Psichiatra affermata di Seattle si fa coinvolgere da un irriducibile giocatore d’azzardo e viene a contatto con il pittoresco e pericoloso sottobosco dei truffatori. Thriller psicologico che comincia come una commedia, si trasforma in un nero e recupera alla fine i toni ironici. Costruzione impeccabile (anche troppo). Intelligente cocktail di B. Brecht e Damon Runyon.
Un film di William Castle. Con Vincent Price, Alan Marshall Titolo originale House on Haunted Hill. Horror, b/n durata 75 min. – USA 1958. MYMONETRO La casa dei fantasmi valutazione media: 2,40 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Loren, eccentrico proprietario di un castello isolato, offre una forte somma a chi trascorrerà un’intera notte in casa sua. Accettano due giovani bisognosi di denaro, una anziana giornalista in cerca di notizie e uno psicologo. Sarà una lunga notte di terrore: Loren è un pazzo omicida. All’alba si conteranno i morti.
Dal romanzo Uneasy Freehold di Dorothy Macardle. Una ragazza ritorna nella casa della sua infanzia, da poco acquistata da una coppia di fratello e sorella. Di chi è lo spirito che la abita? Una delle più belle storie di fantasmi nella storia del cinema. Molta atmosfera, nessun trucco, una bella melodia di Victor Young che divenne la canzone “Stella by Starlight”. Nell’edizione distribuita in Gran Bretagna i fantasmi non si vedono, tolti dalla censura inglese.
Tredicenne nero, uscito dal ghetto, s’introduce in una casa proibita con due ladri adulti e vi rimane da solo a combattere le forze del male. Thriller orrorifico che comincia nelle false apparenze di un dramma sociale, diventa un racconto di spavento allo stato puro – con in filigrana una dimensione di divertita ironia – ed esplode nel finale in una parabola anticapitalistica. La grande trovata del film, scenografica e narrativa, è la casa: un labirinto di cunicoli, intercapedini, canali di aerazione, scivoli, camini che la attraversano orizzontalmente e perpendicolarmente.
Bella, trentacinque anni, lavora come cameriera in un fast food di New York ed è l’anima del locale. Continua ad incappare in relazioni senza futuro. Un giorno sua madre, che vive altrove, le propone l’incontro con Bruno, un tassista aspirante scrittore. Bella accetta senza farsi illusioni e, per non rivelare i suoi sogni matrimoniali, gli dichiara apertamente di non amare i bambini. Peccato che Bruno ne abbia due. Ma nella caffetteria Bella non è la sola a sognare l’amore. Paul, un vedovo piuttosto introverso, si fa prendere dalla passione per una vedova conosciuta mediante un annuncio, mentre il vecchio Seymour prende una sbandata per una ballerina di peep show. Commedia brillante sulle solitudini metropolitane questa del cinquantaquattrenne regista israeliano. Ricca di battute intelligenti e supportata da un’attrice come Anna Thomson che ha lavorato con Cimino, Eastwood, Stone, ma anche con autori intellettuali come Ozon.
Pennsylvania, in una cittadina di provincia. La serena vita di Keller Dover – falegname benestante, moglie amata, erede maschio cui insegna a sparare agli animali e figlioletta deliziosa – è sconvolta quando, durante la consueta festa del Ringraziamento, la bimbetta sparisce insieme a una coetanea figlia dei vicini. Il detective Loki arresta un ragazzo ritardato che vive con una vecchia zia. Senza prove è rilasciato. Dover si scatena. Non è solo un thriller di indagine poliziesca (la sceneggiatura di Aaron Guzikowski non fa una grinza), né solo la storia di un’inarrestabile discesa all’inferno del protagonista ma anche del poliziotto – 2 non-eroi, 2 uomini molto diversi, 2 solitudini, 2 concezioni del mondo e dell’ordine -, ma un affresco moderno della provincia USA, dove la linda facciata nasconde sempre “altro”, dove il Male contagia, infetta, distrugge. Splendida fotografia (Roger Deakins).
Il dottor Sully Travis è un ginecologo di successo a Dallas, adorato dalle sue clienti che cura con pazienza, dolcezza e competenza. Marito fedele, è un uomo che ama le donne, ma le capisce poco o niente. Si ritrova con una moglie in piena regressione infantile e una delle due figlie, lesbica ignara, che durante la cerimonia nuziale scappa con l’amica del cuore. S’innamora di una istruttrice di golf che si comporta come un uomo. È un’altra delle commedie corali di Altman, ma con una variante: un uomo solo in mezzo a un gineceo. Il rossiniano piano-sequenza iniziale (7 minuti circa) nella sala d’aspetto del suo studio offre la chiave stilistica di un film dove quasi tutto è semplificato, sovreccitato, esagerato, alla texana. L’ironia si alterna con il sarcasmo e il piede sul pedale del grottesco è fin troppo pigiato nella descrizione di questa società opulenta fino al punto di trasformarla in una macchina femminile celibe. La discutibile e qua e là furbesca sceneggiatura di Anne Rapp ( La fortuna di Cookie ) è riscattata in parte dalla gioiosa eleganza della regia, dalla leggerezza serena dello sguardo, dalla simpatia con cui il vecchio Altman accompagna i personaggi anche se negativi, compreso il dottor T. È forse il 1° film mainstream di Hollywood in cui si filma un parto a distanza ravvicinata.
2001: gran parte della Terra è coperta dal ghiaccio. In una città fatiscente gli ultimi superstiti si cimentano in un gioco mortale. Il vincitore ha diritto di vita e di morte sugli altri e il suo premio è quello di poter continuare a giocare. Appartiene al filone occulto e fantastico di Altman e può offrire molte delizie a chi sappia guardarlo e accoglierlo senza troppe preoccupazioni di decifrazione. L’ambientazione quasi rinascimentale lascia il segno.
Dopo un tentativo fallito nel 1994, i Fantastici Quattro, celeberrimi personaggi tratti dall’omonimo fumetto della Marvel Comics creati da Stan Lee e Jack Kirby nel novembre del 1961 in Fantastic Four n. 1, compiono un nuovo ingresso nelle sale cinematografiche in un film del 2005 diretto da Tim Story. Lo scienziato Reed Richards (Ioan Gruffudd), una delle menti più brillanti del XXI secolo, passa in affari con una sua vecchia conoscenza, Victor Von Doom (Julian McMahon), per organizzare un viaggio nello spazio insieme ai fratelli Susan (Jessica Alba) e Johnny Storm (Chris Evans) e Ben Grimm (Michael Chiklis) per scoprire le reali potenzialità di uno strano fenomeno, ovvero una sorta di nube cosmica. Qualcosa, però, non va come previsto e la nube avanza molto più rapidamente rispetto a quanto calcolato da Reed, investendo la stazione spaziale in pochi minuti. Le radiazioni cosmiche emesse dal fenomeno donano al team incredibili poteri: Reed/Mr.Fantastic è capace di allungare ed espandere il suo intero corpo, Susan/la Donna Invisibile scopre di poter diventare totalmente invisibile e creare campi di forza, Johnny/la Torcia Umana può generare fiamme ed avvolgere il suo corpo con il fuoco, potendo anche volare, mentre Ben/La Cosa viene rivestito da una specie di esoscheletro roccioso che gli garantisce una forza straordinaria e una resistenza fisica eccezionale. Victor, invece, si ritrova con il volto sfregiato, il potere di generare energia elettrica e una lega metallico-organica indistruttibile che si estende lungo varie zone del suo corpo. Arrivato a chiamarsi Dottor Destino, Victor terrorizza New York ed è pronto a conquistare il mondo. Sarà solo grazie all’intervento dei Fantastici Quattro, in nome del gruppo composto da Reed, Sue, Johnny e Ben, che il nemico potrà essere fermato. Caratterizzato da buoni effetti speciali, un’ottima interpretazione da parte degli attori principali, in particolare nel caso di Chris Evans e Michael Chiklis, un’orecchiabile colonna sonora e una trama a tratti divertente e tutt’altro che noiosa, il film è adatto ad un pubblico di tutte le età e a chi desidera passare circa due ore di puro intrattenimento.
Con impeccabile e asciutto stile documentaristico, il prolifico regista hollywoodiano Henry Hathaway racconta una vittoriosa azione del controspionaggio americano, che grazie a un suo agente infiltrato fra spie naziste scardina l’intera rete negli Stati Uniti.
Si comincia con un feroce assedio della Casa dei 1000 corpi , di cui il 2° film di R. Zombie, anche sceneggiatore, è il seguito solo in un certo senso. Catturata la tremenda matriarca, tre componenti della demente famiglia Firefly (lucciola, i nomi sono presi dai personaggi dei fratelli Marx) fuggono in auto dall’Alabama verso il Texas. Li insegue uno sceriffo che in materia di violenza li vale. Da anni l’horror hollywoodiano vive di rendita sul passato e di imitazione degli asiatici. Quello di Zombie, cinefilo di talento che sa copiare bene, è un film di terrore più che di orrore. Non è solo sadico, ma sadiano. Superiore al 1°, è un film d’autore anche a livello stilistico: montaggio originale, uso del fermo-immagine, scelta delle facce, vena ironico-grottesca, tocchi di macabro gotico fantastico, uso del materiale plastico e soprattutto la capacità, come il finale rivela, di dare una dimensione epica alla violenza. In inglese, “devil” contiene “evil”, il male. Anche nel toccare il fondo della malvagità umana, è un film laico.
Un film di Henry C. Potter. Con Melvyn Douglas, Cary Grant, Myrna Loy, Lex Barker Titolo originale Mr. Blandings Builds his Dream House. Commedia, b/n durata 94′ min. – USA 1948. MYMONETRO La casa dei nostri sogni valutazione media: 2,75 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Pubblicitario di New York si copre di debiti per sistemare la nuova casa di campagna nel Connecticut, ma risolve la situazione inventando uno slogan di successo. Da un romanzo di Eric Hodgkins, sapientemente sceneggiato dalla coppia Panama & Frank, un’agile commedia di costume che mette a fuoco con levigato garbo critico gli usi e la mentalità della classe media americana uscita dalla guerra. C. Grant in gran forma, M. Loy deliziosa. Rifatto nel 1986 da Richard Benjamin con Casa dolce casa.
Scritto, diretto e co-musicato dall’ex leader del gruppo musicale White Zombie, è una notevole, benché almeno in Italia poco notata, opera prima che miscela con accorta disinvoltura prestiti e rimandi al cinema horror degli ultimi 30 anni, specialmente a Non aprite quella porta e Suspiria , nel raccontare le spaventevoli vicissitudini di quattro ragazzi che capitano nelle grinfie di una famiglia di maniaci satanisti e antropofagi, governata da una demente “madre di famiglia”, una K. Black che più dark di così non potrebbe essere. “Abile nell’evitare le trappole di un naturalismo fuori senso, grazie anche a una sceneggiatura adeguatamente delirante” (Marcello Garofalo).
In una capanna di montagna cinque ragazzi si scannano tra loro in preda a demoni malefici. Girato a costi irrisori con una piccola troupe di dilettanti, divenne un film di culto tra i giovani fan del cinema gore sanguinolento per le invenzioni registiche, le soluzioni visive, gli effetti ingegnosamente grotteschi, aprendo la strada al giovane S. Raimi che con I due criminali più pazzi del mondo (1985) e La casa 2 (1987) continuò a coltivare il filone con maggiori mezzi a disposizione.
La tela di fondo è un avvenimento storico: il lungo boicottaggio degli autobus pubblici che nel 1956 a Montgomery (Alabama) diede inizio alla lotta non violenta per i diritti civili della gente di colore. È la storia della lenta presa di coscienza di una donna, la padrona bianca, per merito della sua cameriera nera. Tratto da un racconto autobiografico dell’attrice Mary Steenburgen che nell’edizione originale dava la voce all'”io narrante”, diretto da un regista che viene dal documentario, è un film politicamente corretto sino all’oleografia didattica. Ha almeno 3 meriti: puntuale rievocazione d’epoca; attendibile correlazione tra femminismo e campagna per i diritti civili; insolito impiego delle 2 attrici principali, tenute entrambe su un sommesso registro recitativo sotto le righe.
Cecil Gaines ha imparato il mestiere di domestico nella Georgia degli anni Venti e nella tenuta dell’uomo che ha ucciso barbaramente suo padre in un campo di cotone. Riservato e (ben) educato nelle case dei bianchi, approda a Washington, dove sposa Gloria, diventa padre di Louis e Charlie e viene assunto come maggiordomo alla Casa Bianca. Orgoglioso della sua famiglia e appagato dal proprio destino, Cecil sta. Resta immobile (e invisibile) nella vita come lungo le pareti della stanza Ovale, dove serve il tè e soddisfa le richieste dei suoi presidenti. Fuori intanto il mondo si muove, il mondo si arrabbia, il mondo sta cambiando. In quel territorio infiammato milita il suo primogenito, deciso a lottare per i diritti della sua gente, resistendo al fianco di Martin Luther King o ‘armandosi’ al braccio di Malcolm X. Ripudiato il figlio, colpevole di non essere rimasto al suo posto, Cecil seguita a servire i presidenti che si susseguono mandato dopo mandato, sprofondando il paese nella guerra, riformandolo con le leggi sui diritti civili, integrandolo o mandandolo sulla Luna. Sette presidenti e diverse tazze riempite dopo, Cecil prenderà coscienza di sé e dei propri diritti, dimettendosi e scendendo in campo a fianco del figlio e di un sogno che ha il volto di Barack Obama. Contestando la candidatura di Norman Jewison alla regia di Malcolm X, Spike Lee asseriva che soltanto un regista nero avrebbe potuto far giustizia alla sua opera e alla sua vita. D’accordo o meno con la dichiarazione del regista, quello che interessa adesso è la prossimità di pensiero e di posizione che assimila Spike Lee a Lee Daniels, convinto allo stesso modo che siano pochi i registi bianchi che abbiano saputo cogliere nel segno producendo film con tematiche afro-americane. A ragione di questo The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca adotta il punto di vista degli afro-americani ed esclude personaggi bianchi che infilano la presa di coscienza. In una lunga parabola che dai campi di cotone della Georgia arriva all’elezione di Barack Obama, The Butler ripercorre le tappe fondamentali della storia americana nelle pieghe di una vicenda privata, facendo dialogare passato e presente, padre e figlio. Ispirato alla vita di Eugene Allen, maggiordomo per trentaquattro anni alla Casa Bianca, intervistato e portato a conoscenza da un giornalista del “Washington Post”, The Butler fa il paio con Precious e prosegue il percorso di rilettura critica della Storia americana. In una dialettica costante, il film di Daniels intreccia e alterna la dimensione pubblica con quella privata, proponendo ciascuna come genesi e insieme contraccolpo di una storia più grande, che include sia gli eventi collettivi (il sit-in di Greensboro, i Freedom bus, l’attentato a Kennedy, la morte di Martin Luther King, la guerra in Vietnam) sia le tragedie intime (la morte del padre in Georgia, il decesso del figlio minore in Vietnam, le detenzioni del primogenito attivista per i diritti umani). Approdato in sala dopo il Django Unchained di Tarantino e il Lincoln di Spielberg e prima di 12 anni schiavo di Steve McQueen, The Butler si accomoda tra opere che sembrano richiamarsi vicendevolmente, proseguendo l’una i discorsi dell’altra e componendo il colossale affresco di una nazione perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale, tra parole e pistole. Insieme allo schiavo ‘slegato’ di Tarantino e al presidente (per)suadente di Spielberg, il maggiordomo di Daniels rimette mano (con guanto bianco) sulla questione razziale in un quadro politico-economico complesso e allargato, che contempla Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon e Reagan e confina nelle immagini di repertorio Ford e Carter, che dialoga coi padri buoni della nazione (Kennedy, Johnson) e disdegna fino al congedo quelli cattivi (Nixon, Reagan). Con il narratore umile e schivo di Forest Whitaker, il regista identifica lo strumento perfetto per condurre la narrazione filmica, ottemperando alle istanze pedagogiche con ridondanza retorica e generose concessioni didascaliche, che seguono la ricostruzione puntuale. Diversamente da Tarantino, la cui visione eversiva e indocile sulla questione ‘nera’ viene giudicata ‘bianca’ e inadeguata, Daniels si incammina su una strada diversa, quella del romanzo popolare e della robusta iconografia, rivendicando una competenza antropologica e culturale che suona come una dichiarazione di apartheid. Una separazione dura a morire che mentre denuncia l’intolleranza razziale, discrimina un artista, riducendo al colore della pelle la sua capacità di affrontare certi temi.
Kate (Sandra Bullock) e Alex (Keanu Reeves) vivono nella stessa casa ma non si sono mai visti. L’unica via che hanno per comunicare è la cassetta della lettere, che veicola la loro relazione epistolare. Tutto ciò sarebbe impossibile se non vivessero in spazi temporali differenti. Kate nel 2006, Alex nel 2004. Ispirato a un film coreano del 1998 (Il mare) l’opera di Alejandro Agresti è una commedia sentimentale al limite del metafisico, che analizza la ricerca dell’amore angelicato, conservandone l’aspetto terreno benché temporalmente non allineato. Per procedere alla visione non bisogna assolutamente verificare i rapporti causa-effetto fra passato e futuro (il presente non esiste), per non rischiare di perdere di vista il significato più profondo della storia. Allo spettatore viene chiesto, quindi, di non credere, per poter credere (in questo caso) a quell’amore che nella vita si presenta una volta sola in un tempo ben definito, e che si deve essere capaci di non lasciare andare. Il regista, che prosegue il discorso sugli “amori a distanza” iniziato in Tutto il bene del mondo (in quel caso la lontananza era spaziale), descrive la storia asservendosi ai due protagonisti e alla logica sentimentale hollywoodiana. Pur mantenendo una modalità espressiva epistolare, Agresti riempie però gli spazi con una logica patinata da videoclip che a volte finisce per infastidire. Le belle facce di Reeves e della Bullock, sufficientemente segnate per manifestare il disagio esistenziale dei protagonisti, guidano la storia, invece di conferirle valore, la livellano, la appiattiscono, facendo credere che l’amore esiste perché esiste S.Valentino. La casa sul lago del tempo è un’occasione persa, un’idea male intesa, che però vale la pena di vedere; soprattutto se si crede che un rimorso sia meglio di un rimpianto e che per giudicare si debba vivere. E, se si parla di cinema, osservare.
Scritto da Linda Woolverton dai romanzi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Attraverso lo specchio (1871) di Lewis Carroll. Morto il padre, la 19enne Alice Kingsley è coinvolta, suo malgrado, nella propria festa di fidanzamento con Lord Hamish. Ma il Bianconiglio la riconduce nel Sottomondo dove le creature di Wonderland sono convinte che solo lei possa restituire il regno alla Regina Bianca, usurpato dalla dispotica Regina Rossa, e sconfiggere il mostruoso Ciciarampa. Con l’aiuto del Cappellaio Matto ci riesce. Quello di Burton è un film su commissione (già scritto e approvato dalla Walt Disney produttrice), un film sperimentale, un film girato in tempi brevi (rispetto alla complessità dell’impresa in cui il 3D è stato applicato in postproduzione con il contributo di Robert Stromberg, scenografo talentuoso). Se si trascura l’Alice adulta, si fraintende il nucleo del film burtoniano: il suo desiderio di autoaffermazione ribelle nel mondo reale è il frutto dell’immaginazione maturata in quello dei sogni fatti da bambina. In questa lotta contro la tirannia, l’ipocrisia, il conformismo, ha come complice sovversivo il Cappellaio Matto che, grazie a Depp, diventa quasi il vero protagonista. Il successo mondiale di pubblico è stato confermato anche sul mercato italiano, dove ha conquistato circa 4 milioni di spettatori.
Alice ritorna nel Sottomondo e promette al Cappellaio Matto, depresso per la scomparsa della sua famiglia, di ritrovarla. Per farlo, si reca nel Palazzo del Tempo, s’impossessa della cronosfera e viaggia nel passato. Il seguito di Alice in Wonderland (2010) non viola il principio di entropia: più che per la regia, pur degradata da Tim Burton a Bobin ( I Muppet , 2011), per la sceneggiatura, confermata a Linda Woolverton, infedele non solo alla lettera ma soprattutto allo spirito – in entrambe le accezioni – del geniale libro ( Attraverso lo specchio , 1871) di Lewis Carroll. Al rovesciamento del senso si sostituisce l’ormai inflazionata inversione del tempo e alla partita a scacchi con gli enigmi dell’esistenza un ordinario plot di ricerca e ritrovamento, con sviolinata familistica finale. La cornice – la vicenda nel mondo normale – è più bella del dipinto. Tuttavia, anche grazie al tripudio di effetti sempre più speciali, ha momenti di affascinante visionarietà ed emozionante spettacolarità.
Sette banditi rapinano una banca e scappano attraverso il deserto. Arrivano a un villaggio abbandonato, dove trovano una ragazza e un vecchio che cerca l’oro. Un classico del western, robusto e asciutto.
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