Uscito di prigione, rapinatore si ricongiunge alla moglie, compie un grosso colpo e con lei si rifugia nel Messico. Violento, amorale, stringato, ricco di eccessi e di tensione, questo film d’azione sulle imprese di una coppia criminale, reciprocamente infedele ma unita, è un efficace compromesso tra le ambizioni di Peckinpah e il divismo di McQueen. Sceneggiato da Walter Hill su un romanzo di Jim Thompson (1959).
Oscuro e anziano gregario della malavita, con tre figli a carico e una condanna che gli pende sulla testa, è costretto a fare l’informatore della polizia. Uno dei suoi amici è incaricato di metterlo a tacere. Da un romanzo di George V. Higgins. Uno dei migliori polizieschi degli anni ’70 che, per l’atmosfera di malinconica fatalità, rimanda al cinema “nero” degli anni ’40. Per l’uso lento degli inseguimenti d’auto è il contrario di Bullitt . Anche nelle situazioni più trite è originale. Mitchum perfetto.
Jack è un ex poliziotto diventato tecnico del suono. Compiendo esperimenti per la colonna sonora di un nuovo film, capta casualmente il rumore di un’auto che cade in un torrente. Precipitatosi sul luogo dell’incidente, riesce a salvare una bella ragazza che era a bordo di una macchina, ma non il conducente, governatore dello Stato e candidato alle elezioni presidenziali. Riascoltando i suoi nastri, Jack sente il rumore di uno sparo e capisce che l’incidente è stato in realtà un delitto, dietro il quale si cela un’oscura macchinazione politica.
Un film di Kelly Reichardt. Con Daniel London, Will OldhamDrammatico, durata 76 min. – USA 2006. MYMONETRO Old Joy valutazione media: 3,00 su 1 recensione.
Due amici che non si vedono da tempo si mettono in viaggio in macchina da Portland per raggiungere le Oregon’s Cascade Mountains. Daniel London è Mark e guida, Will Oldham è Kurt e fuma. La notte li sorprende che ancora non sono giunti a destinazione, ma il giorno successivo li condurrà alla sospirata meta, una fonte di acqua bollente che sgorga dalla montagna sprigionando vapore e bellezza. È Old Joy, tratto da una novella di Jonathan Raymond, co-sceneggiatore del film insieme alla regista Kelly Reichardt, e prodotto, fra gli altri, da Todd Haynes. Cinema del viaggio nel tempo e nello spazio ma anche cinema del presente per costituzione, il road movie di Kelly Reichardt ci invita a non ascoltare solo le brutte notizie che vengono dalla radio e che raggiungono tutti allo stesso modo, ma ad ascoltare anche il silenzio del mondo e a riempirlo con pensieri che siano solo nostri. Lo spettatore di Old Joy è chiamato a colmare il vuoto solo apparente del film, a fare i conti con la memoria e con tutto ciò che si perde nel divenire adulti. Mark e Kurt perdono la strada ed è il momento in cui, nonostante siano soli e amici nella natura deserta e sotto lo stesso tettuccio, non potrebbero scoprirsi più lontani. Specchiandosi l’uno nell’altro, i due uomini si vedono diversi, cambiati. Per Mark quel che conta è la meta, aspetta un figlio, il mondo va male e lo sa ma fa il suo dovere per la comunità; per Kurt quel che conta è il viaggio, il futuro non sa cos’è ma è in grado di assaporare ogni istante del presente. Forse sta impazzendo, infatti fa sogni strani, ma sono pieni di poesia e di meraviglia (Oldham, non a caso, è uno dei più apprezzati songwriter americani). Obiettivo del loro viaggio si rivela…l’acqua calda: niente di più o di meno della scoperta della sensazione pura. Discreto come un sussurro, asciutto e tuttavia mai arido, Old Joy è in realtà un termometro sensibile dei nostri tempi e un canto di libertà.
Nel 1997, per il 25esimo anniversario dalla realizzazione di Pink Flamingos, capolavoro “trash” assoluto di John Waters, è uscita questa videocassetta commemorativa digitalmente rimasterizzata. Al termine del film il commento di John Waters presenta alcune scene non inserite nel montaggio finale. A partire dal 1964 parallelamente ai film esistenziali e scioccanti prodotti da Andy Warhol, Waters ha portato avanti il suo stile improntato sul “cattivo gusto”, sostenuto dal Museo d’Arte Moderna di New York. La fama di Divine, considerato personaggio assolutamente disgustoso, rende gelosi Connie e Raymond. Questi ultimi rapiscono ragazze, le rendono incinte e vendono i neonati a coppie che non possono avere figli. Nel frattempo la madre di Divine, che vive in un lettino per poppanti, si innamora di un venditore di uova. Si celebra così la grande festa e un finto matrimonio. Connie e Raymond danno fuoco alla roulotte di Divine e quest’ultima li uccide davanti alla camera da presa di un regista di cinema-verità. Waters in questo film non risparmia cartucce e oltrepassa ogni limite fino allo “snuff” e al “porno”. Nonostante il film sia pieno di scene nauseanti, quella che tutti i cinefili citano è il finale in cui Divine mangia realmente le feci di un cagnolino. Pink Flamingos non può essere giudicato con i consueti parametri e viene inserito nel dizionario per un dovere storico. Solo in videocassetta di importazione.
Clean, Shaven è un filmstatunitense del 1994 scritto e diretto da Lodge Kerrigan, che cerca di affrontare obiettivamente il tema della schizofrenia e di chi ne è affetto raccontando il tentativo disperato di un uomo schizofrenico di riprendersi sua figlia dalla madreadottiva.
Il film inizia con immagini astratte e suoni allucinati. Peter Winter è stato recentemente dimesso da un istituto di salute mentale e subito dopo il rilascio si trova a fare i conti con un mondo che gli è estraneo.
Un disc-jockey disoccupato alla deriva e un ruffiano meno duro di quel che pretende di essere finiscono in prigione. Nella stessa cella capita un improbabile e stralunato turista italiano dall’inglese maccheronico e patafisico. Esistono tre personaggi e una serie di luoghi, più che una storia. Partendo da una sceneggiatura con un largo margine di improvvisazione, Jarmusch mescola i generi, gli stili, i toni, ma soprattutto lascia liberi i tre attori in un gioco dove l’ironia si alterna con la buffoneria. Se si accettano le regole, è un film di una simpatia cui è difficile resistere.
Storia di due ragazzi di vita che si prostituiscono: Mike, narcolettico e drogato, è alla ricerca della madre; Scott ha scelto i bassifondi in rivolta al padre ricco e potente, ma torna sulla retta via grazie all’amore di una ragazza italiana. Il personaggio è modellato sul principe Hal di Enrico IV di Shakespeare e corredato di un moderno Falstaff. Aduggiato da una greve retorica omosessuale di taglio freudian-americano, riscattato da un raffinato senso figurativo e da belle invenzioni registiche.
In un piccolo paese del Nord Carolina, un gruppo di ragazzi gioca in un parco, quando uno di loro perde la vita. I compagni, travolti dal senso di colpa, nasconderanno la verità dietro una tragica bugia.
Insoddisfatta del suo lavoro di dirigente di una importante galleria d’arte a Los Angeles, in crisi con il marito, ricco, bello, di successo e algido quanto lei, Susan riceve la bozza del libro di Edward, suo primo marito che non vede da 19 anni, sposato per passione – contro il volere della famiglia – lasciato per calcolo e sfiducia nel suo talento. La lettura del dattiloscritto la coinvolge e sconvolge: un uomo in viaggio di notte con la moglie e la figlia adolescente finisce nel mirino di 3 balordi violenti. La vicenda del romanzo – brutta, sporca e cattiva – si intreccia con i flashback della sua storia d’amore e con gli eventi della vita odierna, in una cornice lussuosa, asettica, patinata, falsa. Dopo 7 anni dal suo esordio, Ford torna alla regia con una storia d’amore e di vendetta (dal libro Tony & Susan , 1993, di Austin Wright) violenta ed elegante, attraversata da alcune battute folgoranti, con un cast di prim’ordine, non solo i 2 protagonisti Gyllenhaal (nel doppio ruolo dell’ex marito e del protagonista del libro) e la Adams. Memorabili musiche hitchcockiane. Gran Premio della Giuria a Venezia 2016.
Sono quasi sicuro di averlo visto ma non mi ricordo niente. Mi sembra sia un bel film però.
Un’esperienza. Inland Empire di David Lynch non è un film organico, lineare, comprensibile, con un inizio e una fine definibili tali, ma è innanzitutto un’esperienza sensoriale. Un flusso di pensiero libero di un artista, che non richiede spiegazioni, ma solamente intuizioni, emozioni personali, positive o negative che siano. Si potrebbe parlare di mondi paralleli, di realtà e finzione che si fondono, si incontrano, si abbandonano, di cinema e televisione (e di pellicola e digitale), del concetto del Tempo, non sequenziale, “random” e assoluto. Si potrebbe anche analizzare il film nei dettagli dei frammenti che compongono la storia. Si potrebbe anche non giudicare, e semplicemente sentire, subirne il suo effetto. Inland Empire, infatti, per la lunga durata (172 minuti di Lynch, in ogni caso, mettono a prova anche i suoi fan), è uno straordinario bombardamento di immagini e suoni, ai quali lo spettatore non può non reagire. La perdita dell’orientamento che ne consegue provoca una totale apertura verso ciò che è sullo schermo, generando le emozioni a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Lo si può amare, odiare, rifiutare, non giustificare. Paradossalmente, in riferimento al giudizio di valutazione potrebbe valere una stella, tre stelle, cinque stelle. Il sospetto che un’opera simile sia un divertissement di Lynch stesso, non va tralasciato. Anche se fosse, comunque, il risultato sarebbe il medesimo, perché di questi tempi uscire con una sensazione violenta, da una sala è sempre più raro. Inland Empire è un’esplorazione, un esperimento, un varcare i confini noti e verificarne la possibilità e i limiti. Fra dieci anni, chissà, sarà considerato un capolavoro.
Un sogno/incubo ad occhi aperti, la follia su pellicola, nessuna logica. Non tutti arriveranno alla fine.
Dal romanzo (1934) di James Cain, filmato anche da P. Chenal (1939), L. Visconti (1943), B. Rafelson (1981): sensualmente intrappolato dalla moglie del padrone dell’autogrill dove lavora, un giovanotto uccide il principale. Il destino aspetta dietro l’angolo. Per ragioni di censura il legame tra sesso e violenza, così esplicito in Cain, è suggerito da Garnett con un clima claustrofobico e segnali indiretti che fanno degnamente appartenere il film al genere noir. Conta soprattutto per la presenza di L. Turner e di J. Garfield, ma anche i personaggi di contorno sono ben disegnati.
4ª trasposizione del romanzo (1934) di James Cain, la 1ª che mette in immagini esplicite la rude e aggressiva sensualità che, per ragioni di censura, i registi precedenti avevano dovuto comprimere o elidere. Di questa storia di un amore che, nato da una violenta attrazione fisica, si trasforma in un rapporto più profondo e complesso, Rafelson fa un altro film sul “sogno americano”, la sua trasformazione in incubo, descrivendone _ col contributo notevole della fotografia di Sven Nykvist _ il contesto sociopolitico. Più che J. Nicholson, un po’ troppo vecchio per la parte e talvolta sopra le righe, è ammirevole J. Lange, migliore delle 3 attrici che l’hanno preceduta: Corinne Luchaire, Clara Calamai e Lana Turner
I fatti più salienti della vita di Gesù visti dagli occhi di Maria Maddalena, ricca cortigiana, il cui amante Giuda Iscariota diventa uno dei seguaci di Cristo. Allora lei lo sente predicare, si pente dei suoi peccati e diventa pure sua discepola, seguendolo fino alla sua crocifissione e resurrezione.
Killer psicopatico si traveste da donna per compiere efferati delitti. Il figlio della vittima e squillo di lusso si mettono sulle sue tracce. Grande ammiratore e studioso di Hitchcock, De Palma lo echeggia nello stile ( Psyco , La donna che visse due volte ) ma dal maestro non ha appreso la logica dell’intrigo, l’onestà verso lo spettatore e la credibilità umana dei personaggi. Entra di diritto, comunque, nell’antologia dell’erotismo. Colonna sonora assai efficace di Pino Donaggio.
Tre giovani amici – il giornalista Alex, il commercialista David e la dottoressa Juliet – cercano un coinquilino con cui condividere le spese del grande appartamento in cui vivono. Finalmente un giorno trovano la persona giusta, ma, dopo la prima notte trascorsa nella casa, il nuovo inquilino viene trovato cadavere. Sembrerebbe un suicidio. I tre stanno per chiamare la polizia, quando si accorgono che l’uomo aveva con sé una valigia piena zeppa di soldi. La tentazione è troppo forte. Alex e Juliet, i più spregiudicati, convincono il più prudente e restio David a sbarazzarsi del cadavere per dividersi quella montagna di denaro. Un esordio che lascia il segno. Quello dell’inglese Danny Boyle dietro la macchina da presa, usata deliziosamente per dirigere un piccolo gioiello della black comedy.
A partire da una folgorante prima sequenza, dove l’accesissimo rosso dei titoli di testa lascia intendere i retroscena macabri di cui sarà costellato l’intero film. Così come la surreale enunciazione di un biondino pallido sull’importanza di amicizia e fiducia, con hitchcockiano movimento di macchina a spirale sul suo volto. Subito dopo, il movimento di macchina si fa frenetico, convulso, vertiginoso, all’inseguimento di un’auto che corre per le vie di una città elegante ma anonima. In questa prima sequenza è condensato il manifesto stilistico del film, così come dell’intera poetica di Boyle, regista che in seguito ci abituerà a piacevoli sorprese, soprattutto con il vertice di Trainspotting, che avrebbe consacrato il talento dell’attore Ewan McGregor, qui promettente sconosciuto. Manifesto stilistico, quindi, ma non mero esercizio di stile. Perché, oltre a un senso estetico di plastica bellezza – accentuata da un’esaltazione pop dei colori e da inquadrature vertiginose e a spirale che citano e omaggiano il maestro del brivido Hitchcock – questo primo lavoro di Boyle regala momenti di autentico spasso amorale e visionarietà. Come la folle e divertentissima presentazione iniziale dei tre protagonisti, che mettono in moto un cast, con tanto di domande matte e spiazzanti, per scegliere il coinquilino giusto, quello in grado di reggere i loro cinici giochi di ruolo. O la conturbante scena del ballo tra Alex e Juliet e quella, più surreale, in cui lui è vestito da donna e guarda con lei un filmino, al massimo della complicità. Dal grottesco umorismo nero, che esalta l’amoralità dei due protagonisti, si passa al raccapricciante e visionario incubo allucinatorio del terzo personaggio, destinato, dai giochi crudeli dei due amici, a passare improvvisamente dal ruolo di vittima a carnefice. In questa seconda parte, il regista perde un po’ la presa, soprattutto per alcune forzature di sceneggiatura e per il sottotesto moralistico che suggerisce come l’avarizia possa scatenare i peggiori istinti dell’uomo e rovinare solide amicizie. Che, in realtà, non erano poi così solide, dato che sottilmente logorate da una latente gelosia, in un triangolo dominato – come in ogni noir che si rispetti – dalla classica femme fatale infida e manipolatrice. Interessanti suggestioni psicologiche, che alla fine chiudono il cerchio, ritornando là dove tutto era iniziato.
Il corpo di una donna viene recuperato da un misterioso motociclista fuori strada e trascinato su un camion, dove un’aliena, con le medesime sembianze della malcapitata, ne indossa letteralmente le vesti. L’aliena intraprende quindi un viaggio attraverso la Scozia, sfruttando il proprio fisico seducente per adescare uomini soli e non restituirli mai più alle loro vite. Glazer va dritto al centro del romanzo di Michel Faber, rinunciando ad ogni conoscenza o informazione preparatoria per occuparsi solo e soltanto del viaggio della protagonista e costruire così un on the road visionario, teso ad immaginare barlumi di altre dimensioni ma anche e soprattutto a guardare il nostro mondo con un occhio altro. Tre versioni del copione e un periodo di fermo potevano insospettire e ora appare evidente che l’incertezza era e resta legittima. Spogliato del contesto fantascientifico e ridotto quasi al silenzio, il film non guadagna a sufficienza in atmosfera da compensare le perdite in materia di psicologia e possibilità di identificarsi con il personaggio. Quest’ultima, poi, è una scomparsa non da poco, perché è proprio sull’ambiguità del discorso identitario che si gioca la partita: chi sia la vittima e chi il carnefice, è la domanda più che esplicita che il regista gira allo spettatore. Tornano, dunque, le sovrapposizioni e i doppi ingannatori di Birth, ma sparisce completamente il sentimento che ci avvicinava e turbava in quell’occasione. Là, infatti, dove Nicole Kidman ci straziava silenziosamente nel suo esser pronta ad apparire un’aliena e ad affrontare la solitudine pur di credere all’amore, con un ribaltamento narrativo che trascina però con sé anche un senso più profondo, Scarlett Johansson è qui inizialmente insensibile al dolore così come al piacere per poi sperimentare l’emergenza di una sorta di curiosità, di desiderio di un contatto, di saggiare un gusto, che la conduce rapidamente (e ideologicamente) alla rovina. Il confronto insistito sullo spazio visionario ed estetizzante ma in verità crudele e annientatore proprio della dimensione aliena e quello più aspro, squallido e violento delle Highlands e, per estensione, dell’umanità (abitato però dalla comicità televisiva e riscaldato qualche volta dal rifugio domestico) è tutto quello che Glazer decide di dire e mostrare, ma la sensazione è che sia un discorso povero e riduttivo, che ci lascia insensibili e alieni al destino della protagonista.
Rudolf Höss e famiglia vivono la loro quiete borghese in una tenuta fuori città, tra gioie e problemi quotidiani: lui va al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro o combinano qualche marachella. C’è un dettaglio però. Accanto a loro, separato solo da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il direttore.
A dieci anni di distanza da Under the Skin, acclamato universalmente come una delle opere che ha meglio colto le inquietudini della contemporaneità, Jonathan Glazer si ripresenta con la trasposizione di un romanzo di Martin Amis.
Siamo di fronte ad un film ambizioso e collocato in un’epoca storica tristemente nota, quella degli anni ’40 e della messa in atto della Soluzione Finale da parte dei nazisti.
Ma è chiaro fin da subito come non sia la ricostruzione storica a interessare il regista, bensì la messa in scena di una situazione paradossale, così estrema da trasformarsi in un laboratorio di analisi della banalità del male e della separazione tra percezione soggettiva e realtà oggettiva.
Introdotto e chiuso da alcuni minuti di solo audio – una composizione di Mica Levi che sembra rievocare il suono di urla di dolore umane – il film di Glazer sceglie di introdurci alla vita di una famiglia rivelando gradualmente il contesto generale. Con un astuto gioco di campi e controcampi e una meticolosa osservazione del profilmico, in cui ogni dettaglio dell’inquadratura assume importanza, cominciamo a intravedere cosa ci sia al di là del muro, e quindi ad associarlo alle immagini note di una delle pagine più tragiche della storia dell’umanità. Svelato il mistero, tutto assume un nuovo significato e ogni situazione quotidiana sembra una versione distorta di quanto avviene al di là del muro: non saremo più in grado, come è giusto che sia, di interpretare con il medesimo metro di giudizio quanto avviene alla famiglia Höss.
Eppure, superato lo choc della scoperta, a emergere con vigore è il ruolo simbolico della rappresentazione messa in atto da Glazer. Una volta che tra spettatore e personaggi si è creato un distacco siderale, ecco che la sceneggiatura li riavvicina, insinuando il dubbio che sia proprio la normalità di alcuni piccoli gesti e dialoghi il monito nascosto di La zona d’interesse. I discorsi sulla carriera professionale di Rudolf, il ménage famigliare o il contrasto tra la personificazione di animali e piante a scapito dell’oggettivizzazione delle vittime di Auschwitz, la costante sensazione di vivere in una bolla, nella negazione di quel che avviene al di fuori, riproduce comportamenti e vizi della nostra contemporaneità borghese.
Mentre sta portando a termine la ricostruzione dello scheletro di un dinosauro, un goffo paleontologo s’imbatte in Susan, ricca ed eccentrica signorina che, invaghitasi di lui, gli combina un sacco di guai. Di questo capolavoro della screwball comedy degli anni ’30 Hawks, produttore-regista per la RKO, diceva che ha un grave difetto: tutti i personaggi sono picchiatelli sebbene, nonostante le apparenze, il più “normale” sia proprio Susan.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.