Protagonista della dolorosa vicenda è un ragazzo di sedici anni, originario della Bielorussia, che vive la seconda guerra mondiale con lo strazio di un’adolescenza sprecata e la ferma convinzione che chi uccide deve pagare, perché nessuno ha il diritto di togliere la vita a un altro essere umano. Buon film russo girato sul nascere della Perestrojka.
Il cadavere di Varlam Aravidze – borgomastro di una grossa città georgiana che ha appena avuto funerali solenni – è disseppellito tre volte. L’autrice del macabro misfatto è una donna la cui famiglia è stata vittima delle sue angherie. Al processo si ricostruisce la storia del despota Varlam: ha baffetti alla Hitler, i gesti e il balcone di Mussolini, gli occhialetti di Beria, l’ardore di Somoza, la cordialità minacciosa di Stalin. Per rievocare gli anni di piombo dello stalinismo T. Abuladze pratica la mescolanza dei generi con un omaggio a Chaplin e rimandi a Buñuel. È un grottesco poema satirico che osa paragonare la dittatura staliniana a quella hitleriana con un accostamento che a molta parte della sinistra occidentale ripugnava allora e oggi ripugna ancora (un po’ meno). Ideato alla fine dell’epoca di Breznev, realizzato nel 1984 sotto Andropov e Cernenko, uscì soltanto alla fine del 1986 sotto Gorbaciov: 12 milioni di spettatori nell’URSS, premio speciale della giuria di Cannes, notorietà internazionale per il georgiano Abuladze di cui fu purtroppo l’ultimo film. In quegli anni “Varlam” divenne in Russia sinonimo di tiranno. Memorabile, nel registro drammatico, la sequenza del deposito dei tronchi arrivati dalla Siberia sui quali si cercano i nomi dei deportati nei campi di lavoro. Come epigrafe gli si addice un’amara frase di S.M. Ejzenštejn: “Nella vita la giustizia trionfa sempre, ma spesso la vita è troppo corta”.
Un film di Dziga Vertov. Titolo originale Tri pesni o Lenine. Muto, b/n durata 58′ min. – URSS 1934.
Le due diverse date fornite qui sopra riflettono la storia della copia attualmente disponibile. La versione sonora di Tri pesni o Lenine (Tre canti su Lenin) venne approntata nel 1934, quella muta nel 1935. Nel 1938 fu richiesto a Vertov di rimontare entrambe le versioni: nel frattempo le purghe staliniane avevano raggiunto il culmine e i “nemici del popolo” che erano stati fisicamente eliminati entro i tardi anni Trenta dovevano essere cancellati anche dal film. Le versioni originali del 1934 e 1935 non esistono più, ma possiamo supporre che differissero notevolmente da quelle ora disponibili.La prima della versione sonora di Tri pesni o Lenine si tenne al festival di Venezia nell’estate del 1934; in quella stessa estate il film fu presentato a Mosca ai delegati del primo Congresso degli scrittori sovietici: distribuito a novembre (sei mesi dopo che era stato completato), ebbe un considerevole successo sia in patria che all’estero. Lo scrittore inglese H.G. Wells (che aveva conosciuto Lenin) raccontò che pur avendo visto il film senza traduzione aveva compreso ogni parola.
La versione muta (1935) fu preparata per le sale di provincia non attrezzate per il sonoro (in Russia si videro film muti sino alla fine degli anni Quaranta). Queste versioni mute erano in genere reputate inferiori: si sapeva che erano fatte dagli aiuto-registi e di norma non venivano recensite. Nel caso in questione tuttavia la versione muta non era soltanto la parente povera della sonora: sappiamo che Vertov e la Svilova vi avevano lavorato e che le due versioni differiscono considerevolmente: non dal punto di vista qualitativo, ma nel contenuto e nel montaggio.La versione sonora di Tri pesni o Lenine è costituita da tre parti ognuna delle quali basata su materiali folklorici. La prima parte ritrae il leader sovietico attraverso canti e racconti popolari; la seconda è un requiem commorativo di Lenin; la terza (quella ottimista) asserisce l’immortalità di Lenin attraverso l’immortalità delle sue idee. Per Vertov, Lenin era un nuovo dio e ciò riflette la nuova religiosità comunista del cineasta. Nel film, Lenin è evocato come fosse un Messia, colui che non solo ha indicato alla Russia la nuova via, ma che – anche oltre la tomba – può continuare ad aiutare il paese a progredire. È propaganda, ma non soltanto. Vertov chiamava il tipo di montaggio qui adottato “spirale” e diede una forma a spirale alle stesse didascalie. Il sogno di Vertov (annunciato nei suoi tanti manifesti) era sempre stato quello di usare il potere del cinema per costruire l’Uomo Nuovo (ovvero, il Nuovo Adamo, come lui soleva chiamarlo). In questo film Lenin è il Futuro Adamo di Vertov e il montaggio a spirale è il suo genoma, scoperto da Vertov prima dei genetisti. Vertov cercò di fare ciò che l’Internazionale prometteva a parole e ciò che i Bolscevichi non riuscirono a fare nella pratica: costruire il Nuovo Mondo sulle rovine di quello vecchio. Il film fu per Vertov un trionfo, ma un trionfo che professionalmente non gli aprì nuove strade. Coloro che erano al potere si assicurarono che Vertov non avesse più l’opportunità di fare un fim messianico come questo.La versione muta di Tri pesni o Lenine omette le interviste post-sincronizzate per cui la versione sonora era diventata famosa. Ma questa versione muta non è Tri pesni – Tre canti – senza il sonoro. Le didascalie sono le stesse, ma qui ci sono scene nuove, mentre per certe scene già note vengono usate inquadrature alternative a quelle girate per il film sonoro. Vertov si avvale anche di quanto fatto in precedenza sul tema di Lenin. Come in Leninskaia Kino-Pravda (Kino-Pravda su Lenin), la versione muta inizia con il (muto) discorso rivolto al pubblico da un lavoratore, il quale dice di essere l’uomo che nel 1918 aveva catturato Fanny Kaplan, dopo che costei aveva tentato di uccidere Lenin sparandogli con una pistola. Era questo un argomento tornato di grande attualità, visto che uno dei più importanti esponenti del governo sovietico, Sergei Kirov, era stato assassinato nel dicembre del 1934. La versione muta vanta anche delle impeccabili riprese che non troviamo nel prototipo sonoro mentre nel montaggio riconosciamo il Vertov muto migliore. Se la versione sonora era l’ispirato inno di Vertov all’Uomo Nuovo, quella muta, in sintonia con il Vertov degli anni Venti, è un inno al Nuovo Cinema.
Siamo a Berlino, dopo la fine della prima guerra mondiale. Qui Else, una poetessa ebrea, conosce Tania, una sionista venuta dalla Russia. Tania spiega ad Else il suo proposito di andare in Palestina per partecipare alla nascita di un collettivo agricolo. Arriva il nazismo e dopo essere scappata in Svizzera Else raggiungerà l’amica a Gerusalemme ma vi troverà rovina e distruzione. Un film poetico, in alcuni momenti criptico, ma di forte suggestione. La musica è di Markus Stockhausen.
Nadja è una semplice ragazza della campagna sovietica, una di quelle che quando si innamora segue il cuore ovunque esso la porti. E così accade quando un giorno, sul suo cammino, incrocia il geologo Maksim e, perduta la testa per lui, decide di seguirlo in città per stargli vicino. Assunta come domestica dalla signora Valentina Ivanovna, moglie di un funzionario, scoprirà ben presto che il suo non è l’unico cuore nel quale Maksim ha fatto breccia. Una pellicola d’amore delicata e triste, ma soprattutto poetica, grazie al finale assolutamente romantico, commovente e, oltretutto, inaspettato per lo spettatore. La Muratova, qui anche in veste di attrice nel ruolo di Valentina, la moglie del funzionario, descrive i percorsi del cuore di una ragazza con un’eleganza e una limpidezza invidiabili. Nel cast, nel ruolo di Maksim, il cantante e attore teatrale e cinematografico Vladimir Vysotsky, mito della musica russa, che morì dissidente nel 1980.
Un film di Kira Muratova. Con Zinaida Sharko, Oleg Vladimirsky, Tatyana Mychko, Yuri Kayurov, Svetlana Kabanova, Lidiva Dranovskaya, Lidiya Brazilskaya Titolo originale Dolgie provody. Drammatico, durata 97 min. – URSS 1971. MYMONETRO Lunghi addii valutazione media: 4,00 su 1 recensione.
È davvero un lungo addio quello fra una madre tormentosa e opprimente, divorziata dal marito archeologo, e suo figlio Ustinov, silenzioso e solitario come uno spettro, in sua presenza. Lei vorrebbe penetrare nel complicato mondo del figlio, lui dal canto suo, vorrebbe che non invadesse anche quello, tanto da costruire un muro di parole ripetute mille volte e di mutismi assordanti che si frappone nel loro rapporto, già parecchio alienante e tortuoso. Fino a quando non riemergerà la figura del padre, portando nella mente di Ustinov il pensiero di una nuova vita, lontano da gelosie, rimproveri e consigli materni inopportuni. Censurata fino alla Glasnost del 1987 (quell’ampia riforma politica atta a rimuovere corruzioni e privilegi dell’apparato governativo sovietico), la Muratova – una delle più celebri registe russe del XX secolo, parecchio influenzata dalla Nouvelle Vague -, dimostra tutto il suo anticonvenzionale talento nel dirigere (in una Russia che deve fare ancora i conti con le revisioni dello stalinismo) una pellicola moderna e d’avanguardia come questa, ben attenta a non compiere giri di boa, attorno a randagismi sentimentali banali, che potrebbero far cadere la trama (peraltro perfetta) nei più ovvi cliché. Ottima la sceneggiatura che scava alla ricerca dello straordinario nell’ordinario di tutti i giorni; tanto appassionante che è impossibile non riuscire a comprendere le inadeguatezze, i masochismi, le depressioni e le monotonie dei personaggi, veri motivi dei comuni lunghi addii. Un particolare plauso va all’attrice teatrale e cinematografica Zinaida Sharko (una sorta di Claudia Cardinale russa), perfettamente calata nel ruolo di una madre che alterna la civetteria con gli altri uomini alla debole gelosia per le ragazze che il figlio bacia, ma che fondamentalmente cerca, con una notevole punta di disperazione, di non farsi abbandonare per la seconda volta. Bravo anche Oleg Vladimirsky nel ruolo dello sfuggevole Ustinov, che oggi è un affermato fotografo artistico.
Uno psicosociologo arriva sulla stazione spaziale in orbita attorno al pianeta Solaris per indagare sui misteriosi fenomeni che vi avvengono e che coinvolgono gli scienziati a bordo: su Solaris c’è un oceano che pensa. Dal romanzo (1961) del polacco Stanislaw Lem, eminente fautore della problematica del dubbio nella fantascienza, il 3° film di Tarkovskij è un’avventura della coscienza più che della conoscenza, un’opera di fantacoscienza (C. Cosulich) in cui il cosmo corrisponde al subconscio umano: su Solaris gli astronauti sono alle prese con gli “ospiti” del proprio passato, proiezioni materializzate della loro memoria e del loro inconscio. Angoscioso, ossessivo nel suo ritmo lento, enigmatico, il film ha un potere ipnotico che inchioda lo spettatore allo schermo con immagini che non si erano mai viste nel cinema, di fantascienza e non. Curata da Dacia Maraini, l’edizione italiana è mutilata di più di mezz’ora, priva di un lungo prologo a terra (inesistente nel romanzo) cui l’autore teneva molto.
L’americano Mr. West, presidente dell’YMCA, visita l’Unione Sovietica con il cowboy Jeddy come guardia del corpo. A Mosca viene sequestrato da una banda di ex nobili che cercano di truffarlo finché arrivano i veri bolscevichi a salvarlo. Commedia ironica in cui il cinema americano, codificato in generi (commedia, western, ecc.), è parodiato e, insieme, esaltato. Non appartiene a nessun genere, ma ne attraversa molti con una libertà di sperimentazione che ne fa uno dei primi esempi, e tra i più briosi e inventivi, di cinema sul cinema senza trascurare mai, in cadenze pungentemente satiriche, il discorso politico. Nel suo accanito rifiuto del naturalismo e dell'”illusione di realtà” è il frutto di un momento storico in cui l’avanguardia era ancora liberamente praticata.
1917, in Crimea. Mentre l’Armata Bianca cerca di contrastare la rivoluzione bolscevica in marcia, una troupe di cinematografari cerca di finire le riprese di un film d’amore. È il film che rivelò il trentenne N. Michalkov, uno dei più brillanti registi dell’ultimo cinema sovietico. Famoso per la sequenza finale del tram. Attori bravi, uno squisito esercizio sul tramonto di una classe.
Un camionista russo rimane in panne nella steppa e viene ospitato da un pastore mongolo. Per ricambiare la gentilezza, il camionista lo porta in città per aiutarlo ad acquistare i preservativi che gli consentano di controllare nuove nascite in famiglia. Quell’irrequieto talentaccio di Michalkov torna al cinema 4 anni dopo Oci Ciornie con un film ottimo nella 1ª ora, dominata dai grandi spazi della steppa mongola, dalla descrizione degli usi e costumi di un piccolo nucleo di pastori, dalla contrapposizione tra la ridondante vitalità slava del russo e la quieta, impenetrabile gentilezza orientale dei suoi ospiti. Ma con il viaggio in città il film s’ingorga, perde ritmo, diventa pedagogico, demagogico e moralistico. Accattivante colonna musicale di Eduard Artemiev. Leone d’oro a Venezia.
Un film di Nikita Michalkov. Con Elena Solovej, Aleksander Kaljagin, Eugenia Glucjenko Titolo originale Neokoncënnaja p’esa dlja mekkaniceskovo pianino. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 106′ min. – URSS 1976. MYMONETRO Partitura incompiuta per pianola meccanica valutazione media: 4,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Libera trasposizione (scritta dal regista trentenne con Aleksandr Adabas’jan) di un dramma senza titolo del ventenne Anton Čechov (1860-1904), pubblicato postumo nel 1923. Eroe del disgusto e dell’indeterminatezza, Michail Platonov è il personaggio principale di un’azione corale che “scorre placida come un fiume russo”. N. Michalkov ne ha smorzato il dongiovannismo e sottolineato l’abulia dell’intellettuale fallito che porta il lutto di sé stesso. Anche il finale è mutilato: invece della revolverata con cui Sofia (E. Solovej) lo uccide, c’è il ridicolo e patetico tentativo di suicidio di Platonov, ultimo segno di quell’altalena tra melodramma e grottesco, dolore e beffa, sospiri e scherzi su cui Michalkov ha tenuto la sua riscrittura cechoviana. C’è una compagnia di attori di raro affiatamento tra cui lo stesso regista nella parte del medico Trileeski. Distribuito in Italia nel 1985.
Dice il regista: “Il protagonista è un uomo sui quarant’anni che si sforza di fare un bilancio della vita precedente… Sullo schermo vanno avanti di pari passo tre storie: la prima è costituita dai ricordi dell’infanzia; la seconda è composta delle cronache di avvenimenti storici vissuti e compresi sotto un’angolazione prettamente individuale; la terza è formata da ragionamenti psicologici che sono un po’ la sintesi di tutto il discorso”. Un film affascinante, anche se di non facile lettura.
Un film di Aleksandr Dovzhenko. Con Semyon Shagaida, Sergei Stolyarov, Stepan Shkurat, Yevgeniya Melnikova Fantascienza, b/n durata 82 min. – URSS 1935. MYMONETROAerograd valutazione media: 4,00 su 1 recensione.
Nella Taiga siberiana le guardie di frontiera sono impegnate a difendere la costruzione di un aereoporto dalle spie giapponesi. Incombe sulla storia la presenza selvaggia della foresta paludosa, dove avverrà la fucilazione di un traditore da parte di un anziano cacciatore, suo caro amico. Dovgenko portò a termine il film, girato a Mosca e in Siberia, con grande entusiasmo, e, in effetti, Aerograd ha al suo attivo scene dense di lirismo, come quella straordinaria della fucilazione del traditore Khudjakov, e l’altra bellissima del figlio neonato dell’aviatore.Il film, in cui affiorano concetti non facili, fu accolto dalla critica con reazioni contraddittorie, anche se spesso i giudizi negativi erano destinati a mutare. Lo stile immaginoso caratteristico di Dovgenko, stile che certe volte era apparso fine a se stesso, acquistava qui un significato strettamente legato al significato stesso del film: collegando i riti semibarbari dei vecchi credenti con il formalismo egualmente barbarico del Samurai, Dovgenko sottolineava in modo indubbiamente cinematografico le cause dell’alleanza politica fra i nemici dei Soviet, all’interno e al di fuori del paese. Contro tali immagini di un mondo primitivo e retrogrado, si stagliava l’efficacissimo ritratto del giovane comunista, portavoce di una nuova e diversa generazione: ritratto più lirico forse che funzionale, ma arricchito dalla poesia e dal calore che il regista è maestro nel raggiungere. (Richard Griffith).
Da due libri di viaggio (1923) di Vladimir K. Arseniev: nel 1902 in una zona selvaggia lungo il fiume Ussuri ai confini con la Manciuria, Dersu Uzala, solitario cacciatore mongolo senza età né fissa dimora, incontra la piccola spedizione cartografica del capitano russo Arseniev con cui si lega di profonda amicizia e al quale salva la vita. 1° premio al Festival di Mosca e Oscar 1976 per il miglior film straniero, è un’opera che ricorda Flaherty e Dovženko per l’intensa, lirica,panteistica rappresentazione del rapporto tra uomo e natura. Dersu Uzala _ impersonato con eccezionale mimetismo da un attore non professionista mongolo che nella vita fa il musicologo _ vive in armoniosa e religiosa simbiosi con la natura, parla col fuoco e gli animali, ma ha poco da spartire con il mito del “buon selvaggio”.
È la ricostruzione storica dell’invasione della Russia da parte dei cavalieri teutonici che, dopo la presa di Pskov, furono travolti dall’esercito russo guidato dal principe Nevskij e spinti nel lago gelato Peipus. È una grande “cine-opera” (così fu definita all’epoca) realizzata da uno dei più grandi registi del mondo. La musica di Prokof’ev non si dissocia mai dalle sequenze del film che vuole essere un inno al patriottismo.
Ritratto di un timido, apatico, torpido, dominato da una volontà di inazione, incapace di afferrare la realtà, anche quella angelicata che riveste i panni di Olga. A modo suo, è un asceta della memoria. Michalkov non fa soltanto un intelligente e raffinato adattamento del romanzo (1859) di Ivan Gončarov, ma riabilita questo personaggio di neghittoso (da cui il termine “oblomovismo”), sottolineandone la non adattabilità a un modello di vita che non gli appartiene.
Al centro di una incolta regione industriale c’è una misteriosa Zona, di accesso proibito dalle autorità, dove molti anni prima precipitò un meteorite – o un’astronave? – sprigionandovi una potenza magica capace di esaudire i desideri di chi riesce ad arrivarvi. Guidati da uno “stalker” (“to stalk” = inseguire furtivamente), uno scrittore e uno scienziato penetrano nella zona, ma giunti alla meta rinunciano a entrare nella Stanza dei Desideri. Liberamente ispirato al racconto lungo Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Arkadij N. e Boris N. Strugackij, scrittori di fantascienza che l’hanno sceneggiato, il 5° film di Tarkovskij, e l’ultimo che girò nell’URSS, è, nella sua enigmatica compattezza, un’opera affascinante. Non è difficile riconoscere nello “stalker” e nei suoi congiunti le figure dei “poveri di spirito” dostoevskiani, degli umili evangelici che hanno bisogno della fede per mantenere accesa una scintilla di speranza e che si contrappongono agli intellettuali perché ormai, abbandonato ogni illusorio tentativo di intervento nella Storia, dei politici Tarkovskij più non si cura. Sotto il segno dell’acqua, non sembra sibillino il tema della contrapposizione tra la rigidità-forza e la flessibilità-debolezza che corrisponde alla vita. Come accade con i poeti – e Tarkovskij fa un cinema di poesia – la filosofia di Stalker passa attraverso l’emozione delle sue immagini.
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