Incaricato di travestirsi da omosessuale masochista per individuare uno psicopatico che batte il mondo dei sadomasochisti gay del West Greenwich Village di New York, un poliziotto finirà per domandarsi se sia ancora eterosessuale come all’inizio. Tratto liberamente da un romanzo di Gerald Walker, è un film che sostanzialmente non funziona. Il difetto sta in A. Pacino, che voleva ripetere il colpo di Serpico ma ha avuto paura di distruggere la sua immagine di star con un personaggio troppo negativo, e nella sceneggiatura che, dopo mezz’ora di indubbio impatto descrittivo, si avvita su sé stessa e diventa ripetitiva. Scatenò le ire delle associazioni gay degli USA.
Dalla commedia Bus Stop (1955) di W. Inge: un ingenuo e casto cowboy, arrivato nella città di Phoenix per un rodeo, incontra una cantante-entraineuse e le chiede di sposarlo. Dopo essere stata obbligata a prendere un autobus per il Montana, la ragazza acconsente. Sceneggiata con brio da G. Axelrod, la commedia funziona anche sullo schermo grazie a un buon cast di interpreti tra cui spicca una fulgida Monroe in una delle sue interpretazioni più scattose.
Harry e Sally s’incontrano tre volte nell’arco di dieci anni e lui ogni volta ci prova, ma non va. Poi diventano amici e un bel giorno finiscono a letto insieme. Da una sceneggiatura, scritta da Nora Ephron, abile, non troppo originale ma ricca di battute frizzanti, R. Reiner, figlio di Carl, ha cavato una piacevole commedia a tratti davvero divertente, con due bravi protagonisti, belle musiche (Berlin, Gershwin e Goodman) e qualche strizzata d’occhio a Woody Allen e Blake Edwards.
Con Nanda Van Bergen, Ada Tauler, Karine Gambier, Jack Taylor, Vítor Mendes, Ly Frey, Aida GouveiaSusan raggiunge il marito Jack ad Haiti, che vive con una governante lesbica e Olga, una bionda ninfomane che si prensenta come sorella di Jack. Susan inizia ad avere strani incubi popolati da riti voodoo e morti violente.
Un emigrato messicano viene ucciso da una guardia di frontiera tanto stupida quanto arrogante. Pete, suo unico vero amico, decide di scoprire chi è il colpevole della sua morte e (visto che le forze dell’ordine preferiscono insabbiare il caso) lo punisce personalmente sequestrandolo e costringendolo a viaggiare con lui e con il cadavere del messicano. La meta è il paesino da cui l’uomo proveniva e in cui aveva chiesto di essere sotterrato. Grande e positiva sorpresa Tommy Lee Jones regista. Rivisita il western ‘alla Pechinpah’ ma lo fa senza citazionismi inutili. Inserisce invece il forte tema dell’amicizia che va al di là dell’appartenenza a un popolo e che rispetta un codice d’onore ineludibile. Tommy Lee Jones riesce poi ad evitare il rischio di concentrare tutta l’attenzione su di sé offrendo ampio spazio alle prove degli altri attori. Tra tutti, indimenticabile, la caratterizzazione di Levon Helm nel ruolo del vecchio cieco che vive isolato.
Giovane bibliotecaria è lanciata come modella grazie a un fotografo di moda, di lei innamorato, che deve staccarla da un rivale, filosofo “enfaticalista”. Quasi un canto del cigno, o un passo d’addio del grande F. Astaire, non lontano dai 60 anni ma ancor agile di gambe. Squisita messa in scena, sostenuta da una fotografia che ebbe la supervisione del celebre Richard Avedon e da una A. Hepburn vestita da Givenchy. Le canzoni di George e Ira Gershwin completano il bilancio al cui passivo vanno la storia troppo zuccherosa e i dialoghi senza sale.
Da una pièce di Aaron Sorkin che l’ha anche adattata. Due marines della base militare USA di Guantánamo a Cuba sono deferiti al tribunale militare per l’omicidio di un commilitone. Il trio dei difensori si convince che fu un’applicazione di “codice rosso”, la norma non scritta che impone dure correzioni fisiche ai compagni che sbagliano e che, data la rigida disciplina, non poteva non essere stata autorizzata, anzi ordinata dai superiori. Pur calato nelle convenzioni e negli stereotipi del dramma giudiziario, è un film ammirevole per la sagacia nel dar forma drammaturgica alla problematica morale sui limiti dell’obbedienza, per il disegno dei personaggi, per la capacità di dosare gli ingredienti, i toni, la suspense. J. Nicholson, in 3 scene, rischia di rubare il film a T. Cruise. Benissimo gli altri.
Durante un viaggio in auto, costretto a fermarsi per la neve, un uomo viene azzannato da un lupo. Per lui non è un momento molto felice perché dopo questo incidente rischia anche il posto di caporedattore. Infatti alla sua casa editrice c’è stato un passaggio di proprietà e un suo pupillo ambizioso è pronto a rubargli il posto. L’uomo, intanto, conosce la figlia del nuovo proprietario e tra loro nasce qualcosa di tenero. Ma la trasformazione durante le lune piene crea non pochi problemi. Ritorna ancora una volta il connubio Nichols-Nicholson. Regista e attore sono sempre in sintonia e pur con alcuni spunti già visti lo spettacolo regge anche questa volta. Perché oltre allo spettacolo horror, e all’ironia, c’è un’analisi critica della società intellettuale e manageriale statunitense. Nicholson è una persona che ha raggiunto il successo senza compromessi e sulla pelle di nessuno. Si trova però di fronte a personaggi talmente mediocri e senza scrupoli che è costretto a cambiare la propria natura e a ripagarli della stessa moneta. Proprio come un lupo che ha paura.
Il miglior film del regista svedese in terra statunitense. Nonostante il finale voluto dalla produzione, questo rimane uno dei capolavori del muto con la grande interpretazione di Lillian Gish. Una giovane donna della Virginia arriva in Texas. Rimane intrappolata in una casetta di legno, durante una grande bufera. La insidia uno sconosciuto. Grande fotografia.
Scarcerato per amnistia, “Mad Dog” Roy Earle, famoso rapinatore di banche, svaligia la cassaforte di un albergo di lusso in alta montagna con l’aiuto di due giovani inesperti e di Mary che s’innamora di lui. Braccato dalla polizia in una splendida sequenza finale, esaltata dal BN di Tony Gaudio (1885-1951). Dal romanzo High Sierra (1940) di W.R. Burnett, da lui sceneggiato con J. Huston, fu una svolta nella carriera di H. Bogart, promosso a protagonista, che rivela la tenerezza nascosta del suo personaggio e permette a un Walsh in gran forma di volgere il racconto nella melanconia di un noir introspettivo. Rifatto, in chiave western, con Gli amanti della città sepolta (1949) dello stesso Walsh e con Tutto finì alle sei (1955).
Rob Gordon, proprietario a Chicago del Championship Vinyl, anomalo negozio di dischi pop, è scaricato dall’amata Laura. L’abbandono lo porta a un bilancio dei suoi fallimenti sentimentali, e a crescere. Dal romanzo (1995) di Nick Hornby, sceneggiato in quattro tra cui J. Cusack, anche coproduttore. Strutturata su monologhi spiritosi e un po’ autolesionistici, detti dal protagonista guardando in macchina, l’aguzza e garbata commedia si sviluppa a 2 livelli: il negozio con i due maniacali amici-commessi (il calvo Louiso e il frenetico Black) e la sfilata, in flashback o al presente, delle Top Five, le cinque fanciulle che, secondo lui, gli hanno spezzato il cuore. Il film appartiene forse a Cusack, a Hornby e agli sceneggiatori più che a Frears che, però, contribuisce con la direzione degli attori, l’intelligenza dei tempi narrativi, l’attenzione ai particolari. Breve comparsa di Bruce Springsteen e cammeo di T. Robbins capellone. Musiche di Howard Shore e frammenti di 59 canzoni
Mentre lui vola, lei a casa trema, ma quando ritorna sorride. Poi lo mette alle strette: o me o la divisa. Trionfo dello stereotipo. Tutto è prefabbricato: i personaggi, le psicologie, gli intrecci, le situazioni, i sentimenti e le trovate. Veder volare il B-47 è un’emozione.
Il poliziotto creato da John Ball e ottimamente interpretato da Sidney Poitier indaga questa volta sui loschi traffici di una grossa ditta che smercia droga. Le sue ricerche provocano la sanguinosa reazione della banda e anche l’esonero dal servizio. Caparbio, l’agente continua da solo nella lotta, ma verrà sopraffatto dai malviventi.
Un inglese in vacanza nel regno di Ruritania, Paese imprecisato dell’Europa centrale, contribuisce a sconfiggere un colpo di Stato, impersonando alla cerimonia dell’incoronazione il re suo cugino, sequestrato dai ribelli. Un po’ datato, ma indubbiamente il migliore dei 5 film (1914, 1922, 1937, 1952, 1979) tratti dal romanzo di cappa e spada di Anthony Hope. Ottima compagnia di attori, eccitanti sequenze d’azione, ritmo scorrevole, splendida fotografia.
Negli anni Quaranta un detective scalcinato cerca di scagionare il suo cliente dall’accusa di aver ucciso un corteggiatore della moglie. Qui però il cliente è un personaggio dei cartoni animati (che somiglia a Bugs Bunny) e le indagini si svolgono a “Cartoonia” dove vivono “cartoni” buoni e cattivi. La “factory” di Steven Spielberg e la Walt Disney uniscono le loro forze per un best-seller che è nel contempo un grande exploit tecnico (la perfetta fusione fra cartone e fotogramma recitato) e poi un superdivertimento dalle mille trovate (per la precisione 93 nei 93 minuti di proiezione).
Tre streghe riescono a ringiovanire succhiando la linfa vitale da una fanciulla e trasformando suo fratello in un gatto. Vengono catturate e impiccate, ma dichiarano che un giorno torneranno. Queste sono le origini di Halloween ma, ovviamente, c’è chi si dichiara scettico in materia. Avrà modo di ricredersi perché le tre streghe, effettivamente, torneranno. Film Disney che potrebbe far leva solo sugli effetti speciali mentre si prende il gusto di fare ironia sul genere horror trasformandolo in una simpatica satira di costume.
Jimmy Logan, ex quarterback con una gamba offesa, e Clyde Logan, veterano dell’Iraq senza un braccio, decidono di organizzare una rapina. Separato dalla consorte e licenziato dal boss l’uno, single con pub l’altro, i Logan vivono nell’America rurale, collezionano una sfortuna eterna e perpetuano una maledizione familiare. Ma quella superstizione, esemplificata dal corso disastroso delle loro esistenze, diventa la loro chance: una buona copertura (chi accuserebbe mai due storpi?) e una buona occasione (giunti a questo punto, i Logan non hanno niente da perdere).
Un paparazzo interpretato da Banderas fotografa, durante il Festival di Cannes, una ragazza bellissima che sta cercando di mettere a segno un colpo clamoroso. La donna, la femme fatale (interpretata da Rebecca Romjin-Stamos), è immortalata sulla copertina del rotocalco. Alcuni gangster parigini la riconoscono come una persona, creduta morta, con cui hanno dei conti in sospeso. È arrivato il momento di regolarli. La bella donna inizia ad essere braccata e allora decide di coinvolgere nelle sue peripezie anche il fotografo che l’ha inguaiata. Per il regista, Femme Fatale è un omaggio al noir classico francese, ma risente anche di certe atmosfere rarefatte di Blow-up di Michelangelo Antonioni.
Per guadagnare tanto e molto in fretta, avvocato texano entra in affari con i narcos messicani. Vorrebbe fare una rapida transazione, intascare e chiuderla, ma non ha previsto che ignoti rubino il carico, e il potente e spietato boss Reiner non ha intenzione di lasciarlo andare. Scritto dall’80enne Cormac McCarthy, narratore influenzato da Saul Bellow e qui anche produttore, è un film in cui il pessimismo prevale: fallibili, inutili, malvagi, innocenti, sono tutti vittime della storia di cui sono i principali artefici. “C’è così poco cinema in The Counselor da generare una paradossale purezza espressiva… Scott trova una limpidezza di sguardo mai posseduta…” (Roberto Manassero).
“Io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”: frase storica, storico film, giunto – a venticinque anni dalla sua prima uscita – alla terza edizione, dopo il director’s cut del 1992 e la versione, a quanto pare definitiva, del 2007. Torna dunque in servizio l’ex poliziotto fallito Rick Deckard, prestato all’unità speciale Blade Runner, per dare la caccia ai replicanti, uguali in tutto e per tutto agli esseri umani salvo per l’apparente incapacità di provare dei sentimenti e per la durata limitata delle loro esistenze: circa quattro anni. In una Los Angeles del futuro, anno 2019, cupa, nebbiosa e terribilmente affollata, il simulacro dell’esistenza nella pessimistica penna di Philip K. Dick ritrova vita nelle immagini girate nel capolavoro di Ridley Scott. Oltre al piacere di rivedere un classico del cinema – con tutti i costrutti filosofici che ne conseguono – questa nuova versione di Blade Runner sembra soddisfare più un ben determinato piano commerciale, piuttosto che una vera e propria rivisitazione operata dal regista rispetto alle scorse versioni. A parte la rimasterizzazione dell’opera e lo zampino già noto dell’artista francese Moebius (Jean Giraud) chiamato a evocare alcuni scenari tratti da un suo fumetto a sfondo fantascientifico, nonché delle musiche a sfondo futuristico dei Vangelis, “Blade Runner” vanta dei cambiamenti quasi impercettibili (almeno rispetto al Director’s Cut del 1992) rimanendo quello che era: il cult movie che ha conquistato almeno tre generazioni di spettatori. La voce narrante, onnipresente nell’originale del 1982, è totalmente sparita, togliendo al film la sua caratterizzazione principale e indebolendo parzialmente la storia (passata) del personaggio interpretato da Harrison Ford. Più nitida, invece, la scena centrale del sogno, importante chiave di (non) lettura sulla vera natura di Rick Deckard, forse anch’egli un replicante. Ed è il finale a confermare una tendenza pessimistica (rispetto all’happy end “ecologista” imposto dalla produzione nella prima stesura, portata a termine con le scene scartate da Kubrick in Shining), che si rifà sostanzialmente a quello della seconda versione. Insomma, il ritorno al cinema (e in un cofanetto con ben 5 dvd) di Blade Runner è un piacere per gli occhi e per la mente. Ma non aspettatevi grosse novità: dopotutto i replicanti vivono all’incirca quattro anni, mentre Blade Runner è già entrato nella storia.
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