Bella signora intorno ai quarant’anni, con due figlie e un marito con il quale è in crisi, riesce a far rivivere il passato. Durante una festa con gli ex compagni di scuola ha un malore e sviene. Si ritrova 25 anni prima, tornata ragazzina, ma con l’esperienza dell’età matura. Peggy Sue cerca di cambiare il suo futuro. Già allora il fidanzamento con Charlie non funzionava bene. Ma il destino non si lascia manipolare e, tornata in sé, Peggy Sue capisce quanto la vita è stata generosa con lei. E rivaluta l’amore per il marito. Notevole è l’ambientazione degli anni Sessanta di Coppola.
Dopo l’ennesimo attacco della banda dei banditi di McQuown e la conseguente umiliazione dello sceriffo locale, gli abitanti del piccolo villaggio di Warlock decidono di far intervenire Clay Blaisedell, noto mercenario dalla pistola d’oro le cui gesta riecheggiano anche in un libro di cronache. Clay arriva a Warlock assieme al compagno e mentore Tom Morgan, con il quale decide di far aprire un saloon per bere e giocare d’azzardo. Quando si presentano gli uomini di McQuown, i due giustizieri li minacciano e li fanno fuggire tutti, ad eccezione del giovane Johnny Gannon, che decide di restare in città e di smettere con furti, assalti e imboscate. Mentre gli abitanti del villaggio sono pronti a festeggiare il nuovo corso di pace e giustizia, non lontano Tom Morgan uccide un uomo durante un assalto alla diligenza condotto da parte degli uomini di McQuown, così che interviene lo sceriffo della contea più vicina per promuovere legalmente un nuovo amministratore della giustizia.
La struttura canonica del western prevede sempre il passaggio d’investitura di un nuovo sceriffo (“C’è un nuovo sceriffo in città!”), il momento che segna la svolta dalla fase del disordine e dell’anarchia alla costituzione della legalità e di una morale. D’altronde, gran parte dell’epica western si basa sulla storia dell’arrivo di Wyatt Earp a Tombstone come l’emblema della costituzione di un diritto etico e normativo di un paese ancora troppo giovane per poter vivere al di sotto della legge. Creazione della legge e creazione del mito si confrontano così ancora una volta nello scenario della Monument Valley, con la differenza che nel film di Dmytryk il mito comincia a farsi più complesso e il cielo dello Utah mostra gli strappi della drammaturgia moderna. Nel piccolo villaggio di Warlock la legge è ancora quella personale, quella mercenaria e caotica del “più forte” e gli unici garanti della legalità e della disciplina sono un vecchio giudice zoppo e un bandito ubriacone redento. L’anarchia del vecchio west diviene disordine dei rapporti fra personaggi, i cui scontri non avvengono più solo alla luce del sole con colt alla mano. La coppia Henry Fonda-Anthony Quinn (ancora una volta Wyatt Earp-Doc Hollyday) amministra la legge sul filo della legalità e della rivalità personale, ma rappresenta solo una delle polarità del circuito di relazioni che si creano a Warlock. Dmytryk articola infatti la tensione in funzione di più personaggi (Clay e Tom vs. McQuown, Johnny vs. McQuown, Johnny vs. Tom, ecc.), sia mediante duelli e sparatorie che attraverso rapporti ambigui e amorosi all’interno dei quali le donne assumono sempre più peso nello spostare il baricentro dello scontro. La complessa situazione della piccola cittadina serve a Dmytryk per disegnare una mappa sia etica che politica del vecchio West, e per dimostrare come la legge e l’ordine siano l’evoluzione tutt’altro che naturale di violenza e anarchia.
Texas, fine dell’Ottocento. Mentre organizza la propria campagna elettorale per un posto di senatore, lo sceriffo Howard Nightingale si mette alla testa di un manipolo di sei uomini militarmente addestrati e riporta l’ordine nella regione finché trova un bandito intelligente che gli dà la paga. Travestita da western, è una favola ironica sul tema dell’ambizione e, con qualche schematismo, un apologo sul fascismo, sull’autoritarismo. La tesi funziona perché abilmente nascosta tra le pieghe del racconto. Vero esordio nella regia dopo il mediocre Un magnifico ceffo da galera (1973) di Douglas che si dirige con apprezzabile sobrietà.
Frank Moses è un ex agente della CIA in pensione, che vive in una villetta uguale alle altre cercando di fare una vita uguale alle altre. Purtroppo per lui e per Sarah, la ragazza ingenua e sognatrice che ha conosciuto al telefono, i segreti di stato in possesso di Frank lo hanno trasformato da strumento di morte a bersaglio dell’Intelligence: qualcuno da eliminare e in fretta. Inizia così quella che può apparire come la fuga di Frank Moses ma altro non è che il giro di reclutamento dei vecchi compagni: il vecchio Joe, il folle Marvin, il russo Ivan, lady Victoria, dopo di che la canna della pistola compie un giro di 180 gradi e la fuga si fa vendetta, la diaspora riunione, la pensione una nuova missione. Tratto dal breve fumetto DC Comics scritto da Warren Ellis e illustrato da Cully Hammer, Red è stato completamente reinventato nella sceneggiatura dei fratelli Hoeber, responsabili dell’inserimento dei compagni di ventura del protagonista e del tono divertito e alleggerito del film. Non è, infatti, come uno dei più significativi adattamenti da un fumetto che si fa apprezzare e ricordare questo film, ma piuttosto come una riuscita composizione di quadri, personaggi e situazioni provenienti da spezzoni di pellicole diverse e originalmente e gradevolmente assemblati. I film come materiali di partenza e il racconto come risultato, dunque, anziché viceversa. Ecco allora che nel bel prologo con Bruce Willis, ex supereroe in vestaglia, che prende a pugni il sacco dopo colazione, non c’è solo l’eco del suo Butch in Pulp Fiction (il pugile, la colazione, il mitra) ma c’è anche mister Incredibile e Léon (la piantina), mentre arrivati alla scena del ricevimento di gala, vien da chiedersi quando ci siamo già stati, se in un episodio cinematografico della saga di Danny Ocean o in uno televisivo di Alias. Eppure non sono citazioni soffocanti, forse non sono neppure citazioni, e c’è spazio per molto altro, compreso il sublime personaggio di John Malkovich, un panzone paranoico con un maialino di peluche sotto braccio dal quale estrarrà l’arma con cui umiliare una signorotta col bazooka, in una sequenza emblematica dell’operazione nel suo insieme, quanto a connubio tra ironia e spettacolarità. Ma Willis e Malkovich non sono i soli a portare un valore aggiunto al proprio ruolo: a loro modo lo fanno anche “la regina” Helen Mirren, con il richiamo sornione alla passione tutta inglese per il giardinaggio, e Brian Cox, con la trilogia di Bourne nel curriculum. In assoluto, oltre a qualche buona battuta e a qualche ambientazione più originale del solito, è essenzialmente a quest’alchimia tra attore e personaggio che si deve il piacere della visione. Da segnalare, in coda, un motivo di interesse anche nella figura di Sarah che, nel campionario dei caratteri femminili cinematografici, si può ascrivere come appartenente alla categoria della “palla al piede”. Con i romanzetti rosa in testa e le manette alle mani (quando non la pistola alla tempia), pretende ed ottiene di essere portata in prima linea e salvata ogni volta, contribuendo a fare del consenziente Bruce Willis un gentleman come pochi altri.
Pirati dei Caraibi (Pirates of the Caribbean) è una saga cinematografica della Disney prodotta da Jerry Bruckheimer basata sull’omonima attrazione dei parchi Walt Disney. La saga è composta da cinque film e si è espansa in fumetti, romanzi e altri media. La saga ha come protagonista il pirata Jack Sparrow, interpretato da Johnny Depp, e ha incassato complessivamente quattro miliardi e mezzo di dollari al box-office.
Los Angeles, 1928. Christine Collins, madre nubile di Walter, 9 anni, ne denuncia la scomparsa. 5 mesi dopo il Police Department di L.A. le consegna un bambino che dice di essere suo figlio. Lei non lo riconosce. Accusata di essere una madre snaturata, poi di paranoia, è internata illegalmente in manicomio dove si praticano elettrochoc e altre sevizie. Resiste. Grazie a un ministro presbiteriano e ad altri che da tempo denunciano corruzione, violenze, illegalità del LAPD e il dispotismo marcio del sindaco che lo copre, è liberata e i responsabili denunciati. Si trova e si arresta intanto uno psicopatico pedofilo e pluriassassino di bambini. I due processi, che si svolgono in parallelo, appassionano l’opinione pubblica. È il film più cupo e spietato del vecchio Eastwood e, nella sua gelida emotività, il più anomalo. L’ha scritto J. Michael Straczwinski che, passando mesi negli archivi comunali, ha scoperto il caso parallelo del depravato assassino. La sequenza che ne descrive l’impiccagione è di impassibile realismo. Nella realtà fu condannato all’ergastolo. Una storia vera di 70 anni fa, qua e là corretta, diventa una delle più impietose radiografie del mondo USA mai uscite da Hollywood (Universal). Fotografia: Tom Stern. Superba interpretazione della Jolie. ( Changeling = bambino che si pensa sia stato lasciato al posto di un altro, rapito dalle fate).
Fascinoso disc-jockey di una radio californiana si porta a letto un’ammiratrice schizoide che comincia a perseguitarlo. 1° film di Eastwood regista, su sceneggiatura di Jo Heins, scopiazzata da James Dearden per Attrazione fatale . Storia dove prevalgono atmosfere e situazioni cariche di suspense, mistero, incubo, erotismo morboso. Il regista Don Siegel appare nel ruolo di Murphy il barista. Misty è un motivo del pianista Errol Garner.
John Lawrence è chiamato a sostituire il comandante di una squadra di sabotatori subacquei. Militare tutto di un pezzo, si rivelerà particolarmente duro con sé stesso. Bellico Fox insolitamente scevro di sciovinismo. Senza pretese, dipinge un quadro di guerra marina con competenza.
Per arrivare al titolo mondiale pugile bianco ebreo deve pagare pedaggio al racket, ma si ribella. Con Stasera ho vinto anch’io di R. Wise, uno dei più duri e realistici film sul mondo della boxe americana, con qualche eccesso melodrammatico nella sceneggiatura di A. Polonsky. Ottimo Garfield, anche produttore del film e candidato all’Oscar, splendido bianconero di J. Wong Howe, efficace colonna sonora di R. Parrish. Finale di compromesso. Oscar per il montaggio.
Dopo una sanguinosa guerra tra bande della Yakuza a Tokyo, il gangster Yamamoto parte per Los Angeles dove abita il fratello minore, coinvolto nello spaccio della droga e in lotta con altre bande di neri, ispanici e paisà. 1° film di T. Kitano in trasferta, ma coerente al suo pessimismo atroce di fondo, che qui si riversa su tutti senza distinzioni etniche, e al suo codice di violenza, che anche qui sfuma in malinconia nell’illusoria ricerca di una fratellanza. Non è sicuramente uno dei suoi migliori film, ma forse uno dei più dolorosi, nonostante la sotterranea ironia.
La battaglia di El Alamein (23-10/1-11-1942), 100 km a ovest di Alessandria d’Egitto dove le forze armate italo-tedesche del generale Rommel furono sconfitte dalla soverchiante ottava armata britannica del generale Montgomery, raccontata dal basso, dal punto di vista di una compagnia della divisione Pavia, inchiodata alla sabbia del deserto in un caposaldo isolato nel settore sud. Quasi tutto funziona in questo film bellico che è anche una storia di formazione, leggibile a diversi livelli. L’ha scritto un regista che sa dosare dramma e commedia, azione e riflessione, disegno di personaggi (tutti con le “facce giuste”) e cinema di denuncia nel raccontare la dolorosa crescita e presa di coscienza del V.U. (Volontario Universitario) Serra (Briguglia) anche se il sergente Rizzo (Favino) è “la figura sulla quale si gioca il delicato equilibrio del film” (A. Crespi). Perché “quasi tutto”? La disuguale tenuta espositiva alterna parti felici (la prima mezz’ora) ad altre meno riuscite (il notturno attacco britannico). Inoltre, come spesso succede ai registi italiani, Monteleone non ha abbastanza fiducia in sé stesso e si preoccupa troppo di spiegare, di ribadire nei dialoghi quel che era già stato detto nelle immagini. Fotografia: Daniele Nannuzzi, figlio di Armando. Montaggio: Cecilia Zanuso. Girato in Marocco.
Nel 1909, a conquista e colonizzazione ormai completate, un pellerossa (Blake) uccide per legittima difesa il padre della sua donna Lola (Ross) e fugge con lei. La caccia è guidata da un riluttante sceriffo (Redford) che non condivide il feroce isterismo della comunità bianca di cui è alle dipendenze. Tragico epilogo. 2ª regia, dopo Le forze del male (1948), dello sceneggiatore e scrittore ebreo A. Polonsky, vittima della “caccia alle streghe” maccartista. “Attraverso una lenta caccia, un lento inseguimento, si assiste a una lenta, e perciò stesso più violenta e inchiodante, messa a morte dell’americano per eccellenza: l’indiano” (G. Fofi). Dal romanzo Willie Boy di Harry Lawton uno dei western critici più lucidi della nuova Hollywood, uscito in un anno memorabile per il cinema della frontiera: Il mucchio selvaggio, Butch Cassidy, Il Grinta, La notte dell’agguato. “Non è un film sugli indiani: è un film su di me” (A. Polonsky). Originale commento musicale di Dave Grusin.
Una vedova è rimasta traumatizzata dalla scomparsa prematura della sua bambina. Durante una festa per i piccoli ospiti di un orfanotrofio, rapisce una bimba che è la copia della figlia. Il fratellino la libera, deruba la vedova e ne incendia la casa. È un evidente rifacimento della fiaba di Hânsel e Gretel.
Giappone, 1876. Alcolizzato per dimenticare le nefandezze bianche nella guerra contro i pellerossa, l’ex capitano delle giacche blu Algren accetta per denaro di diventare istruttore del nuovo esercito giapponese, nato dalla “rivoluzione Meiji” (1868). In seguito a uno scontro armato, viene prima catturato fisicamente e poi rapito spiritualmente da Katsumoto (nome tratto da I sette samurai di Kurosawa), capo carismatico di un manipolo di irriducibili samurai che vogliono restare fedeli alla plurisecolare tradizione del bushido (la via del guerriero). Global colossal etno-epico da 140 milioni di dollari con ambizioni storiche, filosofiche e artistiche che all’atto pratico vengono sacrificate sull’altare del dio mercato. Al suo attivo il potente romanticismo della vicenda (J. Logan, M. Herskovitz, E. Zwick), le grandiose scene di battaglia – su tutte l’emozionante carica dei samurai a cavallo che sbucano come fantasmi dalla nebbia in mezzo al bosco -, la documentata ricostruzione degli ambienti (Lilly Kilvert) e dei costumi (Ngila Dickson), l’intensa interpretazione di Watanabe nei panni dell'”ultimo samurai”, che sprona Cruise a dare il meglio di sé. Infestato, però, da stereotipi hollywoodiani e cadute nella soap opera, come il ridicolo incontro finale con l’imperatore e l’ happy end sentimentale.
Uno studioso porta dall’Egitto un sarcofago contenente una mummia e lo sistema in un museo. Un giorno, leggendo la preghiera scritta su un papiro che si trovava nel sarcofago, egli ridà vita alla mummia.
In Egitto nel 1925 un’antiquaria (R. Weisz) assolda il capitano Rick O’Connell (B. Fraser) della Legione Straniera francese per trovare Hamunaptra, la leggendaria Città dei Morti. Quando ci arrivano fanno i conti con Imhotep (A. Vosloo), sacerdote egizio che da tremila anni è un vendicativo morto vivente. Scritto dal regista S. Sommers ( Deep Rising ), è un film truculento senza mistero in forma di dispendiosa baracconata, più vicina al cinema d’azione che all’horror, all’insegna di una stupidità diffusa a tutti i livelli – storia, intreccio, personaggi, dialoghi – e programmata con scientifico scrupolo per compiacere i gusti deteriori di tutte le fasce di pubblico. Fotografia di Adrian Biddle, scene di Allan Cameron e soprattutto effetti speciali dell’Industrial Light & Magic. Girato in esterni a Marrakech. Le rovine di Hamunaptra ricostruite nel cratere di un vulcano spento, vicino alla cittadina sahariana Erfoud, ai confini con l’Algeria.
Nick e Chris sono militari che, tra una missione e l’altra in Medio Oriente, trafugano reperti archeologici per denaro. Finché incappano nella tomba egizia sbagliata e fanno tornare in vita la principessa Ahmanet, sepolta viva per la sua amicizia con il dio del male Seth. La principessa vuole far rivivere Seth, servendosi del corpo di Nick e schierando un esercito di mummie/zombie. Ma si mette in mezzo anche una squadra, la Prodigium, capitanata dal Dottor Jekyll (quello famoso, che diventa Mr. Hyde). Monster Movie della Universal che inaugura il progetto Dark Universe, una serie di film interconnessi che avranno come protagonisti la moglie di Frankenstein, il Mostro della Laguna Nera, Van Helsing, l’Uomo invisibile e l’Uomo lupo. Produttore di successo al 2° lungometraggio come regista, Kurtzman rimaneggia senza prendersi sul serio, il classico del ’32 e lo riambienta ai nostri giorni, tra Iraq e Londra, in stile supereroistico, con tanti spettacolari colpi di scena per un’atmosfera duellante che non sa scegliere tra il macabro e il fantastico. Cruise sembra di gomma e corre molto.
Mud Creek, Texas. Elvis Presley è vivo, ma non sta per niente bene: fiaccato da vari malanni, vegeta in una casa di riposo sotto falso nome: per sfuggire alle costrizioni del suc-cesso e riprendersi una vita libera, ha scambiato la sua identità molti anni prima con quella di Sebastian Huff, un suo imitatore, e ora nessuno gli crede quando dice d’essere il vero Elvis e che a morire nel 1977 è stato Huff. L’unico che gli dà retta è un altro ospite della casa di riposo: il fatto che si tratti di un anziano di colore, Jack, che pensa di essere John Fitzgerald Kennedy – anche lui sopravvissuto all’attentato di Dallas – non aiuta la credibilità complessiva dei due nei confronti degli altri. Qualcosa sta però per turbare la senile rassegnazione di Elvis e Jack: un’anziana residente della casa muore in seguito all’attacco di un gigantesco scarafaggio. Tutti pensano si sia trattato di un incidente. Elvis però si trova alle prese con lo stesso scarafaggio la notte dopo e riesce a friggerlo. Ma è solo l’inizio: Jack ed Elvis si ritrovano da soli ad affrontare la minaccia di una mummia egizia vendicativa.
Viene violentata una undicenne di colore. Il padre uccide il criminale. Lo difende il solito giovane coraggioso oggetto delle solite minacce e turbato dai soliti fantasmi. Naturalmente siamo nel solito profondo sud. Finale comunque liberatorio. Film vecchia maniera con questo McConaughey sosia a metà di Brando e Newman, legnoso ma di ottima presenza. Buona valutazione per il doppio sforzo: nei contenuti e nello spettacolo.
Al presidente degli Stati Uniti non basta portarsi a letto la moglie del suo migliore amico e sostenitore, ma la picchia. Le guardie del corpo uccidono la donna prima che sia lei a uccidere il presidente. Da una cabina-armadio, attraverso uno specchio-spia, Luther Whitney, professionista del furto, assiste al fattaccio e fugge. Comincia la caccia al ladro. Scritto dal sagace William Goldman sulla base di un romanzo di David Baldacci, è “film politico, film familiare, film sul vedere non essendo visti, film sul potersi di nuovo dare a vedere, film epifanico, film minore persino troppo perfetto” (B. Fornara). A Whitney, che disegna in un museo, una donna chiede: «Lavora con le mani, vero?». Anche C. Eastwood è un regista inserito nella tradizione artigianale del cinema, abituato a fare film come si fa un mestiere: con le mani e con gli occhi.
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