Travolta (un poliziotto determinato) si muta in Cage (un criminale psicopatico) per poter entrare nel carcere in cui è custodito il fratello del delinquente e carpirne le confessioni. Da qui ha inizio una serie di sviluppi che condurrà la vicenda a un altissimo livello di tensione. Jekyll e Hyde non sono più solo due volti di una stessa persona, ma scambiano i loro corpi. John Woo realizza un thriller in cui psicologia, suspense ed azione si fondono magistralmente. I primi quindici minuti sembrano aver già dato tantissimo allo spettatore in termini di spettacolarità, ma si tratta solo del prologo. Quello che segue dimostra che John Woo è ormai un autore capace di inserire nel cinema di genere una nevrosi tutta orientale che non perde di efficacia quando si trasferisce negli States.
30 anni dopo la solita catastrofica guerra, un uomo viaggia attraverso il deserto di quel che è rimasto della Terra, passando per grigi resti di città, incontrando bande di umani trasformati in selvaggi senza morale né pietà. Ma lui, Eli, è inarrestabile e prosegue il suo viaggio, lasciando dietro di sé altri cadaveri, difendendo ferocemente un prezioso manufatto (l’ultima copia della Bibbia rimasta!) su cui vuol metter le mani il potente despota di una città abitata da killer e delinquenti tutti al suo servizio. Con sovrannumero di citazioni, un “mix irrisolto di Mad Max e Bernadette , di Leone e Corman, fra pallottole vaganti, gli Hughes bros disperdono il loro talento in un rumoroso western grigio” (M. Porro), con Washington involontariamente ridicolo come profeta difensore della fede, cieco e invincibile, Oldman psicopatico sadico e un’apparizione di Tom Waits troppo breve.
In una villa di fantasmi, il dottor Markway compie degli esperimenti di parapsicologia insieme ad alcune persone dotate di facoltà medianiche. In un crescendo di tensione tra i personaggi assistiamo al precipitare della situazione.
Jackson, Mississippi. Inizio degli Anni Sessanta. Skeeter si è appena laureata e il primo impiego che ottiene è presso un giornale locale in cui deve rispondere alla posta delle casalinghe. Le viene però un’idea migliore. Circondata com’è da un razzismo tanto ipocrita quanto esibito e consapevole del fatto che l’educazione dei piccoli, come lo è stata la sua, è nelle mani delle domestiche di colore, decide di raccontare la vita dei bianchi osservata dal punto di vista delle collaboratrici familiari ‘negre’ (come allora venivano dispregiativamente chiamate). Inizialmente trova delle ovvie resistenze ma, in concomitanza con la campagna che una delle ‘ladies’ lancia affinché nelle abitazioni dei bianchi ci sia un gabinetto riservato alle cameriere, qualche bocca inizia ad aprirsi. La prima a parlare è Aibileen seguita poi da Minny. Il libro di Skeeter comincia a prendere forma e, al contempo, a non essere più ‘suo’ ma delle donne che le confidano le umiliazioni patite. Va detto innanzitutto che è stato meritato il riconoscimento andato ai Golden Globe a Octavia Spencer per il ruolo di Minny e che il film ne meriterebbe molti altri, soprattutto sul piano delle interpretazioni. Film corale al femminile (gli uomini hanno ruoli del tutto secondari) ispirato al romanzo omonimo di Kathryn Stockett (grande successo negli Stati Uniti) The Help ha il pregio di costituire un’efficace ossimoro. È tanto attuale quanto old style. Perché vedendolo la memoria va a film come La lunga strada verso casa, 1990, che vedeva Sissy Spacek (presente anche qui) al fianco di Whoopi Goldberg. La ricostruzione filologicamente correttissima di abiti, ambienti e comportamenti potrebbe rischiare di mangiargli l’anima traducendolo nell’ennesima rivisitazione dei tempi in cui Martin Luther King aveva un sogno e John Fitzgerald Kennedy se lo vedeva stroncare a Dallas. Ma proprio in quella che potrebbe essere la sua apparente debolezza sta la forza di un film che riproponendoci un passato apparentemente così lontano ci fa ‘sentire’ (potremmo dire quasi ‘fisicamente’) che la sottile, insidiosa linea rossa (per dirla alla Malick visto che qui la Chastain offre un’ulteriore prova del suo eccellente trasformismo recitativo) che separa l’integrazione razziale dal rifiuto non ha interrotto il suo percorso. Mentre osserviamo le vicende dell’ “ieri” ci viene da chiederci se quei problemi siano stati risolti una volta per tutte e non solo negli States. La risposta è purtroppo negativa. Una sensazione di rabbia impotente promana dallo schermo quando si assiste a soprusi mascherati dal bon ton così come all’emarginazione di chi, dalla parte di chi ha la pelle meno scura, osa ‘disturbare’ un quieto vivere che per conservarsi tale ‘deve’ ignorare i diritti di persone dal cui lavoro dipende il proprio benessere. È un film privo di raffinatezze linguistiche quello di Taylor e quindi forse per questo destinato a piacere poco alla critica ‘impegnata’ (anche se ovviamente speriamo di essere smentiti). Tra i vari pregi ha però anche quello di ricordarci che la parola (detta e scritta) ha sempre avuto un valore di riscatto. Prima di rischiare di disperdersi nei talk show.
Su soggetto di Ugo Pirro e sceneggiatura di Fernando Di Leo e Dean Craig (Piero Regnoli), prodotto da Dino De Laurentiis, è uno “spaghetti-western” sugli indiani d’America. Navajo Joe decide di vendicare la sua tribù massacrata dai cacciatori di scalpi (un dollaro l’uno) . Mora con i capelli lunghi, la fiorentina mancina Machiavelli fa Estella, anche lei Navajo, ma non sapeva ancora andare bene a cavallo. Imparò presto. Frase di lancio: “Un western spietato e violento in prima visione”. Meno violento del precedente Django, altro successo di Corbucci.
Il poeta Moondog vive come un naufrago urbano a Key West, isola a sud della Florida. Alcol, sesso, droga e un totale senso di abbandono sono le sue uniche priorità assieme alla lettura di vecchie poesie condite da ululati in mezzo a una folla. Da Miami arriva però una telefonata con cui la moglie Minnie, ricchissima, lo richiama all’ovile per presenziare al matrimonio della figlia Heather. Moondog torna quindi alla civiltà, pur senza cambiare abitudini. Ma stavolta l’enorme ricchezza che finanzia la sua vita da spiantato viene messa davvero in pericolo da eventi imprevisti, e Moondog si trova costretto ad affrontare il nemico più insormontabile: un centro di riabilitazione e l’obbligo di dover pubblicare una nuova opera.
Ispirato al cortometraggio La Jetée (1963) di Chris Marker, sceneggiato da David e Jane Peoples. Nel 2035 i sopravvissuti a un virus, che nel 1997 sterminò cinque miliardi di persone, vivono sottoterra, mentre la superficie del pianeta è popolata soltanto da animali. Per capire il come e il perché della catastrofe si spedisce indietro nel tempo (nel 1917 per sbaglio, nel 1990 e nel 1996) un ergastolano intelligente. Macchinoso e sbretellato sul piano narrativo, il 6° film di Gilliam (l’unico americano del gruppo Monty Python) vale su quello figurativo per certe fulminee invenzioni registiche, i desolati paesaggi metropolitani, l’energia recitativa di Willis, l’istrionismo schizoide di Pitt. Raro esempio di un titolo che indica una falsa pista.
La guerra di Troia, dal rapimento della bella moglie di Menelao fino all’incendio. L’impostazione è filotroiana con Elena onesta, sposa malmaritata, Paride eroicizzato, atleta senza macchia né paura che tende all’apertura a sinistra, capace di mandare al tappeto un marcantonio come Aiace. Ulisse: scettico pacifista. Achille: un bullo. Gli Atridi fanno la peggior figura. Colosso Warner Bros girato a Cinecittà. Tolte poche scene di massa, gestite da Yakima Canutt (e da Raoul Walsh non accreditato), sembra diretto da Wise soltanto per ritirare la paga. Record degli strafalcioni storici concentrati in una sola scena: quella in cui Paride presenta Elena a Priamo.
Negli anni Venti e Trenta andava di moda in America una sorta di pugilato sulla strada. Questa è la storia di Shaney, un anziano pugile che vive grazie ai suoi pugni. Ha un impresario disonesto che gliene combina di tutti i colori. Alla fine Shaney si dimostra un vero uomo, generoso e forte, al di là della forza fisica.
Da un romanzo di Michael Crichton: un satellite artificiale precipita in un villaggio del Messico, provocando un’epidemia che uccide quasi tutti tranne un vecchio e un bambino. Buon film di fantascienza con effetti speciali, rumori speciali, parole speciali e l’intento di fare una piccola lezione di morale. Film solenne, attento ai dettagli, efficace nel sostenere la suspense.
Una malattia per molti versi simile all’influenza suina ma capace di svilupparsi anche per contatto con estrema rapidità sta colpendo il mondo. La comunità medica mondiale si trova in breve tempo a dover affrontare la ricerca di una cura e il controllo del panico che si diffonde progressivamente ovunque. Le persone reagiscono in modo diverso e a seconda della responsabilità che è stata loro attribuita o che si sono autonomamente conferita. Se un alieno fosse messo dinanzi a Ocean’s Eleven, Full Frontal e Il Che quasi sicuramente non direbbe che sono frutto del talento dello stesso regista. Perché uno dei grandi pregi di Steven Soderbergh (anche quando, come in questo caso, lavora su commissione) è quello di continuare a sperimentare sia sul piano della sceneggiatura che su quello linguistico cinematografico.
Terzo capitolo de La casa e purtroppo si avvertono molti sintomi di stanchezza. Ash ora si trova nel Medioevo. Deve riprendere il Necronomicon, libro dei morti, che di guai ne ha già fatti abbastanza. Dapprima osteggiato dai cavalieri del luogo e poi con loro alleati, deve sconfiggere un’armata di scheletri.
Una bambina dalla fervida fantasia fa amicizia con una vecchia pazza che le racconta strane favole. Una notte rischia di essere strangolata dalla figlia della vecchia, altrettanto pazza.
Luciana è una giovane immigrata spagnola a New York, che lotta per sopravvivere mentre prova a fuggire da un traumatico incidente del suo passato. Per sbarcare il lunario accetta lavori di ogni sorta: un giorno distribuisce volantini pubblicitari mascherata da pollo, un pomeriggio fa la babysitter, una sera si veste elegante per andare a una festa esclusiva, apparentemente solo per farsi guardare. Luciana dovrebbe sostituire una sua amica, che le promette “non devi far niente di ciò che non vuoi”, in cambio di duemila dollari solo per partecipare al party. Ma la serata prenderà ben presto una piega imprevista e pericolosa, e sarà troppo tardi per abbandonarla.
La paura dell’apocalisse, cioè della rivelazione, viene dalla natura. L’azione comincia in Central Park a New York col vento che muove le cime degli alberi: i passanti si fermano, straparlano, arretrano, si uccidono. Da un grattacielo vicino gli operai si buttano nel vuoto. A Philadelphia un insegnante interroga gli allievi su un misterioso fenomeno: la scomparsa delle api. Il terrore si diffonde attraverso i mass media. La gente fugge verso l’ovest, la campagna, gli stati vicini, ma i suicidi continuano. È la storia di una catastrofe incomprensibile e dei sopravvissuti che alla fine si riducono a tre. Il fenomeno dura 36 ore. Tre mesi dopo è tornata la normalità. Fino a quando? Con il suo 8° film, dopo l’insuccesso di Lady in the Water , Shyamalan ha fatto centro, affidandosi agli schemi narrativi del cinema di SF anni ’50, dentro i quali ha lavorato con ammirevole semplicità e a ritmo serrato: il nemico è invisibile. E almeno due invenzioni memorabili: l’incontro con l’eccentrica Mrs. Jones (Buckley) e la separazione dei tre superstiti che comunicano tra loro con un dispositivo acustico costruito per dar rifugio agli schiavi neri fuggiaschi. Effetti speciali (in minima parte digitali) al servizio del vento e rifiuto quasi totale della solennità magniloquente di altri suoi film. Fotografia del solito Tak Fujimoto. V.M. 14 anni.
New York. Quartiere di Queens. Una rapina in banca finisce male, Connie riesce a fuggire mentre suo fratello Nick, affetto da un ritardo mentale, viene arrestato. Da quel momento Connie inizia a darsi da fare per poter trovare il denaro necessario per pagare la cauzione mentre progressivamente sviluppa un altro progetto: farlo evadere. Inizia quasi come una commedia il quinto film dei fratelli Safdie, con i rapinatori che scrivono con la penna biro le disposizioni per la cassiera, ma poi il registro cambia rapidamente. Perché ciò che a loro interessa mettere in luce sono personaggi che vivono nel presente, per i quali il futuro non rappresenta una meta ma una incertezza totale.
Nascita, crescita, apoteosi e inizio di declino di Elvis Aaron Presley, il mito di più generazioni, vengono raccontati e riletti dal punto di vista del suo manager di tutta una vita: il Colonnello Tom Parker. È lui che accompagna, con voce narrante e presenza in scena, la dirompente ascesa di un’icona assoluta della musica e del costume mentre si impegna, apertamente ma anche in segretezza, per condizionarne la vita con il fine di salvaguardare la propria.
Troppo tardi e troppo poco perché la fine del mondo si potesse fermare. E così, come da peggiori profezie eco-apocalittiche, alle 4:44 di un giorno X tutto avrà fine, per una coppia di amanti come per l’umanità intera. “Al Gore was right”. Una profezia recepita tardivamente quella apocalittica del quasi-presidente degli Stati Uniti d’America, sorta di santone che, insieme al Dalai Lama e alle sue riflessioni sull’umanità, ricorre in loop come coro morale del film di Abel Ferrara. Un Ferrara quasi pacificato, quasi sereno di fronte all’apocalisse incombente. La sua tipica figura tormentata tra edonismo e desiderio di autodistruzione, senso di colpa e voglia di redenzione, si annulla nello smarrimento collettivo della comunità umana, in balia di eventi di cui è sfuggito il controllo. E con il tormento dell’individuo sparisce anche la dannazione, sostituita da una voglia di affetto e di composizione dei contrasti, di ultimo godimento dei semplici piaceri della vita, quelli a cui è impossibile rinunciare fino all’ultimo respiro.
Con la tipica carnalità e convivialità dell’autore di New Rose Hotel, l’opera a cui 4:44 Last Day on Earth è forse più accostabile, quella sensazione di abbraccio familiare che coinvolge anche il pubblico; quella fisicità unica, che lo accompagna anche durante i litigi via Skype. Un’empatia che il regista ormai mostra di privilegiare rispetto alla cura formale per il film, girato in digitale e lasciato scorrere in uno stream of consciousness suggestivo ma talora povero visivamente. Sostanza più che forma, faccenda che ancora una volta accenderà i fan di Abel e contemporaneamente scatenerà i suoi (molti) detrattori.
Trovata versione in ita grazie ad un utente, versione 720p in inglese su sito russo (i subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni)
Romero, colui che attraverso una figura irreale, lo zombie, aveva negli anni ’70 demolito certezze e instillato dubbi più che concreti, torna a criticare aspramente la civiltà moderna con un film romanticamente crepuscolare e ben riuscito, per quanto non privo di insospettabili difetti. Che Land of the Dead sia un film politico è palese: meno palese (e prevedibile) è il fatto che sia “solo” un film politico. La trama: i morti viventi vagano in una terra disabitata, mentre gli esseri umani si sono rifugiati in una città-fortezza per poter continuare a vivere le proprie vite. Ma al di fuori delle mura l’esercito dei morti viventi sta diventando sempre più numeroso Tensione, suspance e colpi di scena sono quasi completamente assenti e poco riescono le ottime caratterizzazioni dei personaggi a supplire alle mancanze di una sceneggiatura che, se presa come pamphlet sociale risulta essere perfetta (e condivisibile, almeno da un punto di vista proletario), mostra invece le corde sia come elemento portante di uno zombie-movie classico, che come base per un film capace di regalare emozioni forti. Romero è ancora capace di grandi suggestioni e immaginifiche trovate (i fuochi d’artificio la cui visione stordisce e ammalia per un attimo le menti ottenebrate degli zombie), ma oggettivamente qui è poco a suo agio con l’azione vera e propria. Non c’è apparizione zombesca che non appaia telefonata, non c’è personaggio che non abbia già scritto in faccia il suo destino fin dalla prima inquadratura. Sembra quasi che, troppo concentrato sull’inserire messaggi e intra-lettura nella pellicola, Romero si sia scordato la parte relativa all’intrattenimento. L’America, che ha sostenuto ben poco il film, è distante e, probabilmente, lo è anche il resto del mondo cinematografico e non. C’è ancora posto per il cinema di Romero nel 2005? Forse, o forse no, sta di fatto che La Terra dei Morti Viventi è un bel film, anche se la sensazione dominante è che, anche per gli zombie, dopo notti, albe e giorni, sia arrivato davvero il tramonto.
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