Un giovane docente dell’Università di Bologna abbandona lavoro, carriera, amici e si rifugia in un rudere sulle rive del Po. Con gli abitanti del posto intreccia storie di amicizia, amore, vita quotidiana. Film epico e straordinario, apparentemente semplice e necessariamente scandaloso, che racconta la storia di un Cristo delle strade, come egli lo chiama, di una figura cristologica nel senso che diventa un Cristo, come è successo nei secoli a tutti coloro che l’hanno imitato nei fatti. È una parabola trasgressiva: sostiene la fede contro le religioni “che non hanno mai salvato il mondo e i popoli” e che, anzi, si sono spesso messe al servizio dei potenti, talvolta come potenza alternativa.
Un film di Ermanno Olmi. Con Jun Ichikawa, Sally Ming Zeo Ni, Bud Spencer, Yang Li Xiang, Camillo Grassi, Makoto Kobayashi Drammatico, durata 90 min. – Italia 2003. MYMONETRO Cantando dietro i paraventi valutazione media: 2,85 su 16 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un giovane ed ingenuo studente si ritrova per errore in un teatrino fuori mano, tra le cui sale è possibile inoltre comprare trasgressioni e favori sessuali. Il Vecchio Capitano – un Bud Spencer inedito – dal palcoscenico situato nell’ampia sala centrale sta raccontando le gesta di Ching, piratessa ai tempi della Cina imperiale. Ching era sposa di un prode corsaro che, per aver accettato di collaborare con l’Imperatore, era stato ucciso a tradimento. La vedova, incapace di accettare questo oltraggio, si era dunque messa a capo della flotta del defunto marito ed era divenuta il pirata più temuto della Cina. Olmi torna a misurarsi con la fiaba (ricordate “Il segreto del bosco vecchio”?) ma volge lo sguardo all’Oriente. E’ una sperimentazione interessante quella che mette in atto il regista.
Un vecchio astronomo, Mel, una notte viene colpito da una luce abbagliante, che sveglia tutti gli abitanti della città, e riconosce la profezia della nascita del Salvatore. Insieme a molti pellegrini si mette in viaggio sino alla città imperiale, in una lunga marcia che dura sei giorni e sei notti, mentre tanti stanchi e sfiduciati abbandonano. Dopo aver incontrato altre due carovane, e seguiti dalle truppe del preoccupato tiranno, giungono infine alla culla del Bambino, tra le rovine di un castello, dove depongono i doni prima di fuggire avvisati da un altro prodigio. Metafora ambiziosissima, ma poco riuscita, di Olmi sul difficile cammino dell’umanità verso la salvezza.
Un’ora per 1.500 inquadrature in totale, mantenendo una media di 23 al minuto. Milano ’83 è il documentario senza voci realizzato da Ermanno Olmi all’interno del progetto “Le capitali culturali d’Europa”, che incluse – oltre al ritratto di Milano – anche quello della Lisbona di Manoel de Oliveira, di Atene vista con gli occhi di Theo Angelopoulos e della Varsavia di Krzysztof Zanussi. Il soggetto di Olmi è la Milano a cavallo tra la fine del 1982 e l’inizio del 1983, vista nell’arco di due giornate ideali che comprimono la quotidianità della città e dei suoi abitanti osservati da mattina a sera.
Ermanno Olmi realizza un documentario lungo l’intero corso del Po, il “suo” fiume, seguendolo dalle sorgenti alla foce per arrivare a realizzare una poetica riflessione sul creato e sul Creatore.
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