Cordoba è un bandito messicano che nel 1912 compie feroci scorribande al confine tra Messico e Stati Uniti. Un capitano dell’esercito USA ha l’incarico di eliminarlo. Ritmo veloce, ma lento pensiero in questa ibrida e fiacca imitazione dello “spaghetti-western”.
Un giovane provinciale, ambizioso e privo di scrupoli, ma tutto sommato ingenuo, cerca di dare la scalata al successo. Crede di esserci riuscito quando conquista l’amore di una ereditiera. Purtroppo, però, ha già una relazione con un’operaia che attende un figlio da lui, così quando questa cade da un barca il giovanotto la lascia affogare guadagnandosi la sedia elettrica.
Due carcerati, il bianco Johnny Jackson e il nero Noah Colleen, scappano insieme dal furgone blindato della polizia. Sono legati tra loro da una catena, ma litigano e fanno a botte in continuazione.
Roma: età di Tiberio imperatore. Il giovane e nobile Marcello ritrova a un’asta di schiavi la bella Diana, innamorata di lui da quando erano bambini. Marcello acquista lo schiavo Demetrio soffiandolo a Caligola, futuro imperatore. La vendetta non si fa attendere, Marcello è inviato come tribuno in Palestina, cioè nella terra più irrequieta di tutto l’impero. È proprio il momento dei fatti di Pilato e Gesù. Questi è condannato a morire sulla croce e l’incarico della crocefissione viene affidato proprio a Marcello che, bagnatosi col sangue del Cristo, non regge al rimorso e quasi impazzisce. Torna a Roma ricevuto da Tiberio, che dopo aver ascoltato il racconto del tribuno lo rimanda sul luogo a cercare la tunica di questo strano predicatore. Intanto Diana è stata promessa a Caligola, ma ama più che mai Marcello. In Palestina il romano ritrova Demetrio che custodiva la tunica. Marcello si è ormai convertito quando torna a Roma. Nel frattempo Caligola è diventato imperatore e non ha dimenticato. Marcello viene catturato e condannato a morte. Diana sceglie di morire con lui. La Fox aveva scelto questa storia di Lloyd Douglas dagli evidenti accenti mélo per un’importantissima operazione di cinema: La tunica doveva rappresentare la prima, vera, concreta risposta del cinema a quello che stava diventando lo strapotere della televisione. Così il film venne fotografato in cinemascope e il vecchio schermo quadrato venne praticamente moltiplicato per tre. È stata una delle più importanti invenzioni del cinema, la prima di una serie che arriva ai nostri giorni e che continuerà. La Fox era specializzata nella versione di grandi romanzi più o meno popolari (di autori come Hemingway e Fitzgerald, per esempio), realizzando una contaminazione efficace e tutto sommato positiva, anche se venivano privilegiati il sentimento e l’effetto. Anche La tunica, seppur scritto da un autore meno nobile di quelli citati, rientra perfettamente in questi concetti. Il risultato, sul piano squisitamente cinematografico, fu ottimo, il film fece grandi incassi ed ebbe la nomination per l’Oscar. Dunque si può affermare che il 1953 sia l’ultimo anno dell’era non televisiva, l’ultimo anno del cinema puro, senza condizionamenti. Il critico Mario Guidorizzi, forse con un pizzico di paradosso, nel saggio introduttivo del suo Hollywood afferma proprio che il cinema finisce nel 1953. Vale la pena ricordare i cinque titoli finalisti per gli Oscar di quell’anno: Da qui all’eternità (vincitore), Giulio Cesare, Il cavaliere della valle solitaria, Vacanze romane e, appunto, La tunica. Se era la fine di un’epoca, era uno splendido canto del cigno.
Grazie alla guida di un vecchio sergente, quattro fanti americani della divisione “The Big Red One” sopravvivono a quattro anni di guerra sui vari fronti, dall’Algeria alla Germania. Una lezione di cinema. E di guerra. Film autobiografico, è il testamento di Fuller, la sintesi della sua esperienza bellica. Fa il contropelo ai film bellici hollywoodiani e lo dedica ai superstiti perché (come dice Carradine, alter ego del regista) “la sopravvivenza è l’unica vera gloria in guerra”. Non sono poche le scene memorabili e ancor più rari i film che della guerra raccontano gli aspetti bizzarri e tremendi.
Dopo più di vent’anni, ritorna Il grande uno rosso in versione completamente ricostruita, con l’aggiunta di 40 minuti e 8 sequenze assenti nella prima versione, recuperate a partire dallo script e dagli appunti originali del regista, dai tagli di pellicola e dalle piste sonore di proprietà della Warner Bros.
Una ragazza sordomuta viene violentata da un marinaio. La paternità del bimbo che le nasce viene attribuita al giovane medico che aveva dimostrato interesse per la giovane aiutandola a trovare un modo di esprimersi e comunicare con gli altri. Ma il vero colpevole si scopre quando tenta di sottrarre il bambino alla madre, che disperata lo uccide. Grazie ad una testimonianza, il tribunale le riconosce la legittima difesa e la sordomuta sposa finalmente il medico.
Un bandito messicano ruba ad un mite cacciatore il magnifico purosangue che l’uomo vorrebbe usare per rifarsi una vita come allevatore. Deciso a riaverlo ad ogni costo, il cowboy è costretto ad impugnare la pistola.
Negli anni ’70 dell’Ottocento lo sceriffo di Hadleyville sposa una quacquera e dà le dimissioni, deciso a partire, ma cambia idea quando apprende che con il treno di mezzogiorno arriverà un bandito, da lui arrestato per omicidio, che vuole regolare i conti con l’aiuto di tre complici. Abbandonato da tutti, affronta da solo gli aggressori. Raccontato in tempo reale con una ingegneria narrativa che ha il suo culmine nella sparatoria finale, è una lezione di etica civile in forma di western e soffre di un certo schematismo. Prodotto da Stanley Kramer, scritto da Carl Foreman (intellettuale di sinistra finito sulla lista nera negli anni del maccartismo), ispirato al racconto The Tin Star di John W. Cunningham, valse a Cooper il 2° Oscar della sua carriera. Altre 3 statuette: montaggio (Elmo Williams, Harry Gerstad), musica (Dimitri Tiomkin), canzone del titolo (Tiomkin, N. Washington), cantata da Tex Ritter. Circola in TV colorizzato, a scempio dello splendido bianconero del grande Floyd Crosby.
È il racconto classico della sfida combattuta all’OK Corral di Tombstone il 26 ottobre 1881 tra lo sceriffo Wyatt Earp, i suoi fratelli e il giocatore-beone Doc Holliday da una parte e il clan dei fratelli Clanton dall’altra. Quando John Ford dirigeva i suoi western muti Earp era ancora vivo, capitava sul set e si ubriacava giocosamente con le comparse. Ford gli offriva il caffè e si faceva raccontare la grande sfida. Anni dopo ha riprodotto a memoria quelle schegge di vita di frontiera e la manovra militare che ebbe per teatro il Corral. È un western molto bello, un classico e il più accorato di Ford. I personaggi esprimono una sorta di “gentilezza dei prodi” e vivono nell’atmosfera d’una canzone di gesta carica di nostalgia. Ford è imbevuto dello spirito reale della vita di frontiera, riproduce fedelmente lo stile con cui cowboys e fuorilegge rischiavano l’esistenza in un crogiuolo arroventato come Tombstone. E il film è la più esatta – se non storicamente, come spirito – ricostruzione tra le molte che sono state fatte sull’episodio. Henry Fonda dipinge Wyatt Earp come un classico westerner onesto e crepuscolare: un personaggio quasi timido, il pistolero convertitosi in tutore della legge. La sua figura suggerisce i momenti più distesi del racconto: il riposo con un piede sulla seggiola inclinata e l’altro sulla balaustra della veranda, i colloqui intensi con Clementine, la memorabile scena del ballo. Ma la grande figura del film, un epico signore della frontiera degno di Francis Bret Harte, è “Doc” Holliday: un sorprendentemente bravo Victor Mature, medico con vocazione alla pistola, tubercolotico come nella miglior tradizione romantica, poeta maledetto che sa a memoria Shakespeare e che completa il monologo dell’ Amleto azzoppato dal patetico vuoto di memoria del vecchio attore. E deliziose, anche se un po’ in ombra, sono le figurine femminili: l’impetuosa, ardente Chihuahua di Linda Darnell, una sanguemisto dalla scollatura densa di profumo, e la magica Clementine, preziosa nella sua sommessa malinconia, tutta giocata su toni grigi poetici. Come quasi sempre in Ford la leggenda del West approda alla poesia e sfavilla in momenti di grande forza, anche se l’azione spesso cede alla descrizione lirico-nostalgica. Tra la storia e la leggenda Ford anche questa volta ha stampato la leggenda. Ma il vigore del sentimento dei personaggi, le figurine disegnate a tutto tondo, la ricchezza del racconto e la splendida descrizione dei paesaggi magistralmente fotografati nell’amata Monument Valley danno al film il tocco più prezioso dell’autenticità.
L’azione si svolge al confine messicano durante la rivoluzione di Pancho Villa. Un gruppo di banditi accetta di depredare per denaro un carico di armi destinate ai ribelli. Il colpo riesce sennonché uno dei malviventi, scoperto mentre nasconde una cassa del prezioso carico, viene torturato e ucciso. I suoi compagni, per vendicarlo, sparano sui regulares uccidendoli, ma rimanendone anche vittime. Il regista ha dipinto un affresco anticonformista descrivendo una realtà di miseria e squallore, lasciando parlare i peones messicani con il loro dialetto. Film importante; uno dei manifesti del tramonto del western. Mentre Butch Cassidy, l’altro grande western decadente, uscito nello stesso anno, è tenero e nostalgico, questo film è crudele e cinico.
Un film di Howard Hawks. Con Kirk Douglas, Dewey Martin, Arthur Hunnicutt, Elizabeth Threatt, Barbara Hawks, Bon Belloe, Booth Coleman, Buddy Baer. Titolo originale The Big Sky. Western, b/n durata 112 min. – USA 1952. MYMONETRO Il grande cielo valutazione media: 4,31 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Missouri 1832. Jim (Douglas) e Bill (Martin) si incontrano e diventano amici, vanno a caccia e fanno baldoria. A S. Louis finiscono in gattabuia, ma escono grazie all’intervento di un commerciante che intende opporsi allo strapotere della Compagnia delle pellicce: risalirà il Missouri fino alle terre dei Piedi neri, forte di un eccezionale ostaggio, la figlia del capo indiano, che costituirà appunto da lasciapassare. Durante il viaggio la donna, misteriosa e silenziosa, coltiva i suoi sentimenti. Straordinario capolavoro western, opera di un regista che quattro anni prima aveva firmato un’altra pietra miliare del genere, Il fiume rosso. Hawks si poneva dunque nell’eccellenza dei film sull’ovest, a pochissima distanza da John Ford. Il film contiene tutti i grandi temi della frontiera, in maniera decisamente “fisica”: magnifica la natura, così come i tempi dell’avventura, e tutt’altro che banali gli intrecci dei rapporti. Hawks è stato titolare di minor mito rispetto a Ford, i suoi film sono più vicini a una buona verità. Una certa critica considera questo autore per certi versi più attendibile e completo di Ford stesso. Il grande cielo, del 1952, fa parte della più bella stagione del western (esattamente coetaneo di Mezzogiorno di fuoco), quando il cinema era ancora “muscolarmente” forte ed era perfezionato, ma capace di temi vasti positivi e ingenui che avrebbero resistito ancora per poco.
Un cowboy, Tom Dunson, lascia una carovana e assieme a un vecchio amico decide di diventare allevatore. Un giovane orfano, Matthew Garth, diventerà il suo figlioccio. Passano quindici anni e Dunson è diventato un ricco allevatore. Tra lui e il giovane Matthew c’è grande accordo. Ma Dunson si è trasformato. È duro e spietato con chi osa contrastarlo. Matthew lo affronta, lo disarma e lo abbandona al suo destino. Sarà il giovane a condurre una mandria di 8000 capi, ma senza l’intenzione di privare Dunson della sua proprietà. Dopo una lunga marcia Matthew giunge ad Abilene e vende la mandria a un ottimo prezzo. Nel frattempo giunge Dunson, che lo ha seguito con l’intenzione di vendicarsi. Ingaggiano un violento corpo a corpo, interrotto dall’intervento di Tess, la ragazza di Matthew. Sarà lei a far comprendere ai due uomini che l’affetto che li lega è ancora forte. Ora l’azienda di Dunson recherà anche il marchio di Matthew. Chi volesse porre Il fiume rosso in cima alle sue preferenze non sbaglierebbe. Il film, che da molti anni circola in Italia in un’edizione mutilata di circa mezz’ora, è epico senza sconfinare nella convenzione hollywoodiana.
È rivoluzionario nello svolgimento del racconto, specie quando rappresenta la spietatezza di Dunson. La stessa ferocia che Wayne sfodera in Sentieri selvaggi. Tutto il racconto è il paradigma della letteratura western, Ford compreso. Due maestri di tale grandezza sono accumunati dal tema e dal suo svolgimento. Gli attori non a caso sono gli stessi. Naturalmente lo stile Hawks si evidenzia nei tempi del racconto, che sono più larghi rispetto a Ford, più incline al sentimentalismo di stampo irlandese. Hawks è americano nel tratto epico e nella raffinatezza dei dialoghi. Le sequenze da ricordare sono numerose e hanno ispirato buona parte dei western. La partenza notturna della mandria è stata rifatta da Dick Richards in Fango, sudore e polvere da sparo, con un ostentato omaggio al maestro. Sorprendente la presenza del ventottenne Montgomery Clift, nel suo primo e unico western. Il suo modo di guardare l’interlocutore e la sua intensità erano merce rara a quei tempi. Ma la sinergia che sprigiona la coppia Wayne-Clift è frutto proprio della loro diversità e dimostra come il bistrattato John Wayne fosse un notevole attore. I critici del tempo si erano sbizzarriti nel cercare elementi di giudizio che conducessero i personaggi nei dintorni di una tragedia greca. Una presunta e malcelata omosessualità dei due protagonisti è il tema ossessivo, che come una maledizione si era abbattuto sui compilatori dei “Cahier” e sui loro malridotti epigoni. Impossibile raccontare un’amicizia virile senza dovere fare i conti con la psicanalisi, di cui hanno tanto bisogno numerosi cinefili, che ammorbano le limpide acque delle avventure en plein air.
Morgan ha pianificato sei stagioni da dieci episodi ciascuno per coprire tutta la vita della regina Elisabetta, con l’intenzione di cambiare il cast principale ogni due stagioni. Claire Foy interpreta la protagonista nei primi anni del suo regno, affiancata da Matt Smith nei panni del principe Filippo e Vanessa Kirby nel ruolo della principessa Margaret. La serie è girata agli Elstree Studios nell’Hertfordshire, oltre che in varie location nel Regno Unito.
The Crown racconta la storia della regina Elisabetta II dal suo matrimonio nel 1947 ai giorni nostri. La prima stagione copre gli anni che vanno dal 1947, anno del matrimonio tra Elisabetta e Filippo di Edimburgo fino allo scoppio della crisi di Suez nel 1956. La seconda stagione coprirà un arco temporale di nove anni, fino al 1964.
Serie veramente ben fatta, ho visto le prime quattro stagioni e mi sono piaciute molto.
Nel 2018, insieme all’associazione da lei fondata, PAIN (acronimo di Prescription Addiction Intervention Now), la nota fotografa Nan Goldin è protagonista di un’azione di protesta presso il MET di New York. È la prima di una serie di contestazioni plateali che puntano alla cancellazione del nome della famiglia Sackler (fondatrice e proprietaria di una delle più importanti case farmaceutiche statunitensi) dall’elenco dei nomi dei sostenitori e dalle sale o donazioni a loro intitolate. Il primo passo simbolico per denunciare le micidiali ricadute del fenomeno noto come “epidemia degli oppioidi”, il consumo massiccio e indotto di farmaci a base di ossicodone (che provocano una forte dipendenza e portano a dipendenze maggiori): centosettemila morti per overdose negli Stati Uniti solo nel 2021, con tutte le conseguenze sociali ed economiche derivanti.
In quanto parte di una generazione che ha avuto grande familiarità con le droghe, sopravvissuta lei stessa a un’overdose e alla tragica sottovalutazione dell’AIDS, Goldin è particolarmente decisa a combattere la battaglia. E racconta senza filtri alla macchina da presa di Laura Poitras, che la segue per tre anni, molte questioni personali.
Quella originaria è strettamente legata a una concezione impropria e criminale della medicalizzazione, che ha portato al suicidio della sorella Barbara. Un trauma da sempre negato e censurato dalla famiglia.
La guerra americana in Iraq (My Country, My Country), il terrorismo islamico e Guantanamo (The Oath), Julian Assange e Wikileaks (Risk), Edward Snowden (Citizenfour): con la stessa intraprendenza e sprezzo del pericolo, per il suo ultimo film, in concorso a Venezia 2022, Laura Poitras continua a scegliere contesti e individui di eccezionale resistenza e anticonformismo. Ma in All the Beauty and the Bloodshed (“tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”, una citazione che ha a che fare con “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, il cui senso è svelato nel finale) la traccia investigativa, giornalistica, caratteristica suoi lavori precedenti, ha uno spazio meno preponderante, affidato in parte agli interventi di Patrick Radden Keefe (autore di “L’impero del dolore”, libro inchiesta sulla dinastia Sackler, che finanzia anche università come Harvard, ed è costruito sulla fortuna del Valium).
In primo piano sta invece quasi sempre l’insieme dell’opera di Nan Goldin, intrecciata a una biografia selvaggia, ai margini. Classe 1953, cresciuta in un sobborgo borghese per poi essere data in affido e aver vissuto nel nomadismo ribelle tra varie sottoculture, Goldin è nota per le sue sequenze di diapositive proiettate come film prima nei locali underground e poi nelle gallerie, la più nota delle quali è “The Ballad of Sexual Dependency”.
Una serie di scatti realizzati tra fine anni ’70 e anni ’80, nella comunità artistica libera e trasgressiva di New York, dove Goldin ha trovato la sua famiglia d’elezione. Quella che ritrae in foto intime, spesso di nudo, in interni ordinari quando non squallidi, a messinscena zero. Una costellazione di dropout da discografia dei Velvet Underground, un’umanità di drag queen, prostitute, performer, punk, persone amate. Molte decimate dall’HIV, identificato come malattia degli omosessuali maschi e anche questo, proprio come l’abuso di farmaci oppioidi, sottovalutato dalla politica.
È il 1° film di guerra che prende spunto da una fotografia; il 1° dove i combattimenti sono raccontati con l’ottica di un infermiere; il 1° in cui tre soldati, che negano di esserlo, recitano la parte di eroi, trasformati in simboli utili per raccogliere, in war bonds , 14 miliardi di dollari, necessari per continuare la guerra e vincerla; il 1° che, con la stessa regia, ha per gemello e contraltare un film che racconta la stessa storia dal punto di vista del nemico ( Lettere da Iwo Jima ). Ispirato a un libro (2000) di James Bradley, figlio di John “Doc” Bradley, uno dei 6 (il marinaio-infermiere, gli altri erano marines) che il 25 febbraio 1945, 4 giorni dopo lo sbarco, innalzarono (due volte) la bandiera sul monte Suribachi, gesto immortalato dal fotoreporter Joe Rosenthal, premiato con il Pulitzer. Prodotto da Steven Spielberg, sceneggiato da Paul Haggis e William Browley Jr., è un film corale scomponibile in 3 livelli temporali a incastro: a) il presente (interpretati da attori, i vecchi superstiti sono intervistati dal narratore Bradley); b) i combattimenti sull’isola vulcanica che durarono 35 giorni (e vi morirono quasi 20 000 giapponesi e più di 6000 marines); c) la tournée attraverso gli USA dei tre sopravvissuti dell’alzabandiera. Nato da uno pseudo-evento, precursore dell’era delle guerre-spettacolo condotte con la gestione delle loro immagini e l’occultamento di quelle sgradevoli, è un film labirintico e complesso nella sua semplicità, avvicinabile più che a Salvate il soldato Ryan al cinema di Samuel Fuller, secondo il quale “in guerra non esistono eroi, ma soltanto sopravvissuti”. Oltre al suo tema centrale – l’analisi dell’iprocrisia, della retorica, del patriottismo conclamato – emerge il tema, anzi il sentimento, della malinconia struggente dei tre superstiti che, trasformati in grotteschi eroi mediatici, ritornano alle loro vite banali. La vicenda del pellerossa Ira Hayes (Beach) – cui nel 1964 Johnny Cash dedicò una ballata – è eloquente. A questa materia corrispondono con ammirevole coerenza la regia di Eastwood, la trasparenza classica della sua scrittura, l’ironia riflessiva, il gusto per le ombre e le penombre.
Arthur Fleck vive con l’anziana madre in un palazzone fatiscente e sbarca il lunario facendo pubblicità per la strada travestito da clown, in attesa di avere il giusto materiale per realizzare il desiderio di fare il comico. La sua vita, però, è una tragedia: ignorato, calpestato, bullizzato, preso in giro da da chiunque, ha sviluppato un tic nervoso che lo fa ridere a sproposito incontrollabilmente, rendendolo inquietante e allontanando ulteriormente da lui ogni possibile relazione sociale. Ma un giorno Arthur non ce la fa più e reagisce violentemente, pistola alla mano. Mentre la polizia di Gotham City dà la caccia al clown killer, la popolazione lo elegge a eroe metropolitano, simbolo della rivolta degli oppressi contro l’arroganza dei ricchi.
Si presenta con una carta, il Fleck di Todd Phillips, ma non è una carta da gioco: è il documento di una malattia mentale, che lo rende un emarginato, un rifiuto della società, come ci dice la prima sequenza del film, sovrapponendo al suo volto la cronaca di una città allo sbando, sommersa dalla spazzatura fisica e metaforica.
Primo stand-alone sul più famoso villain della DC Comics, il film di Todd Phillips esplora dunque la nascita di un mostro prodotto dalla società stessa, creato e nutrito da illusioni e delusioni, maltrattamenti fisici e psichici, nell’epoca che mescola spettacolo pubblico e degrado morale.
Ambientata nei primi anni ’80, l’origin story diretta, prodotta e co-scritta da Phillips colma i vuoti strategici lasciati nel passato del personaggio, mescolando le indicazioni di Alan Moore e Brian Bolland con la cronaca vera americana e con l’omaggio al cinema coevo di Scorsese, Re per una notte e Taxi Driver in particolare. Parallelamente alla costruzione narrativa della maschera di Joker, siamo invitati ad assistere alla costruzione interpretativa del personaggio che Joaquin Phoenix compie sotto i nostri occhi, trasformandosi fisicamente in altro da sé, aggiungendo energia man mano che perde peso, liberandosi progressivamente dal diktat del sorriso socialmente conveniente (“It’s so hard to be Happy all the time”) per riscrivere radicalmente e alla propria maniera le regole della commedia della vita.
Vari esponenti della controcultura giovanile di sinistra vengono scelti, letteralmente, come capro espiatorio per la violenta repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Con loro viene incredibilmente accusato anche Bobby Seale, co-fondatore del movimento delle Pantere Nere, che a Chicago era stato solo per quattro ore quel giorno. Grazie alle testimonianze di un gran numero di infiltrati nella protesta, si cerca di pilotare il processo verso la condanna, ma il giudice è così di parte e propenso a bizzarre decisioni da sollevare sempre più dubbi sulla regolarità del processo.
“Per me il futuro è stasera”. Tony Manero vive in una casa popolare a Brooklyn. Di giorno fa il commesso, e di sera si scatena sulla posta da ballo con gli amici. Infatuato di Stephanie, con cui fa coppia nelle gare di ballo, Tony cerca di conciliare la sua passione per le esibizioni in discoteca e l’interesse per la scostante partner. Intanto, però, la violenza della metropoli bussa alla porta, e tra pestaggi e tragici incidenti, Tony comprende che deve cambiare vita.
Ci sono due tracce audio in italiano: il doppiaggio originale e il ridoppiaggio
4° film, anche scritto e prodotto, dalla californiana Coppola, figlia di F. Ford che ne è produttore esecutivo. Nel famoso hotel Chateau Marmont di Hollywood, Johnny Marco, divo del cinema d’azione, passa giorni e notti tra apparizioni pubbliche, festini di alcol e droga, fortuiti rapporti sessuali, casuali giri su una Ferrari. Quando la moglie, separata, gli lascia la figlia 11enne Cleo, con lei ha un tenero rapporto quasi alla pari. Imperniata su Marco e in gran parte ambientata nell’hotel con attori poco noti, l’azione comincia e termina in un deserto. Racchiude un labirinto di solitudini, compresa quella di Marco, alienato da una sorta di adolescenza ritardata. È sempre somewhere , da qualche parte, altrove. È un film di fragilità, incertezze, sguardi, poche parole, variazioni minime, frammenti, in bilico tra ritratto di un personaggio e descrizione critica di un ambiente, che spiega la disparità delle accoglienze critiche a Venezia 2010 dove vinse un contestato Leone d’oro. Ricco di ricordi autobiografici, è “un film libero” (L. Malavasi), ma anche anemico, abilmente intessuto di luoghi comuni.
Shangai, 1942. Studentessa appassionata di teatro e di socialismo, a Hong Kong, Wang Jiazhi, diventata la signora Mak, ricorda a Shangai gli avvenimenti che la portarono a diventare l’amante di Yi, collaborazionista degli occupanti giapponesi e capo dei servizi segreti: i resistenti comunisti, alleati al Kuomintang, volevano ucciderlo servendosi di lei. Con questo 9° film, scritto da Wang Hiu Ling e James Schamus da un racconto di Eileen Chang, ad Ang Lee toccò il suo 2° Leone d’oro a Venezia 2007. All’inizio c’è una partita di mah jong , gioco da tavolo tra i più praticati in Cina, forse la sequenza più riuscita del film di cui è il paradigma, riassumendone molti significati. Le regole del gioco ne fanno “la metafora di una società patriarcale, puritana, di stampo confuciano, che bandisce la manifestazione pubblica delle emozioni, che considera la donna un essere assai inferiore all’uomo” (M. Dalla Gassa). Il titolo originale – voglia sfrenata, prudenza – è un ossimoro, ma nel contesto culturale cinese i due termini sono conciliabili. I coniugi Yi ne sono la fedele espressione in una storia senza catarsi né resa dei conti. Wang, invece, non sa giocare e soccombe anche perché è la sola che indossa un’altra identità, come deve fare un’attrice. Le sequenze erotiche – che ne fanno il film sessualmente più spinto mai realizzato in Cina – acquistano così un’ambiguità di fondo: fin dove arriva in Wang la performance dell’attrice e dove comincia la verità dell’orgasmo in cui si sente viva? Dov’è personaggio e dove persona?
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