Un’ottima realizzazione, con eccellenti interpreti, dal lavoro teatrale di Tennessee Williams: una ragazza è rimasta sconvolta a tal punto dalla misteriosa morte del cugino da non ricordare più in quali tragiche circostanze sia avvenuta. Sua zia vorrebbe che lei dimenticasse per sempre e cerca di convincere un neurochirurgo a operarla di lobotomia.
Nel 1951 una fotografa è licenziata dalla sua rivista perché sospettata di avere simpatie comuniste. La ragazza scopre però che il politicante che l’ha accusata è anche a capo di un’organizzazione che favorisce l’immigrazione clandestina in America di gerarchi nazisti in fuga.
San Juan, Porto Rico. Dopo due efferati omicidi, un assassino ha usato il sangue delle sue vittime per affrescare i muri accanto ai cadaveri. Un prete Gesuita agnostico, fratello della prima vittima, viene chiamato a visitare la macabra scena del delitto: l’assassino che va cercato è un pittore di talento in piena crisi spirituale e in grave conflitto con Dio. La polizia chiede a Padre Michael di continuare a collaborare: indagherà negli ambienti che un artista è solito frequentare. Il prete nasconde infatti un passato insolito: è anche lui un pittore, ha un ex-fidanzata a San Juan ed è attratto da Mary, modella di copia dal vero
Nel 1803, due ufficiali vengono mandati dal presidente degli Stati Uniti Jefferson ad esplorare la Louisiana, da poco diventata territorio della nascente confederazione americana. Sono costretti ad affrontare molte avventure a contatto con alcune tribù di pellirosse. La spedizione è resa ancora più difficoltosa dalla rivalità dei due uomini che amano la stessa donna. Una ragazza indiana, innamorata del più giovane dei due, li salverà da un agguato teso loro da un losco trafficante francese.
Jesse è una sedicenne che dalla Georgia raggiunge Los Angeles per tentare la carriera di modella. La sua bellezza e la sua innocenza si fanno immediatamente notare suscitando l’attenzione di colleghe ben più navigate (Gigi e Sarah) le quali si avvalgono di Ruby, una truccatrice che le si presenta come amica, per attrarla in un gioco che per lei si farà sempre più pericoloso. Capita a volte che dinanzi a registi che tornano periodicamente ad affrontare i temi che stanno loro più a cuore ci si trovi a chiedersi se non sarebbe giunto per loro il momento di cambiare registro. Questo non è sicuramente un rimprovero che si possa rivolgere a NWR (come ora ama presentarsi sullo schermo il regista con una grafica che ricorda quella di Yves Saint Laurent). Refn è colui che si era costruito una fama come narratore di storie dure e violente che avevano come protagonisti uomini la cui esistenza veniva portata a confrontarsi con un mondo in cui la redenzione totale era impossibile. Lo troviamo ora intento a sperimentare la strada dell’horror cercando, come afferma, di girare un “horror senza horror”. Così come dichiara di essere sempre stato attratto dall’idea di fare un film sulla bellezza. Il problema nasce dal fatto che ora quel film lo ha girato ma ne è stato così ammaliato dal finire (novello Narciso) con l’annegarci dentro. Perché l’estetica da video installazione che ne permea quasi ogni inquadratura a partire dalla prima gli impedisce di accorgersi che sta solo assemblando modalità di sguardo che altri in precedenza avevano elaborato con ben altro spessore e profondità. Tanto per non fare nomi è sufficiente citare Brian De Palmae David Lynch come tracce visive ricorrenti. Ciò che però maggiormente infastidisce non è tanto la ricerca di un estetismo e di simbolismi spesso fini a se stessi quanto piuttosto la misoginia che sottende l’intero evolversi della vicenda che (va sottolineato) Refn ha girato in ordine cronologico, concedendosi quindi la possibilità di apportare quotidiane variazioni alla sceneggiatura. In questo sta la possibilità di salvezza per Mary Laws e Polly Stenham che quella sceneggiatura l’hanno scritta con lui. Perché altrimenti resterebbe la domanda su come due donne abbiano potuto concepire una storia così profondamente innervata da una disaffezione così profonda nei confronti delle appartenenti al proprio sesso. Se gli uomini dei primi film non si vedevano concedere la possibilità di una redenzione, qui si è dinanzi a una negatività priva di qualsiasi complessità tanto che la strega di Biancaneve, che chiedeva allo specchio chi fosse la più bella del reame, farebbe, nei confronti di Ruby, Gigi e Sarah, la figura della dilettante sprovveduta. La stessa Jesse finisce con il farsi attrarre da un mondo che NWR descrive come demoniaco ma che gli ha offerto (si leggano in proposito i titoli di coda) la più ampia collaborazione. Misteri del marketing.
Michael Faraday, professore di storia, presta soccorso al figlio dei vicini di casa, i signori Lang. La conoscenza diviene progressivamente più stretta e, in particolare, il figlio di Faraday è sempre più attratto dalla vita dei vicini. Deciderà di indagare su di loro scoprendo che fanno parte di un gruppo terroristico. Si accorgerà troppo tardi di essere divenuto un loro strumento. Trama intricata e verbosità all’eccesso non riescono a coprire la convenzionalità di un film che vorrebbe denunciare le trame terroristiche ma finisce solo per deludere lo spettatore affascinato (per ritmo e scelte visive) dalla sequenza che precede i titoli di testa.
Little Big Horn (1876)-Wounded Knee (1890). Tra questi due momenti storici si sviluppa la vicenda che vede protagonisti tre personaggi realmente esistiti. Charles Eastman (un tempo Ohiyesa) è un giovane Sioux che è stato affidato alle cure dei bianchi americani divenendo medico. Toro Seduto è l’ultimo dei capi indiani a cedere alla supremazia dei bianchi finendo con l’entrare nel circo di Buffalo Bill per poi venire ucciso dai cavalleggeri. Il senatore Henry Dawes si adopera in favore dell’integrazione dei nativi americani ma le sue buone intenzioni finiscono con lo scontrarsi con l’avidità dell’establishment statunitense. E’ su questi tre perni ( con in più la figura, anch’essa storicamente esistita, di Elaine Goodale che divenne sposa di Eastman e ne abbracciò la causa di riscatto del proprio popolo) che si articola la narrazione. Perché Yves Simoneau non ripete il già detto e universalmente noto sulle vicende storiche che assestarono il colpo finale ai nativi americani ma indaga sulla complessità della situazione storica che si trova ad avere non troppo inattesi riferimenti al presente. Perché la sceneggiatura non dipinge i ‘pellerossa’ come una vittima sacrificale compattamente rivolta al martirio. L’arrendevolezza di Nuvola Rossa non coincide con il percorso di Toro Seduto che, pur di non cedere all’esercito confederato, cerca rifugio in Canada con la sua gente per venirne successivamente espulso. Così come il percorso di Ohiyesa, affidato da bambino all’educazione dei bianchi e divenuto simbolo di una possibile assimilazione dell’intera galassia nativa, è inizialmente distante da quello delle sue radici culturali. Ma è nel mondo dei bianchi che prevalgono le più forti contraddizioni. Non tanto nell’area militare dove la logica prevalente è quella della reiterazione dei soprusi (voi Sioux avete invaso i territori di altre tribù ora noi invadiamo ciò che voi avete un tempo strappato ad altri) quanto piuttosto in quella politica. Il senatore Dawes è convinto in buona fede che solo l’accettazione da parte dei nativi della cultura e della civiltà dei ‘bianchi’ possa dare luogo a una vera integrazione. Lotta contro i tentativi di espropriazione totale dei territori ottenendo forme di risarcimento che Toro Seduto rifiuta perché diverrebbero accettazione dello status quo, cioè conferma della perdita di proprietà e di dignità. Nello sguardo che rivolge al figlio che esibisce la ‘libertà’ di poter cacciare uno stanco bovino all’interno di un recinto si concentra il messaggio di un film che sfugge con abilità alla retorica da qualsiasi parte provenga.
Il film segna un ritorno al genere horror del regista John McNaughton, 25 anni dopo la sua controversa opera prima, Henry pioggia di sangue. La storia è incentrata su due genitori (Michael Shannon e Samantha Morton) che vivono con il loro figlio malato (Charlie Tahan). Quando una giovane ragazza (Natasha Calis) si trasferisce nella casa accanto, dà al ragazzo la speranza di una vita migliore, con grande dispiacere della sua iperprotettiva madre. Le riprese si terranno a New York.
Un ex militare americano teme di essere un assassino. Egli infatti ha perso la memoria e possiede (per errore) i documenti di un uomo accusato di omicidio. Riesce a far luce sulla vicenda con l’aiuto di una ragazza innamorata di lui.
Ben e Chon sono due amici per la pelle che condividono tutto, dall’amore per la bella Ophelia – detta O – all’attività di coltivatori e spacciatori della miglior marijuana della California del Sud. È stato Chon, ex marine, a riportare i primi semi dall’Afghanistan, poi è venuto Ben, botanico e buddista, che ne ha fatto un prodotto sopraffino, buono per far dollari così come per alleviare il dolore dei malati terminali. La vita scorre dunque idilliaca per il fortunato trio e i loro amici, finché un brutale cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con loro, che lo vogliano o meno. Non c’è dubbio che una delle cose che riescono meglio a Oliver Stone sia il ritratto di uno o più personaggi che s’invischiano in qualcosa di più grande di loro: solo laddove c’è una frontiera che altri non valicherebbero, sconsigliata e inopportuna, i suoi film vibrano più di altri; il coraggio, che all’inizio può essere tanto provocazione quanto reale ardimento, si fa a quel punto materia di vita o di morte e il film diventa una strada da percorrere fino in fondo, piena di svolte imprevedibili e dissestata quanto basta per tenere alta l’adrenalina. Tutti ingredienti che non mancano certo a Le belve , ambientato a cavallo della frontiera delle frontiere, e che ne fanno uno spettacolo cinematografico assolutamente efficace, complice l’estetica acida che lo permea da cima a fondo e, pur con qualche eccesso di maniera, ben racconta il clima da paradiso perduto e da avventura folle e schizzata. C’è, però, anche un ma. Se da un lato, infatti, il regista insiste sul contrasto tra la leggerezza di una fazione e la ferocia dell’altra, tra il sole a picco sulla terrazza da sogno, da una parte, e il buio delle cantine delle torture, dall’altra, il titolo raccoglie sotto il suo ombrello sia gli uni che gli altri, il giudizio è programmaticamente bandito (perché in fondo siamo tutti dei dannati, chi più e chi meno, e il peggiore è probabilmente chi sta nel mezzo, come il personaggio di Travolta) e di questo passo il discorso di Stone finisce per farsi confuso e spesso ambiguo. Come ambiguo, al limite della truffa ai danni dello spettatore, è l’espediente del raddoppiamento finale, che accettiamo solo e soltanto perché le parole iniziali di Ophelia sono pensate per fungere da avvertimento. Come non accadeva nel suo cinema da un po’ di tempo a questa parte, inoltre, la violenza di Savages è massima, oltre che sfortunatamente plausibile, cosa che lo allontana dall’essere un prodotto per tutti i gusti ma lo riporta ad un cinema probabilmente più consono alle migliori potenzialità di Oliver Stone. Un cinema duro, di bravi interpreti, dentro ruoli di non comune sfaccettatura.
Un film di Robert Parrish. Con Robert Taylor, Donald Crisp, Julie London, John Cassavetes Titolo originale Saddle the Wind. Western, durata 84 min. – USA 1958. MYMONETRO Lo sperone insanguinato valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Un onesto allevatore vuole molto bene al fratello, ma si rende conto che questi è un pericoloso violento. Non potrà far altro che assistere allo scivolare del parente verso una follia omicida da cui uscirà solo uccidendosi.
Libia 1929-31. Il governo italiano deve far fronte alla guerriglia che i beduini Senussi – sotto la guida di Omar Al-Mukhtar, insegnante di professione e ribelle per dovere – conducono in Cirenaica contro la colonizzazione italiana e la rinascita dell’impero romano in Africa (la Quarta Sponda). Mussolini nomina il generale Rodolfo Graziani (Reed) governatore di Libia e gli mette a disposizione un esercito moderno, il primo che, nella storia delle guerre coloniali, usò autoblindo, carri armati e aerei. Seguendo una strategia predisposta dal generale Pietro Badoglio (non nominato nel film), Graziani deporta le popolazioni di pastori seminomadi, fa distruggere il loro bestiame e costruire un reticolato di 270 km al confine con l’Egitto. Organizza campi di concentramento dove regnano denutrizione, stenti, epidemie e soffoca nel sangue la ribellione. Al-Mukhtar fu impiccato. Scritto da H.R.L. Craig. Fotografato in Cinemascope dal britannico Jack Hildyard ( Il ponte sul fiume Kwai ) e musica altisonante di Maurice Jarre, costato 25 milioni di petro-dollari, è un war film con tutte le carte (e gli stereotipi) in regola. Diretto da un regista siriano, già aiuto di Sam Peckinpah, sembra un western filoindiano in cui si parteggia per i più deboli. Quinn con barba bianca impersona il vecchio leone con biblica dignità e una sorta di eroica dolcezza. Non mancano i militari italiani “buoni” (Vallone, Capolicchio); quelli “feroci” hanno la camicia nera della Milizia. Steiger ripete il suo Mussolini di maniera, la Papas vaga qua e là senza sapere bene cosa fare. Le immagini dei lager, rinforzate da brani di cinecronache, vanno a segno. Dice, in fondo, qualcosa che i libri di scuola (italiani) hanno sempre taciuto. Nel luglio 1983 fu dato in anteprima al festival di Montecatini.
Brennan interpreta, in maniera quanto mai pittoresca, il vecchio giudice Roy Bean, detto “la legge ad Ovest del Pecos” (o altrimenti l'”uomo dai sette capestri”: ricordate il film con Paul Newman?). Bean è un personaggio divertente e picaresco, ma anche un fior di filibustiere che taglieggia gli agricoltori della sua zona. La resa dei conti per lui arriva nella persona del vagabondo Gary Cooper che attira il giudice in una trappola fuori del suo paese-fortezza.
In un cottage sulla costa del New England lo spettro di un capitano di mare appare a una bella vedovella e le detta le sue memorie. Invece di spaventarsi, la donna s’innamora. Un suo corteggiatore si secca. Sapientemente adattato da Philip Dunne da un romanzo di R.A. Dick, è uno dei più bizzarri e teneri film di Mankiewicz. L’atmosfera fantastica è sostenuta dalle suggestive musiche di B. Hermann, compositore preferito di Hitchcock, e dalla fotografia di C. Lang. Nel 1968 ne fu tratta una serie TV.
Da un romanzo di John Klempner, sceneggiato dal regista. Eva Ross (che nel film non compare mai) spedisce alle sue tre migliori amiche una lettera cumulativa in cui annuncia che lascerà definitivamente la città portando con sé uno dei loro mariti. Un quadro di provincia americana descritta con una geniale cura dei particolari e con un saporoso gusto dell’humour che ammorbidisce la polemica di costume. 2 Oscar a Mankiewicz come regista e sceneggiatore; quello del miglior film toccò a Tutti gli uomini del re
Durante un uragano due poliziotti trasportano alcuni milioni di dollari. Vengono assaliti, uno muore, l’altro fugge e si organizza. Alla fine farà giustizia. “Catastrofico” banale e prevedibile, nonostante la presenza di ottimi professionisti.
Continua per Luc Besson, in veste di sceneggiatore e produttore, il percorso di unificazione tra action orientale ed occidentale. Numerosi sono infatti i legami tra The Transporter, precedente screenwriting dello stesso Besson, e Danny the Dog. Troviamo alla regia Louis Leterrier, co-regista nell’opera precedente, mentre la componente orientale Shu Qi/Corey Yuen, co-protagonista e co-regista in The Transporter, è qui bissata dall’esplosiva coppia Jet Li/Yuen Wo-Ping, protagonista e coreografo d’azione. Danny è un ragazzo allevato senza educazione civile né istruzione da un boss della malavita, che lo tiene come un vero e proprio cane. Tutto ciò che Danny conosce è la lotta, a cui è stato addestrato fin da piccolo e, vera e propria macchina da guerra, ha reazioni meccaniche ed animalesche quando viene sguinzagliato: una volta rimosso il ‘collare’, infatti, il ragazzo obbedisce ciecamente al padrone. In seguito a lotte tra bande rivali, Danny si troverà improvvisamente libero, e verrà accolto da un pianista cieco e da sua figlia; i due lo cureranno e lo aiuteranno a conoscere il mondo. Ma il suo ‘padrone’ non si sarà certo rassegnato ad averlo perso. Sul fronte dell’azione non c’è di che lamentarsi: oramai Yuen Wo-Ping viene scomodato anche per le risse al ‘Bar del Corso’, qui almeno c’è Jet Li a giustificarne la presenza. Lo stesso Jet Li, indiscusso re delle arti marziali tanto criticato per la propria inespressività, ritrova, seppur aiutato dal ruolo, quell’istintività recitativa fatta di immedesimazione puerile, tanto apprezzata nei vari The Legend of Fong Sai-Yuk o in Tai Chi-Master. Con Morgan Freeman e Bob Hoskins, ci sarebbero già tutti gli ingredienti per una miscela esplosiva. Ma, sfortunatamente, così non è. Una regia attenta più alla forma che all’atmosfera gioca tutte le sue carte sul minimalismo, generando mini-climi intimistici ma rendendo il prodotto finale troppo circoscritto e privo, paradossalmente, di profondità. Racconta ma non ipnotizza, esalta ma non rilancia, costruisce per poi smontare. Dispiace per Jet Li, che non trova il boom sul mainstream, Hero a parte, dai tempi del pur sottovalutato The One; dispiace per Besson, che dovrebbe ricominciare a fare il one-man-band, dirigendo gli strepitosi soggetti che ultimamente dilapida in delega.
Claus Philipp Maria Schenk Graf von Stauffenberg è un colonnello della Wehrmacht che sta combattendo nel Nord Africa ma ha già maturato una profonda ribellione contro i metodi hitleriani. Un attacco aereo lo priva di un occhio, del braccio destro e di due dita del sinistro. Rientrato in Germania si unisce a un gruppo di militari di grado elevato che intendono ridurre Hitler all’impotenza. Il piano prende progressivamente forma: si dovrà attentare alla vita del Fuhrer e immediatamente dopo, attuando un piano già istituzionalizzato, accusare le SS dell’omicidio, neutralizzarle e assumere il comando di una nuova Germania. Il 20 luglio 1944 Von Stauffemberg in persona porta l’ordigno esplosivo nella Tana del Lupo ed è testimone dell’esplosione.
Verso il 1880, in un penitenziario dell’Arizona, un ingenuo direttore progressista cerca di migliorare le condizioni dei detenuti e chiede la collaborazione di un carcerato. Costui sembra accordagliela, ma in realtà lo fa per attuare un sanguinoso piano di fuga. Il suo progetto riesce, ma ci sarà la sorpresa finale.
New York, 1955. Harold Angel è uno scalcinato investigatore privato. Un inquietante personaggio gli commissiona un’indagine molto particolare: scoprire se Johnny Favourite, cantante ricoverato anni prima in ospedale e sofferente di una grave amnesia, sia vivo o morto. La pellicola, scritta e diretta da Alan Parker, si basa su un racconto di William Hjortsberg. Le sfumature cupe e le dinamiche classiche del noir sono i toni scelti dal regista per questa detection-story al limite fra thriller e horror. Mickey Rourke, con le sue cicatrici, l’aria trascurata, la sigaretta sempre accesa, lascia di sé una traccia splendente e maledetta, sorniona e sfatta. Impossibile da dimenticare nel film, e nell’immaginario del cinema. Come memorabile è Lisa Bonet nel ruolo di Epiphany Proudfoot.
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