La trentenne Cassie ha buttato al vento ogni speranza: da quando ha abbandonato gli studi di medicina lavora in un piccolo bar, vive coi genitori e ogni weekend gira per locali facendosi abbordare da sconosciuti. Cassie in realtà ha un piano: fingendosi ubriaca, intende dimostrare come ogni uomo che la abborda nasconda il desiderio di violentarla o possederla con la forza. Nel suo passato c’è un trauma che ha segnato il suo destino, un evento che l’incontro con Ryan, ex compagno del college, riporta a galla. Combattuta fra l’interesse per Ryan e il desiderio di chiudere i conti con il passato, Cassie darà una direzione definitiva alla sua vita.
In una sala cinematografica si proietta un cinegiornale su un esploratore, Charles Muntz, che è tornato dall’America del Sud con lo scheletro di un uccello che la scienza ufficiale qualifica come falso. Muntz riparte per dimostrare la sua onestà. Un bambino occhialuto, Carl, è in sala. Muntz è il suo eroe. Incontrerà una bambina, Ellie, che ha la sua stessa passione. I due cresceranno insieme e si sposeranno. Un giorno però Carl si ritrova vedovo con la sua villetta circondata da un cantiere e con il sogno che i contrattempi della vita non hanno mai permesso a lui ed Ellie di realizzare: una casa in prossimità delle cascate citate da Muntz come luogo della sua scoperta. Un giorno un Giovane Esploratore bussa alla sua porta. Sarà con lui che Carl, senza volerlo, comincerà a realizzare il sogno.
Un film di animazione (targato Disney) ha aperto per la prima volta il Festival di Cannes. Si è trattato di un segnale molto preciso se si considera che la Major americana era assente da 5 anni dalla Croisette (l’ultima volta aveva presentato Ladykillers) e proponeva un film in 3D. La tridimensionalità viene utilizzata in questo film senza le esagerazioni effettistiche che, come sempre,, accompagnano le fasi nodali della storia della settima arte a partire dall’invenzione del sonoro. Il rischio che la sceneggiatura si mettesse al servizio della tecnologia c’era ma è stato brillantemente evitato. Semmai sussiste la possibilità che Up piaccia più agli adulti che ai bambini i quali dovranno attendere l’arrivo del solerte e tondeggiante Giovane Esploratore per avviare il necessario processo di identificazione nell’avventura. Fino ad allora ci viene narrata la tenera e delicata storia di un venditore di palloncini con la passione per l’avventura condivisa da un’amica e poi compagna per la vita. La sequenza in cui si narra il percorso di Carl ed Ellie partendo dall’infanzia sino ad arrivare alla morte di lei è di quelle che si fanno ricordare per la divertita sensibilità con cui è costruita. Le citazioni cinematografiche non mancano (a partire dalla somiglianza del protagonista anziano con Spencer Tracy per finire con il vecchio Muntz che ricorda Vincent Price passando per echi spielberghhiani) ma non hanno la pesante insistenza che si può rinvenire in altri film di animazione. Perché questo è un film leggero. Leggero su temi ponderosi come quello dell’invecchiare da soli, dei sogni non realizzati, della memoria viva di chi ci ha lasciati, del rapporto giovani/anziani. Un film leggero come quei palloni che portano magrittianamente nei cieli un’intera casa liberandola da un mondo incapace di comprendere i sogni.
Dopo aver vissuto alla giornata per anni, un uomo decide di mettere radici in un piccolo paese. Qui conosce una donna più anziana di lui, maltrattata dal marito infermo, e se ne innamora, ricambiato. Quando il marito scopre la relazione, scoppia il dramma: provoca un incendio nel quale trovano la morte i due sfortunati amanti.
Da un romanzo di Robert Ludlum, sceneggiato da Alan Sharp e Ian Masters: per vendicarsi di un superiore che ha autorizzato l’assassinio di sua moglie, un agente della CIA fa passare per spie al soldo del KGB sovietico tre amici di un affermato giornalista televisivo che li ospita con le mogli nella sua villa in campagna. Costruito col sistema delle scatole cinesi e reso ancor più complicato da tagli imposti dalla produzione, l’ultimo film di Peckinpah è un pamphlet contro la CIA e il suo potere incontrollabile, un apologo contro l’invadenza perversa della televisione, una parabola sull’ossessione voyeuristica della civiltà elettronica dello spettacolo in cui diventa sempre più difficile distinguere chi guarda da chi è guardato, la realtà dalla sua riproduzione, la verità dalla menzogna. Come macchina spionistica ha qualche ingorgo, ma anche pagine di forza lampeggiante e una parte finale in crescendo, da incubo allucinato.
Marc un giorno decide di tagliarsi i baffi. Niente di eccezionale se non fosse per il fatto che li porta sin da quando era ragazzo. Si aspetta quindi che sua moglie Agnes commenti (positivamente o negativamente) il fatto. Invece nulla. Neppure le altre persone del suo entourage sembrano accorgersi del cambiamento. Nel momento in cui si decide a chiedere un parere gli viene detto che la domanda è assurda: lui non ha mai portato i baffi quindi… Inizia così una spirale di presunta follia che coinvolge in modo particolare la coppia. Agnes vuole farlo visitare da uno psichiatra. Lui si convince sempre più o che sia lei a non essere più in sé o che si tratti di un complotto ordito ai suoi danni. Un viaggio ad Hong Kong dovrebbe aiutarlo a fare chiarezza. C’è un certo tipo di cinema francese che va consigliato a una ristretta fascia di pubblico. È un cinema che si avvale di attori davvero bravi e capaci di sostenere situazioni che, con altri al loro posto, sfiorerebbero il ridicolo. In questo caso Vincent Lindon ed Emmanuelle Devos appartengono a quel tipo di interpreti. È un cinema che però si avvita in un intellettualismo raffinato che finisce col creare quesiti tra lo psichico e il metafisico senza l’intenzione di risolverli. È un cinema che ha assolutamente bisogno della lingua con cui è stato concepito, cioè il francese. Da noi invece si doppia e l’effetto in gran parte si vanifica. Se poi si aggiunge che il film, dopo un primo tempo che riesce a costruire un buon livello di tensione, si perde in una peregrinazione hongkonghese che sembra essere messa lì solo per allungarne la durata e farlo passare dal medio al lungometraggio, allora la situazione si complica. Se poi ci aggiungete un titolo italiano assolutamente deviante rispetto all’originale (che è anche il titolo del libro che il regista aveva scritto una ventina di anni fa) il gioco è fatto. Portando a una valutazione che dovrebbe essere doppia: 3 stelle per l’interpretazione, 2 stelle per il risultato complessivo. Per rispetto nei confronti degli interpreti che debbono ‘reggere’ la storia opteremo per le 3.
Julio e Tenoch sono due amici diciassettenni che hanno una gran voglia di crescere. Nel corso di una festa conoscono una ventottenne spagnola, Louisa, che corteggiano in coppia.Costei è un misto di vitalità e di tristezza, ma è capace di accettare la proposta di un viaggio in tre verso una spiaggia denominata Boca del Cielo che i due in realtà non sanno dove si trovi. Il viaggio permetterà di verificare come l’erotismo e la gioventù non escludano il dolore. Si tratta di un film che ha un inizio abbastanza greve ma sa poi trovare una sua capacità di lettura dei sentimenti.
Un commando di “Settembre nero” rapisce cinque ragazze ricchissime mentre stanno per prendere il largo a bordo del Rosebud e chiede, in cambio della loro vita, giustizia per i palestinesi. Un agente inglese interviene.
Al momento non ho trovato versione in italiano
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Killer Joe è il poliziotto con l’hobby dell’omicidio a pagamento, assoldato da una famiglia di redneck del Texas per uccidere l’ex moglie ed ex-mamma, da tempo scappata con un altro uomo. Hanno scoperto che la sua morte frutterà 50.000 dollari di assicurazione, soldi con i quali verrà pagato il killer e la famiglia si tirerà fuori da diversi guai. Ma non è mai così semplice uccidere ed incassare e Joe non è il tipo che ammette ritardi o intoppi nel suo lavoro. Dopo aver firmato almeno una pietra miliare per ogni decennio di attività, William Friedkin arriva alle porte del secondo decennio del nuovo millennio con un film in pieno stile pulp, che lui (e non solo) sembra considerare l’aggiornamento del noir (la doppia indennità della trama fa subito pensare a La fiamma del peccato).Prendendo le mosse dall’omonima opera teatrale di Tracy Letts (riscritta per lo schermo da lui stesso), Killer Joe si assesta dalle parti dello stile tarantiniano, per quanto riguarda l’appeal, l’umorismo e la spiazzante stravaganza dei personaggi, e a quello dei fratelli Coen sul versante dei risvolti di trama e di una più generale visione nichilista del mondo. Sotto una superficie aliena però batte forte il cuore del regista di Vivere e morire a Los Angeles, che calza i panni di un genere nuovo (per lui) non come un travestimento ma come un buon abito. Lo si vede nel rigore dello stile (estraneo ai registi precedentemente citati), nella sapida asciuttezza dei momenti più determinanti, nella ferma chiarezza d’intenti di un film che corre come un treno verso i suoi cinque minuti finali e soprattutto nel modo in cui, ancora una volta, Friedkin lavora con i suoi attori. Matthew McCounaghey in un ruolo tra il comico e il terrificante, bello, rassicurante e pronto a diventare disturbante in un attimo, è il capolavoro del regista. Con l’abilità che gli è riconosciuta nel caratterizzare scene e personaggi attraverso i movimenti e l’uso di tutto il loro corpo, spesso con inquadrature a figura intera, spesso con lunghi piani sequenza, Friedkin riesce a trasformare uno degli attori finora meno malleabili. La sorpresa dei protagonisti nel trovarsi preda di quello che doveva essere un loro dipendente è la stessa che lo spettatore prova nel vedere il lento mutamento di un attore che ha la commedia romantica marchiata sui pettorali. Da quel corpo pulito da bravo ragazzo Friedkin parte e attorno a lui fa ruotare Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Juno Temple e Gina Gershon, i quali, di volta in volta, sembrano guadagnarsi il ruolo da protagonisti. Eppure alla fine sarà McCounaghey a incarnare il senso ultimo di un viaggio nell’America violenta e spietata, una piccola parte di un mondo dominato dal caos.
L’agente K è un blade runner della polizia di Los Angeles, nell’anno 2049. Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi “lavori in pelle”: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato.Ed è certamente sul piano visivo, e delle scelte operate in questo senso, che il film di Villeneuve trova la propria originalità costitutiva: quella di un ibrido tra blockbuster e film personale, specie nella gestione del tempo, che il canadese sottrae alle logiche di mercato e fa proprio nel bene e nel male, lungaggini comprese. Il disordine e la spazzatura della L.A. Del 2019 sono un ricordo lontano: ora tutto è ordine, K stesso, come gli ricorda il suo capo, è pagato per mantenere l’ordine. Ma non è facile assolvere questo compito quando i ricordi d’infanzia si mescolano agli interrogativi metafisici, proprio come in “Fuoco pallido”, il romanzo di Nabokov che torna a più riprese. Non è facile quando, come nell’archetipo di ogni detection contemporanea, la tragedia di Edipo, cacciatore e cacciato sono la stessa persona. Dice tante cose, il film di Villeneuve, forse troppe, d’altronde fa parte di un processo di espansione, di creazione di un universo Blade Runner. E di certo non le dice sempre nel migliore dei modi: non ha l’asciuttezza dell’originale, stordisce di spiegazioni, arriva persino in ritardo sulle intuizioni dello spettatore, ma la forza interna del racconto, la materia di cui è fatto, è così potente che trascina oltre, come una corrente.
“Io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”: frase storica, storico film, giunto – a venticinque anni dalla sua prima uscita – alla terza edizione, dopo il director’s cut del 1992 e la versione, a quanto pare definitiva, del 2007. Torna dunque in servizio l’ex poliziotto fallito Rick Deckard, prestato all’unità speciale Blade Runner, per dare la caccia ai replicanti, uguali in tutto e per tutto agli esseri umani salvo per l’apparente incapacità di provare dei sentimenti e per la durata limitata delle loro esistenze: circa quattro anni. In una Los Angeles del futuro, anno 2019, cupa, nebbiosa e terribilmente affollata, il simulacro dell’esistenza nella pessimistica penna di Philip K. Dick ritrova vita nelle immagini girate nel capolavoro di Ridley Scott. Oltre al piacere di rivedere un classico del cinema – con tutti i costrutti filosofici che ne conseguono – questa nuova versione di Blade Runner sembra soddisfare più un ben determinato piano commerciale, piuttosto che una vera e propria rivisitazione operata dal regista rispetto alle scorse versioni. A parte la rimasterizzazione dell’opera e lo zampino già noto dell’artista francese Moebius (Jean Giraud) chiamato a evocare alcuni scenari tratti da un suo fumetto a sfondo fantascientifico, nonché delle musiche a sfondo futuristico dei Vangelis, “Blade Runner” vanta dei cambiamenti quasi impercettibili (almeno rispetto al Director’s Cut del 1992) rimanendo quello che era: il cult movie che ha conquistato almeno tre generazioni di spettatori. La voce narrante, onnipresente nell’originale del 1982, è totalmente sparita, togliendo al film la sua caratterizzazione principale e indebolendo parzialmente la storia (passata) del personaggio interpretato da Harrison Ford. Più nitida, invece, la scena centrale del sogno, importante chiave di (non) lettura sulla vera natura di Rick Deckard, forse anch’egli un replicante. Ed è il finale a confermare una tendenza pessimistica (rispetto all’happy end “ecologista” imposto dalla produzione nella prima stesura, portata a termine con le scene scartate da Kubrick in Shining), che si rifà sostanzialmente a quello della seconda versione. Insomma, il ritorno al cinema (e in un cofanetto con ben 5 dvd) di Blade Runner è un piacere per gli occhi e per la mente. Ma non aspettatevi grosse novità: dopotutto i replicanti vivono all’incirca quattro anni, mentre Blade Runner è già entrato nella storia.
A-Team (The A-Team) è una serie televisivastatunitense trasmessa in prima visione assoluta dal 1983 al 1987 sul canale televisivo NBC. Creata da Frank Lupo e Stephen J. Cannell, segue il filone del “militarismo buono”, in cui l’uso di armi ingegnose e letali non comporta mai la morte o il ferimento grave dei nemici, secondo un’impostazione tipica dell’intrattenimento popolare negli anni 1980[2]. Il titolo A-Team si riferisce indirettamente agli “A-Teams”, termine con cui si intendono gli ODA, Operational Detachments Alpha (Distaccamenti Operativi Alfa). Un commando di ex-combattenti della guerra del Vietnam chiamato A-Team (Squadra A), un tempo appartenenti al 5th Special Forces Group dell’esercito degli Stati Uniti, viene accusato ingiustamente di aver rapinato la banca di Hanoi. Evasi in maniera rocambolesca, vivono in fuga, ricercati e braccati dalle autorità militari per un reato che non hanno mai commesso. I componenti della squadra sopravvivono prestando servizio come mercenari e venendo, nella quasi totalità degli episodi, assoldati da persone o da gruppi di persone oppresse da situazioni d’ingiustizia o di pericolo. Grazie alle qualità militari e umane dell’A-Team, ogni episodio si risolve in maniera definitiva a favore dei più deboli. Pur essendo considerati mercenari dagli altri personaggi della serie, i membri dell’A-Team sono schierati sempre dalla parte del bene. Famoso è il loro furgone GMC Vandura nero e grigio con 2 strisce rosse laterali, che si uniscono sullo spoiler superiore, usato come mezzo principale di trasporto e di azione dell’A-Team.
Vittima di un maleficio, Edwards Markham assume mostruose sembianze ed il fratello è costretto a segregarlo. Ritenuto morto e già sepolto, è salvato per puro caso da un medico. Edward si vendica uccidendo molte persone in modo crudele; perirà alla fine per mano del fratello, al quale comunque riuscirà, con un morso, a trasmettere i propri poteri malefici.
Dal romanzo Roger’s Rangers di Kenneth Roberts _ di cui fu filmata soltanto la 1ª parte _ su sceneggiatura di Lawrence Stallings e Talbot Jannings. Da Portsmouth (Virginia), alla fine del ‘700, il maggiore Robert Rogers organizza un corpo di volontari, i Rangers, per una spedizione verso il Nord. Ha due scopi: trovare e distruggere un villaggio di Irochesi, alleati dei Francesi; cercare un passaggio, attraverso la baia di Baffin, tra l’attuale Canada e la Groenlandia. Girato nell’Idaho e nell’Oregon. Fotografia: Sidney Wagner, William V. Skall e 1° film a colori per K. Vidor e S. Tracy. Il paesaggio _ in uno squillante Technicolor _ ha una funzione importante in questo film d’avventure dove si racconta con rara forza la mistica del militarismo e della violenta conquista coloniale: i pellerossa sono presentati come selvaggi da domare o distruggere alla pari degli elementi naturali da superare nella lunga marcia. Il Rogers di Tracy è visto come un leader col carisma, “l’uomo forte”, ma è tutt’altro che esaltato. Prevale il tono epico, specialmente in 2 sequenze: il trasporto delle imbarcazioni attraverso la montagna (ripresa in altri modi da R.S. Sarafian nel 1971 e da W. Herzog nel 1982) e il passaggio del fiume attraverso una catena umana
Il più lungo processo per crimini della storia degli Stati Uniti giunge sullo schermo ad opera di un grande Vecchio del cinema americano: Sidney Lumet. Dopo anni di indagini la polizia riuscì a incriminare 20 membri della famiglia Lucchese con 76 capi d’imputazione. Il processo durò 21 mesi (1987-88) in un’aula in cui erano presenti 20 imputati con 19 difensori. Perché questa disparità? Perché il mafioso Jackie Dee DiNorscio (già condannato a 30 anni) non solo rifiutò di collaborare con la Giustizia ma decise di difendersi da solo. La sua incultura mista a uno spirito caustico e a una assoluta identificazione con la lealtà dovuta alla famiglia trasformò questo dibattimento in un evento. Il regista di film che rimangono nella storia del cinema giudiziario e poliziesco, con la libertà che è propria dell’età inoltrata si interessa a questo caso e ne trae una tragicommedia che ribalta i ruoli. Sin dall’inizio si fa il tifo per i cattivi (grazie anche a un Vin Diesel strepitoso nella versione originale) e che questo accada in un “Lumet’s movie” potrà forse indispettire qualcuno. Altri potranno invece (più proficuamente) chiedersi il perché. I tempi cambiano. Al cinema e nella realtà.
Junior Bonner si guadagna la vita come faceva il vecchio e gagliardo padre, ex campione di rodeo. Il fratello, invece, vuole coinvolgerlo nei suoi affari e nella vita “borghese”. Dopo l’orgia di violenza di Cane di paglia , Peckinpah torna alle sue origini di regista profondamente americano, tradizionalista e rurale. Bravo e credibile McQueen. Qualche momento di lirica malinconia in questa quieta storia su coloro che “devono tener fermi i cavalli”.
Mrs. Columbo, successivamente Kate Columbo, Kate The Detective ed infine Kate Loves A Mystery, è stata una serie televisivastatunitense creata da William Link e Richard Levinson per la NBC, trasmessa nel 1979, per la durata di due stagioni[1]. La serie è stata fortemente voluta dall’allora presidente del network Fred Silverman[2]. Entrambe le stagioni della serie sono inedite in Italia.
La serie segue le vicende di Kate Columbo, moglie del famoso tenente Colombo, una reporter che si diletta nella risoluzione dei crimini mentre cerca di crescere la sua piccola figlia.
Questa serie è inedita in Italia. Non ho trovato sottotitoli, neanche in inglese.
La serie racconta la storia di una famiglia di schiavi negli Stati Uniti a partire dal 1750, nascita in Gambia nel villaggio mandinka di Juffure del capostipite Kunta Kinte, il quale giunto all’età di quindici anni, viene portato con altri coetanei in un luogo per l’iniziazione e la circoncisione, secondo i precetti dell’Islam. Tornato a casa sua nonna Nyo Boto gli comanda di andare nella giungla per procurarsi un tronco di legno per fabbricare un tamburo, ma viene catturato dagli slatì, membri di altre tribù ingaggiati dai taubob, gli europei, per catturare schiavi.
La professoressa di letteratura Vivian Bearing, studiosa di John Donne, si trova improvvisamente di fronte ad una terribile realtà: ha un cancro terminale alle ovaie. Da quel momento inzia il suo calvario tra chemioterapie ed esami. Il solito film sulla malattia dunque? No. Perché (e qui sta la novità) Vivian commenta ironicamente quanto le succede mostrando il disagio del malato senza cadere nel patetismo. Assistiamo cosí alla visita ginecologica compiuta da un medico di fresca nomina più imbarazzato di lei o ai ricordi del suo passato più o meno recente che si materializzano nella sua stanza di ospedale o mentre viene sottoposta ad esami. Basato sul testo teatrale di Margaret Edson vincitore del Premio Pulitzer nel 1999, il film si avvale di una grande performance attoriale di Emma Thompson capace di affrontare tutte le variazioni di umore e di atteggiamento del personaggio tenendolo sempre in equlibrio sulla corda tesa di un umorismo che non deve mai trasformarsi in comicità.
Nel 1865, alla morte del padre rovinato, la figlia di un piantatore del Kentucky scopre che sua madre era una schiava nera. Sola al mondo, è comperata da un enigmatico gentiluomo che l’ama appassionatamente tanto da farne la padrona dei suoi possedimenti. Nell’adattare il bel romanzo di Robert Penn Warren l’interesse di Walsh è rivolto più a sottolineare le lacerazioni interne dei personaggi che alla tematica positiva dell’antirazzismo. Ne esce il suo film più faulkneriano, sostenuto dalla stupenda fotografia di L. Ballard e dagli interpreti che si prestano bene all’inversione dei ruoli dei rispettivi personaggi. Rimesso in circolazione come La frusta e la carne .
Un uomo in fuga (Montefiori), inseguito da un prete (Purdom), si ferisce gravemente mentre cerca di scavalcare il cancello di una villa abitata da una ragazza semiparalitica, dal suo fratellino, dalla baby-sitter e da qualche domestico. Condotto in ospedale, i medici disperano di salvarlo, ma, incredibilmente, le ferite si rimarginano e l’uomo, uccisa un’infermiera, elude la sorveglianza. Il prete spiega alla polizia che l’assassino è uno psicopatico al quale, tempo prima in Grecia, uno scienziato ha inoculato un siero che rigenera le cellule: praticamente indistruttibile e immensamente forte, può essere annientato soltanto con una pallottola nel cervello.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.