Una coppia si rende conto di non riuscire più a comunicare. Lui incontra una sensibile prostituta e lei un giovane gentile e un po’ imbranato. Uno degli esperimenti Cassavetes, macchina da presa a mano e senza controcampi stile che ha fatto scuola. Girato nell’arco di tre anni. Candidature agli Oscar per la sceneggiatura e per i due attori non protagonisti Cassel e Carlin.
Alla Boxing Arena di Atlantic City (ricostruita a Montréal), durante un incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi, il ministro della Difesa (Fabiani) è colpito a morte, davanti a 14 000 spettatori e molte telecamere, da un terrorista arabo, subito ucciso dal responsabile dei servizi di sicurezza (Sinise). Rick Santoro (Cage), poliziotto corrotto, casinista e cafone, si trasforma in eroe, scoprendo le fila di un complotto politico-industriale. Scritto dal regista con David Koepp, ebbe accoglienze critiche disparate. Chi lo sbrigò come un esercizio di stile in cui il virtuosismo è la maschera di una artificiosa futilità di fondo e chi sostenne che, quando diventa un’ossessione spinta alle sue estreme conseguenze, l’assillo stilistico genera significato come dimostrano tanti cineasti geniali (Sternberg, Ophüls, Powell, Scorsese). Si parte con un piano-sequenza truccato (più di 15 minuti) di sovreccitato virtuosismo e si chiude con un piano finale che continua sui titoli di coda, altrettanto significativo nella sua esasperata ricerca di quel che si nasconde dietro le apparenze, la proliferazione e l’arabesco delle immagini.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Berlino, 1928. Wei Ling Soo è un celebre prestigiatore cinese in grado di fare sparire un elefante o di teletrasportarsi sotto gli occhi meravigliati di un pubblico acclamante. Ma dietro la maschera e dentro il suo camerino, Wei Ling Soo rivela Stanley Crawford, un gentiluomo inglese sentenzioso e insopportabile che accetta la proposta di un vecchio amico: smascherare una presunta medium, impegnata a circuire una ricchissima famiglia americana in vacanza sulla riviera francese. Ospite dei Catledge sulla Costa azzurra e sotto falsa identità, si fa passare per un uomo d’affari; Stanley incontra la giovane Sophie Baker ed è subito amore. Ma per un uomo cinico e sprezzante come lui è difficile leggere dietro alle vibrazioni di Sophie un sentimento sincero. Un temporale e il ricovero della zia adorata, faranno crollare il razionalismo e le resistenze di Stanley: il soprannaturale esiste eccome e si chiama amore.
In un quartiere popolare di una cittadina dell’Europa centrale negli anni ’20 l’impiegatuccio Kleinman è costretto a partecipare alla caccia a uno strangolatore in libera uscita, ma diventa il sospettato n. 1. Per salvarsi dagli isterici vigilantes che lo braccano, si fa assumere come aiutante di un mago. Non occorre sollecitare il testo per leggerlo come una parabola sull’antisemitismo, sull’identità ebrea e sulla pesante colpevolezza che per tradizione le è stata accollata. In questa stringata commedia nera con la sordina si colgono una malinconica e allarmata constatazione sulla violenza e l’intolleranza che si diffondono in Europa (di ieri e di oggi) e la convinzione che soltanto la magia dell’arte e gli illusionismi della fantasia sono le fragili armi in cui ancora si può sperare. Con Zelig e Crimini e misfatti , è il film più grave di Allen, il più civilmente impegnato. Lo splendido bianconero di Carlo Di Palma è modellato sul cinema tedesco degli anni ’20, sui film di Pabst e Jutzi più che su quelli espressionisti.
Il caso del serial killer chiamato “la mano di Dio” sembra destinato a rimanere insoluto, ma l’agente incaricato riceve la visita di Fenton, che confessa di essere il fratello del killer, Adam, morto suicida. Fenton racconta del padre, serial killer convinto di essere stato incaricato da Dio di uccidere i “demoni” che si annidano in alcuni uomini. Adam lo seguirà nella sua follia religiosa, mentre Fenton si rifiuterà. Bill Paxton esordisce nella regia con un thriller che a tratti diventa un vero horror, senza gli effetti spettacolari e il sangue ai quali il genere ci ha ormai abituato. Il regista indaga invece la follia che nasce nella quotidianità, forse più spaventosa di qualsiasi evento soprannaturale. Il film ha ricevuto commenti entusiasti dal “maestro” del genere Stephen King.
Un western atipico, perché non c’è violenza: James Stewart è un cowboy dai modi piuttosto rozzi che deve trasbordare il toro “Vendicatore”, capostipite di una nuova razza di bovini. In un’atmosfera agreste sbocciano gli amori: quello del simpatico protagonista per la bella vedova Price, quello della figlia di lei per un giovane.
Un armatore, che la grande crisi ha messo nei guai, cerca di trovare finanziamenti con un grande pranzo elegante da lui stesso organizzato. Alla fine ci riuscirà grazie allo snobismo di un’arricchita.
Sul finire degli anni sessanta dell’Ottocento la famigerata banda dei fratelli James imperversava nello stato del Missouri, assalendo banche, treni e diligenze. Gli ultimi ribelli della guerra civile erano al servizio del più carismatico dei fratelli James, Jesse, bandito professionista dal grilletto facile, lo sguardo glaciale e i modi affabili. Figlio di un pastore e ultimo dei tre fratelli James è venerato e invidiato dal più piccolo dei cinque Ford, frustrato per il credito minore ricevuto in seno alla banda. Robert, poco più che ventenne, spera di farsi apprezzare e reclutare dal carismatico leader. L’ostinata diffidenza di James per Robert trasformerà l’ammirazione in disprezzo. Il biasimo di Bob e un colpo di pistola fredderanno Jesse James a tradimento. Era il tre aprile 1882. Era l’inizio della leggenda del “bandito sociale”. Chiariamo subito una cosa: L’assassinio di Jesse James non è un western, almeno nel senso tradizionale del termine. A mancare è il respiro epico di una nazione sopravvissuta alla guerra civile e di uno stato, quello del Missouri, attraversato da locomotive a vapore cariche di capitali da rubare o da investire per ricostruire. Senza una contestualizzazione precisa del contesto sociale e del periodo storico in cui la leggenda prese forma, è difficile comprendere il personaggio di Jesse James, il guerrigliero degenerato in bandito, il fuorilegge giustificato e poi trasformato in una ballata, eseguita sullo schermo dal cow-boy Nick Cave. Adattamento del libro omonimo di Ron Hansen, il film di Andrew Dominik si limita all’introspezione psicologica, concentrandosi interamente e comodamente sulla relazione tra il fuorilegge navigato e l’ambizioso neofita. Gli accoliti al soldo di James, colti dopo l’ultimo assalto al treno nel 1881 (anno del suo trentaquattresimo compleanno), non hanno nulla in comune coi “cavalieri” reazionari che, con la pratica sistematica della violenza e dell’intimidazione, cercarono di sopravvivere al processo di modernizzazione economica del Sud. La maschera di Jesse James scritta da Dominik e drammatizzata da Pitt, fuori parte e fuori gioco, è priva del fascino irresistibile del cavaliere romantico, della grandezza dei suoi sentimenti, dell’amore per gli spazi aperti, della radiosità che lo rese popolare e lo consacrò alla leggenda: il bandito d’onore, il bandito battista, l’espropriatore degli espropriatori. Il film di Dominik non riesce ad appropriarsi dell’universo western né a calarvi l’eroe più discusso della mitologia nazionale americana
Chili (Travolta) è un esattore della mafia. Arriva a Hollywood e viene catturato dal morbo del cinema. Intorno a un copione che sarà un sicuro successo, si intrecciano storie di gangster, di divi del cinema, di spacciatori colombiani. Alla fine il film viene prodotto, proprio da Chili, con Harvey Keitel protagonista. Gangster story rosa che cerca parentele con Pulp Fiction e che ripropone un Travolta riveduto e corretto proprio rispetto al personaggio del film di Tarantino.
Dal 1963 al 2013, i Rolling Stones compiono 50 anni di attività e si celebrano in un documentario che racconta i loro primi 30 anni. A partire dalla prima formazione, le cover blues e il successo devastante e immediato, passando poi per le prime canzoni originali, la scoperta come autori, i guai legali e un’immagine da ribelli continuamente rinforzata da media e polizia, il documentario racconta con rapidità anche la morte di Brian Jones e i fatti di Altamont. I Rolling Stones secondo i Rolling Stones. Crossfire hurricane è un progetto prodotto da Mick Jagger in cui Charlie Watts, Ron Wood e Keith Richards hanno preso parte come produttori esecutivi, di fatto un ricamino su misura per l’immagine che la band oggi vuole veicolare di sè. Impossibile quindi attendersi qualcosa di interessante o anche solo di audace. Brett Morgen mette la voce fuoricampo dei membri (presenti e passati) sopra il più classico materiale di repertorio: concerti, foto, apparizioni televisive, in modo che le prime aiutino nella lettura e nell’interpretazione delle seconde e le poche volte che si concede dei tocchi personali la sensazione è che siano fuori luogo. Non solo la storia della genesi e della maturazione del gruppo è raccontata senza una vera chiave e senza un atteggiamento realmente appassionato ma anche idee come le immagini raddoppiate, sfocate e al ralenti mentre si parla di un trip sotto acidi o le variazioni di montaggio, forzano la messa in scena canonica del documentario con risultati fastidiosi e puerili. Molto più interessante allora è guardare la lettura che gli Stones hanno voluto operare di se stessi e della propria storia. Crossfire hurricane non si fa problemi ad omettere, sorvolare ed attutire conflitti ed asperità del gruppo ma soprattutto si concentra più sulla loro immagine mediatica che sulla musica, tanto che anche i brani scelti per fare da sottofondo, o per i brevi segmenti live, sono i più noti e utilizzati. L’obiettivo è grandissima apologia della prima fase della loro carriera, quella in cui erano percepiti, raccontati e mostrati sempre come i “cattivi ragazzi”. Con le loro voci fuoricampo Jagger e soci cercano un’impossibile rilettura della storia attraverso le immagini di repertorio, tentando di mutarne senso e significato con il senno di poi e un bonario atteggiamento paternalistico verso se stessi. Sfruttando oltre alle immagini di repertorio quelle di qualità più elevata provenienti da One plus One, Gimme shelter e poi anche Shine a light (l’unico momento in cui i membri sono mostrati per come sono ora) Crossfire hurricane cancella tutto il brutto, l’opaco e l’appassito per celebrare i 50 anni della band ricordandone solo l’epoca d’oro (il racconto si ferma agli anni ‘80 con l’arrivo di Ron Wood), lucidata per apparire ancor più dorata. Se è vero che l’effetto nostalgia e l’epica che il materiale di repertorio ben aggregato e ben messo in prospettiva storica sa indurre è una panacea per qualsiasi documentario mal concepito, questa volta appare come l’unica possibile salvezza di un progetto maldestro e autocelebrativo.
A promuovere l’iniziativa di innovazione didattica, nell’autunno del 1956, fu un gruppo di professori universitari di fisica guidato da Jerrold Zacharias e Francis Friedman, entrambi docenti del MIT: la fondazione del Physical Science Study Committee (PSSC) aveva l’obiettivo di esaminare le modalità di insegnamento dei corsi introduttivi di fisica nella scuola secondaria superiore dopo che molti insegnanti avevano espresso la convinzione che i libri di testo utilizzati nelle High school non fossero in grado di stimolare l’interesse degli studenti per la materia, né di insegnare loro a pensare e risolvere i problemi con l’approccio di un fisico. Nel 1957, dopo il successo sovietico dello Sputnik, negli Stati Uniti d’America era diffuso il timore che il sistema didattico statunitense non riuscisse a dare una buona preparazione in campo scientifico; interpretando questo timore, in risposta, il governo decise di aumentare i finanziamenti alla National Science Foundation a sostegno del PSSC. Negli stessi anni si andarono realizzando altri testi e manuali di fisica, di livello liceale e universitario, che intendevano innovare la presentazione nei materiali didattici dei metodi tradizionali di insegnamento: tra questi manuali, vi era l’Harvard Project Physics (destinato a un pubblico liceale, frutto di un progetto sviluppato tra il 1962 e il 1972) e testi universitari come La fisica di Berkeley (anch’esso finanziato dalla NSF-National Science Foundation[1]), affidato a un gruppo di specialisti, e La fisica di Feynman (incentrata sulla peculiare personalità di Richard Feynman).
Un film di Robert Stevenson. Con Peter Finch, James MacArthur, Bernard Lee, Niall MacGinnis, John Laurie. Titolo originale Kidnapped. Avventura, durata 97 min. – USA 1960. La vicenda si svolge nel XVIII secolo in Scozia, ed il protagonista e’ David Balfour di Shaws, un ragazzo rimasto prima senza la madre ed in seguito senza il padre. Aveva solo sedici anni quando quest’ultimo venne a mancare, per una brutta malattia al cuore. Era un giovanotto robusto e di grossa taglia; proprio un bel ragazzone, molto educato anche se un tantino aggressivo in certe situazioni. Altro personaggio principale è l’invincibile spadaccino che diserto’ dall’esercito di Sant’ Agnese, Alan Breck: un uomo di bassa statura, magro, dal viso scheletrico e caratterizzato da una impressionante agilita’ nel maneggiare la spada. Era stato allievo del proprio padre, il più bravo spadaccino degli Higlanders, e cioè del mondo. Era sempre molto elegante, vestito con pellicciotti saldati da bottoni d’argento.
Bambino fugge dalla casa dei suoi avidi genitori adottivi con un cucciolo di drago invisibile a tutti gli altri che lo protegge dai pericoli. Parafrasi della commedia Harvey in chiave infantile, è uno dei meno felici Disney di tecnica mista, anche per il mediocre livello del disegno. Lontano, comunque, dalla qualità e dal brio di Mary Poppins.
Nella mini-repubblica di Bananas, i dittatori si susseguono a velocità impressionante mentre le casse dello Stato si svuotano. Per ottenere finanziamenti dagli americani, i cittadini nominano presidente un oscuro omino arrivato dagli Stati Uniti in seguito ad una delusione amorosa.
“Help” è la scritta che compare nel cielo alleniano all’inizio del film. Occorre davvero aiuto per districarsi nel mondo delle star hollywoodiane, in cui le nevrosi si sprecano, in cui il sesso (quello orale in testa) dilaga ma l’amore scarseggia. Allen (sempre più “volgare” dicono alcuni, sempre più “realista” affermiamo noi) ci porta a spasso in questo nuovo girone infernale (ricordate Harry a pezzi?), assegnandoci come guida il suo nuovo alter ego Kenneth Branagh. Ma non si limita a ragionare delle persone celebri (e quindi anche di se stesso), gioca anche perfidamente con uno dei suoi attori: il romantico Di Caprio di Titanic entra in scena sfasciando una camera d’albergo e picchiando una donna. Anche questo è il Woody di fine millennio. Forse meno graffiante ma certamente più vicino, con quella ribadita richiesta di aiuto, a chi ne ammira il cinema.
Le vicende professionali e affettive di un modesto impresario teatrale di Broadway, Danny Rose (Allen), si snodano tra cocenti delusioni e perenni insuccessi. I suoi assistiti sono un patetico e sparuto gruppo di artisti destinati a rimanere nell’ombra, legati però da quell’amicizia che accomuna gli sfortunati. Tra aggressive vamp (un’insolita Mia Farrow), cantanti infedeli e mafiosi caricaturali, Danny Rose riuscirà comunque a mantenere intatte purezza e ingenuità. Allen confeziona con mano maestra un film leggerino e delizioso, in equilibrio tra comicità e malinconia, splendido nella caratterizzazione dei personaggi.
Dopo il capolavoro Crimini e misfatti Allen torna con questo film e con Mia Farrow, qui nella sua più grande interpretazione. Al ritmo del jazz e del tango una moderna Alice che nel mondo delle meraviglie tradisce il marito e scopre che anche lui l’ha fatto. Se nel libro di Carroll l’eroina si rimpicciolisce, qui diventa invisibile grazie a una pozione di uno strano erborista cinese. Tra una seduta ipnotica e l’altra la donna mette in discussione tutta la sua vita decidendo infine di fare una difficile scelta. Con William Hurt nel ruolo del marito e Joe Mantegna in quello dell’amante il film diverte.
Allen torna al grande divertimento con questo film in cui l’autobiografia torna a fare capolino. Si trova nei panni di un uomo che, convinto dalla moglie ad adottare un figlio, non resiste al bisogno di sapere chi sono i genitori naturali. Riesce così a scoprire la madre che fa la pornoattrice e rischia di innamorarsi proprio di lui. A commentare e, in qualche misura, a dirigere gli eventi è un coro greco con tutti i ruoli al posto giusto. La tragedia si muta in commedia ma l’uomo contemporaneo è costretto a confrontarsi con i dilemmi di sempre, sembra dire Allen. Nell’antichità era il teatro il luogo privilegiato della rappresentazione, oggi questo compito è passato al cinema e alla televisione. Woody ama il primo e ce lo dichiara ogni volta che può, anche nel delizioso finale di una delle sue opere più riuscite.
Un film di Woody Allen. Con Woody Allen, Janet Margolin, Marcel Hillaire, Lonny Chapman, Jan Merlin Titolo originale Take the Money and Run. Commedia, durata 85′ min. – USA 1969. MYMONETRO Prendi i soldi e scappa valutazione media: 3,54 su 16 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Un tipetto timido di Baltimora cerca di vincere il suo complesso di inferiorità con una carriera di criminale, ma non ne ha la vocazione. 1° film di Allen regista: una catena di gag divertenti, ingabbiate in una struttura parodistica (del cinema gangster, carcerario, ecc. e del giornalismo televisivo d’inchiesta), che talvolta sconfinano nel territorio dell’assurdo in efficace equilibrio tra l’umorismo verbale e la comicità visiva. Distribuito in Italia dopo Il dittatore dello stato libero di Bananas.
Val è un regista ridotto a girare spot pubblicitari in mezzo alle renne. La sua ex moglie, legata ora a un grosso produttore hollywoodiano, lo propone per un remake di un film dedicato a New York, città che lui conosce così bene da poter girare su questo soggetto anche a occhi chiusi. Fatto che puntualmente succede. Val viene infatti colto da cecità psicosomatica, ma non può perdere l’occasione del rilancio. Quindi, consigliato dal suo agente, si fa aiutare dall’interprete (il direttore della fotografia è cinese), il quale viene votato al segreto. Le riprese hanno inizio, ma il caos è pressoché totale. Si spera solo che Val abbia ben chiaro in testa come montare inquadrature che non sembrano avere senso. La ex moglie viene però a scoprire tutto e lo stesso accade a una giornalista molto curiosa. Il film non è dei migliori di Woody, ma ha dentro un’abbondante dose di divertimento malinconico. Cosa di meglio di un film girato al buio per riflettere sulle volatili sorti della settima arte? Per poter poi riversare abbondanti dosi di sarcasmo sulla macchina hollywoodiana a cui nulla importa se non il denaro? Woody lo fa da par suo con gag irresistibili, ma anche con la consapevolezza di un autore che sa di aver realizzato film quasi da cieco, che hanno trovato accoglienze contrastanti di qua e di là dell’oceano. Fare cinema per lui è ormai un’esigenza vitale.
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