Una bambina dalla fervida fantasia fa amicizia con una vecchia pazza che le racconta strane favole. Una notte rischia di essere strangolata dalla figlia della vecchia, altrettanto pazza.
Luciana è una giovane immigrata spagnola a New York, che lotta per sopravvivere mentre prova a fuggire da un traumatico incidente del suo passato. Per sbarcare il lunario accetta lavori di ogni sorta: un giorno distribuisce volantini pubblicitari mascherata da pollo, un pomeriggio fa la babysitter, una sera si veste elegante per andare a una festa esclusiva, apparentemente solo per farsi guardare. Luciana dovrebbe sostituire una sua amica, che le promette “non devi far niente di ciò che non vuoi”, in cambio di duemila dollari solo per partecipare al party. Ma la serata prenderà ben presto una piega imprevista e pericolosa, e sarà troppo tardi per abbandonarla.
La paura dell’apocalisse, cioè della rivelazione, viene dalla natura. L’azione comincia in Central Park a New York col vento che muove le cime degli alberi: i passanti si fermano, straparlano, arretrano, si uccidono. Da un grattacielo vicino gli operai si buttano nel vuoto. A Philadelphia un insegnante interroga gli allievi su un misterioso fenomeno: la scomparsa delle api. Il terrore si diffonde attraverso i mass media. La gente fugge verso l’ovest, la campagna, gli stati vicini, ma i suicidi continuano. È la storia di una catastrofe incomprensibile e dei sopravvissuti che alla fine si riducono a tre. Il fenomeno dura 36 ore. Tre mesi dopo è tornata la normalità. Fino a quando? Con il suo 8° film, dopo l’insuccesso di Lady in the Water , Shyamalan ha fatto centro, affidandosi agli schemi narrativi del cinema di SF anni ’50, dentro i quali ha lavorato con ammirevole semplicità e a ritmo serrato: il nemico è invisibile. E almeno due invenzioni memorabili: l’incontro con l’eccentrica Mrs. Jones (Buckley) e la separazione dei tre superstiti che comunicano tra loro con un dispositivo acustico costruito per dar rifugio agli schiavi neri fuggiaschi. Effetti speciali (in minima parte digitali) al servizio del vento e rifiuto quasi totale della solennità magniloquente di altri suoi film. Fotografia del solito Tak Fujimoto. V.M. 14 anni.
New York. Quartiere di Queens. Una rapina in banca finisce male, Connie riesce a fuggire mentre suo fratello Nick, affetto da un ritardo mentale, viene arrestato. Da quel momento Connie inizia a darsi da fare per poter trovare il denaro necessario per pagare la cauzione mentre progressivamente sviluppa un altro progetto: farlo evadere. Inizia quasi come una commedia il quinto film dei fratelli Safdie, con i rapinatori che scrivono con la penna biro le disposizioni per la cassiera, ma poi il registro cambia rapidamente. Perché ciò che a loro interessa mettere in luce sono personaggi che vivono nel presente, per i quali il futuro non rappresenta una meta ma una incertezza totale.
Nascita, crescita, apoteosi e inizio di declino di Elvis Aaron Presley, il mito di più generazioni, vengono raccontati e riletti dal punto di vista del suo manager di tutta una vita: il Colonnello Tom Parker. È lui che accompagna, con voce narrante e presenza in scena, la dirompente ascesa di un’icona assoluta della musica e del costume mentre si impegna, apertamente ma anche in segretezza, per condizionarne la vita con il fine di salvaguardare la propria.
Troppo tardi e troppo poco perché la fine del mondo si potesse fermare. E così, come da peggiori profezie eco-apocalittiche, alle 4:44 di un giorno X tutto avrà fine, per una coppia di amanti come per l’umanità intera. “Al Gore was right”. Una profezia recepita tardivamente quella apocalittica del quasi-presidente degli Stati Uniti d’America, sorta di santone che, insieme al Dalai Lama e alle sue riflessioni sull’umanità, ricorre in loop come coro morale del film di Abel Ferrara. Un Ferrara quasi pacificato, quasi sereno di fronte all’apocalisse incombente. La sua tipica figura tormentata tra edonismo e desiderio di autodistruzione, senso di colpa e voglia di redenzione, si annulla nello smarrimento collettivo della comunità umana, in balia di eventi di cui è sfuggito il controllo. E con il tormento dell’individuo sparisce anche la dannazione, sostituita da una voglia di affetto e di composizione dei contrasti, di ultimo godimento dei semplici piaceri della vita, quelli a cui è impossibile rinunciare fino all’ultimo respiro.
Con la tipica carnalità e convivialità dell’autore di New Rose Hotel, l’opera a cui 4:44 Last Day on Earth è forse più accostabile, quella sensazione di abbraccio familiare che coinvolge anche il pubblico; quella fisicità unica, che lo accompagna anche durante i litigi via Skype. Un’empatia che il regista ormai mostra di privilegiare rispetto alla cura formale per il film, girato in digitale e lasciato scorrere in uno stream of consciousness suggestivo ma talora povero visivamente. Sostanza più che forma, faccenda che ancora una volta accenderà i fan di Abel e contemporaneamente scatenerà i suoi (molti) detrattori.
Trovata versione in ita grazie ad un utente, versione 720p in inglese su sito russo (i subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni)
Romero, colui che attraverso una figura irreale, lo zombie, aveva negli anni ’70 demolito certezze e instillato dubbi più che concreti, torna a criticare aspramente la civiltà moderna con un film romanticamente crepuscolare e ben riuscito, per quanto non privo di insospettabili difetti. Che Land of the Dead sia un film politico è palese: meno palese (e prevedibile) è il fatto che sia “solo” un film politico. La trama: i morti viventi vagano in una terra disabitata, mentre gli esseri umani si sono rifugiati in una città-fortezza per poter continuare a vivere le proprie vite. Ma al di fuori delle mura l’esercito dei morti viventi sta diventando sempre più numeroso Tensione, suspance e colpi di scena sono quasi completamente assenti e poco riescono le ottime caratterizzazioni dei personaggi a supplire alle mancanze di una sceneggiatura che, se presa come pamphlet sociale risulta essere perfetta (e condivisibile, almeno da un punto di vista proletario), mostra invece le corde sia come elemento portante di uno zombie-movie classico, che come base per un film capace di regalare emozioni forti. Romero è ancora capace di grandi suggestioni e immaginifiche trovate (i fuochi d’artificio la cui visione stordisce e ammalia per un attimo le menti ottenebrate degli zombie), ma oggettivamente qui è poco a suo agio con l’azione vera e propria. Non c’è apparizione zombesca che non appaia telefonata, non c’è personaggio che non abbia già scritto in faccia il suo destino fin dalla prima inquadratura. Sembra quasi che, troppo concentrato sull’inserire messaggi e intra-lettura nella pellicola, Romero si sia scordato la parte relativa all’intrattenimento. L’America, che ha sostenuto ben poco il film, è distante e, probabilmente, lo è anche il resto del mondo cinematografico e non. C’è ancora posto per il cinema di Romero nel 2005? Forse, o forse no, sta di fatto che La Terra dei Morti Viventi è un bel film, anche se la sensazione dominante è che, anche per gli zombie, dopo notti, albe e giorni, sia arrivato davvero il tramonto.
Per evitare una pesante condanna per reati vari, un delinquente completamente succube psicologicamente della madre preferisce accusarsi di un furtarello e farsi qualche mese di prigione. Mentre lui sconta la pena, fuori ne succedono di tutti i colori.
Ciò che l’occhio non vede è una sorta di documentazione d’autore firmata da otto registi durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Il critico Tullio Kezich scrive a proposito di questo documento: «Ciò che l’occhio non vede lo vede l’obiettivo della macchina da presa. Questa tesi, che si direbbe di ispirazione antonioniana, mosse quattro anni fa l’iniziativa del produttore americano David L. Wolper che in occasione dei giochi di Monaco ha invitato alcuni autori cinematografici a illustrare ciascuno un aspetto della manifestazione.
Dovuto all’inquinamento e all’effetto serra, il riscaldamento progressivo della temperatura terrestre provoca lo sgretolamento dei ghiacci, modificando il millenario flusso di correnti oceaniche che regolano il clima nelle zone temperate del globo. Dopo anomali e disastrosi eventi meteorologici – tra cui l’inondazione di New York – si sviluppa un progressivo fenomeno di glaciazione. Negli Stati Uniti provoca la morte di milioni di persone e una gigantesca migrazione verso il Sud. È lo sfondo di un megafilm catastrofico della Fox che pone più di una domanda: 1) racconto di fantascienza o di anticipazione? 2) perché Emmerich, che in Independence Day irride pacifisti ed ecologi, qui, nel conflitto tra scienziati e politici, dà ragione ai primi? 3) si può dire che per la 1ª volta il massiccio impiego di effetti digitali è al servizio di un film importante e contribuisce alla sua visionarietà? 4) ha ragione Emmerich quando dice che “l’unico momento di vera fantascienza è quello finale quando il vicepresidente degli USA si pente pubblicamente di non aver dato ascolto agli scienziati e ammette il proprio errore”? Scritto dal regista-produttore con Jeffrey Nachmanoff, ispirato a The Coming Global Superstorm ( La tempesta globale , 1999) di Art Bell e Whitley Striaber.
Prodotto da D. Lynch e Monty Montgomery per la HBO (TV via cavo), è un film in tre episodi di cui il 1° e il 3° sono scritti da Barry Gifford e diretti da Lynch, il 2° scritto da Jay McInerney con la regia di Signorelli. Ambientati nella stanza 603 di un albergo di New York, in epoche differenti: 1969, 1992 e 1936. In Tricks agiscono una prostituta e due loschi, uno dei quali si sostituisce all’altro e lo fa arrestare al suo posto. In Getting Rid of Robert , Sasna (Unger) annuncia alle amiche la sua decisione di chiudere la sua relazione con un attore vanesio (Dunne) che, però, arriva e la scarica. In Blackout , il più suggestivo e misterioso, un uomo e una donna (Glover e Witt) dialogano al buio.
Nel 1944 in Belgio una compagnia di fanteria americana si trova a mal partito contro gli attacchi tedeschi per colpa di un capitano incompetente e vigliacco. Un tenente lo fa fuori prima che si arrenda. Tratto dal dramma teatrale Fragile Fox (1954) di Norman A. Brooks, adattato da J. Poe, non è tanto un film contro la guerra quanto contro coloro che la fanno male. Ancora una volta Aldrich mette in immagini i suoi temi preferiti: l’autorità perversa e insana, l’eroe schiacciato dal sistema, la debole democrazia che crede nel compromesso. Realizzato con pochi mezzi (e senza la collaborazione dell’esercito), esce dagli schemi del cinema hollywoodiano di guerra per energia, taglio rapido, gusto dell’eccesso.
Julien è schizofrenico. Vaga nel bosco dove incontra un bambino con il quale litiga per una tartaruga. Lo uccide con un sasso e lo seppellisce nel fango, supplicando il perdono di Dio. Lavora come volontario in una clinica che ospita ciechi. Si perde continuamente nei suoi pensieri, confusi e frammentati, come del resto l’impatto emotivo della narrazione. Vaga da un marciapiede all’altro dei viali di periferia, con delle enormi cuffie che sembrano propiziare i suoi monologhi. E poi torna a casa, la sua famiglia. Contesto suburbano della periferia americana, famiglia degradata, con un padre che si lascia andare in seguito alla morte della moglie, un fratello ossessionato dal desiderio di essere un vincente e una sorella che intrattiene con lui un rapporto ambiguo, tranquillizzandolo attraverso la cornetta di un telefono, con il quale finge di essere la madre. La sorella sta imparando a suonare l’arpa ed è incinta, ma si rifiuta di rivelare l’identità del padre. La folle dolcezza di Julien riesce a tenere unita la famiglia. Film girato interamente a spalla, gli sono stati riconosciuti i requisiti imposti dal manifesto del Dogma ’95, nonostante le continue distorsioni audio visive. Grandissima interpretazione del protagonista Ewen Bremner, curiosa quella di Werner Herzog in un ruolo complesso come quello del padre di Julien, insieme a freaks originali, personaggi positivi della storia. Gli occhi più veri, nell’ossessione, con cui uno schizofrenico sia mai stato guardato. Finale da thriller della pesantezza
Da una novella (1921) di W.S. Maugham e dal dramma Rain ( Pioggia , 1922) di J.B. Colton e C. Randolph, prodotto dalla società della Swanson, è il terzultimo film muto di Walsh, anche sceneggiatore e, dopo molti anni e per l’ultima volta, attore nella parte del sergente Tim O’Hara. Fuggita da San Francisco per evitare il carcere, una prostituta sbarca a Samoa, isola del Pacifico, diventa l’amante di un simpatico marinaio e attira l’attenzione di un fanatico puritano (un prete in Maugham) il cui interessamento non è soltanto spirituale. Il regista approfitta dell’assenza di dialoghi per smorzare nelle didascalie le battute più crude che, secondo i lip-readers (che leggono i movimenti delle labbra), gli interpreti pronunciano. Grazie all’atmosfera di erotismo esotico e all’interpretazione realistica della Swanson, ebbe un grande successo di pubblico e di critica. Leggere alla voce Pioggia le schede dei due mediocri film sonori derivati dalla stessa novella. L’ultimo dei 9 rulli, perduto, è stato ricostruito con fotogrammi fissi in un’edizione restaurata. Muto.
Rose ha una figlia, Sharon, che sta morendo per una terribile malattia. L’ultimo tentativo per salvarla è portarla da un guaritore, e, contro la volontà del marito, Rose fugge con la bambina. Direzione: Silent Hill. Ispirarsi a un videogioco, per il cinema, non è mai stata una cosa semplice. Le trame dei game sono studiate a livelli, a crocevia, mentre una sceneggiatura cinematografica deve essere scorrevole, dettagliata, seguire una “consecutio temporum”. C’è però un elemento che i due mondi hanno in comune, ovvero l’opportunità di creare atmosfere, visive e sonore.
Malick con questo documentario ritorna all’essenza del cinema e grazie alla sola potenza delle immagini stimola la riflessione rammemorante dello spettatore sull’esistenza umana e ne provoca lo stupore, con la stessa forza con cui quel treno dei Lumiere, all’inizio, destò la meraviglia del pubblico nel primo cinematografo.
Durante le guerre napoleoniche, tra il 1808 e il 1810, il capitano inglese Hornblower contende una bella dama all’ammiraglio Leighton. Sontuoso film di avventure in costume ben girato da Walsh e tratto da ben 3 romanzi di Forester. Girato a Londra per gli interni. Esterni di mare al largo tra Nizza e Monaco.
Il vulcanologo John Sherpherd e un suo allievo giungono ad una terribile scoperta: presto tutti i vulcani del mondo erutteranno sterminando ogni creatura vivente. Cercherà cosi di convincere le autorità riguardo la veridicità della sua scoperta e del terrificante pericolo che incombe..
Re Artù, con l’aiuto di Lancillotto del Lago, fonda la Tavola Rotonda e porta la pace in Bretagna. Ma i due guerrieri sono divisi dall’amore che Ginevra, la moglie del re, porta (castamente) a Lancillotto. Della cosa approfitta il malvagio Mordred, che istiga i cavalieri alla rivolta. Artù muore. Lancillotto lo vendica. Ginevra si fa suora.
Arthur Fleck è in carcere per aver commesso cinque omicidi (in realtà sei, ma di uno la polizia non è al corrente), fra cui quello più clamoroso in diretta tv nazionale, ed è in attesa del processo che deciderà della sua pena: la sua avvocatessa vuole chiedere per lui l’attenuante dell’infermità mentale che riconosca la personalità doppia Arthur/Joker, il viceprocuratore distrettuale Harvey Dent invece vuole la sua testa, invocando la pena di morte. I suoi carcerieri (e aguzzini) lo deridono e lo umiliano, ma uno di loro gli permette (a titolo di scherno) di entrare in un coro di internati di cui fa parte Lee, la giovane donna di cui Arthur si innamora all’istante, intravvedendo in lei la sua prima opportunità di essere realmente visto e accolto: ma Lee è innamorata di lui o del Joker
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