In un macello di Budapest viene assunta una nuova ispettrice della qualità, la giovane Maria. Il direttore finanziario è subito incuriosito dal suo atteggiamento assolutamente riservato e dedito al lavoro con una rigida applicazione delle regole. A seguito di un test psicologico a cui vengono sottoposti tutti i dipendenti, emerge che entrambi sognano regolarmente di trovarsi in un bosco mentre nevica, lui nel ruolo di un cervo e lei nel ruolo della femmina. Messi a conoscenza di questo fatto i due iniziano un problematico avvicinamento.
In un appartamento dal mobilio antico e ormai in declino vive l’anziana Hédi, insieme a suo figlio Janós, alla sua infermiera Anna e ad altri due uomini: l’insegnante Tibor e il musicista Miklós. La convivenza, però, è problematica: i rapporti interpersonali sono infatti improntati alla tensione e all’ambiguità. E il patrimonio della padrona di casa fa gola a tutti.
In un afoso giorno di agosto del 1945, mentre gli abitanti di un villaggio ungherese si preparano per il matrimonio del figlio del vicario, un treno lascia alla stazione due ebrei ortodossi, uno giovane e l’altro più anziano. Sotto lo sguardo vigile delle truppe di occupazione sovietiche i due scaricano dal convoglio due casse misteriose e si avviano lentamente verso il paese. Il precario equilibrio che la guerra appena terminata ha lasciato sembra ora minacciato dall’arrivo dei due ebrei. 1945 è tratto da un racconto (“Homecoming”) dello scrittore ungherese Gábor T.Szántó, i cui saggi e racconti brevi sono stati tradotti in diverse lingue e inseriti nell’antologia americana Contemporary Jewish Writing in Hungary (Paperback, 2003) ma il film non ha nulla di ‘letterario’.
Estate 1944, nell’Ungheria alleata della Germania. Partito il padre per il fronte, due bambini gemelli vengono affidati dalla madre alla nonna, una contadina inacidita e crudele. Per sopravvivere, si addestrano a resistere al dolore e alla fame. Ci riusciranno, a costo di camminare sui cadaveri dei loro genitori. Tratto dal 1° romanzo omonimo della Trilogia della città di K. (1987) di Ágota Kristóf, il 4° film dell’ungherese Szász, suggestivamente fotografato da Christian Berger, è una versione storico-realistica di Hänsel e Gretel con un rovesciamento finale di ruoli tra buoni e cattivi. È la storia eterna dell’iniziazione dei bambini a un mondo adulto fatto di sopraffazione e violenza. I grandi orrori delle operazioni belliche e dei campi di sterminio non sono meno presenti perché fuori campo, a evidenziare che la guerra è fatta anche di piccoli orrori perpetrati dai civili. Vincitore del Karlovy Vary International Film Festival del 2013.
Tornato dal servizio nel corpo militare di stato, Laci è costretto a vivere con la moglie operaia Irén e la figlioletta nell’angusto appartamento dei suoi genitori, in attesa che il piano alloggi gliene fornisca uno. Il padre di Laci mal sopporta la nuora, imputandole l’incapacità tanto di educare la bambina quanto di mettere da parti soldi per far fronte alle spese comuni. Le incomprensioni crescenti porteranno all’inevitabile frattura del nucleo famigliare. Prodotto dai Béla Balázs Studio, l’esordio nel lungometraggio del giovane Béla Tarr affronta una problematica di stretto carattere politico-sociale, com’è la carenza di case nel sistema comunista ungherese, mediante il linguaggio di un cinéma-vérité aggressivamente polifonico. A conferma dell’interesse pubblico di quanto si vedrà sullo schermo, ad aprire è una didascalia inequivocabile nella sua chiarezza: «È una storia vera, non è accaduta ai personaggi del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro».
L’effervescenza dell’impianto di un lavoro tanto fisico sta nell’impiego di attori non professionisti, nel suono in presa diretta, nella macchina a spalla orientata – come la lente di un microscopio – a focalizzare stralci di frasi, dialoghi sovrapposti, reazioni mimiche, spostamenti improvvisi dei corpi. Affine alle sperimentazioni di altre cinematografie, il primo metodo di Béla Tarr costituisce, invero, il punto d’incontro tra il vivo desiderio di ancorarsi alla realtà e la pochezza dei mezzi a disposizione, in un’intercambiabilità tra programma estetico e politico dove è già possibile scorgere quella deriva della condizione umana che sarà tema prediletto dei titoli maturi. Al di là del filtro di un “cassavetismo incolpevole”, allora Tarr non conosceva l’opera del cineasta americano, il dramma personale e ugualmente pubblico di Laci e Irén acquista sottigliezza psicologica caricandosi di credibilità ad ogni nuovo scontro-dialogo, fino alla resa dei conti delle due, splendide, confessioni finali in cui è palese il sapore schiacciante della sconfitta. Con un titolo che rimarca, per antifrasi, l’inferno della convivenza, Nido familiare costituisce, insieme a The Outsider, Rapporti prefabbricati e, in parte, Almanacco d’autunno, il periodo realista del regista prima della svolta stilistica segnata da Perdizione.
Hotel Magnezit Ungheria, Genere: Drammatico durata 12′ b/n Regia di Béla Tarr
Tibi Szepesi, un operaio ormai prossimo alla pensione, viene licenziato dalla fabbrica in seguito al furto di un motore. Dovrà abbandonare anche l’alloggio riservato ai dipendenti, ma lui, che è stato tenente dell’aeronautica e ha combattuto nell’ultima guerra, si oppone disperatamente alla decisione. Primo cortometraggio di Béla Tarr.
Karrer vive già da anni come tagliato fuori dal mondo, lontano da tutto. Passa il suo tempo osservando le benne della teleferica che si allontanano all’orizzonte, o vagabondando senza meta, sotto una pioggia incessante, per chiudere invariabilmente le sue giornate, qualunque sia la direzione presa la mattina, nella medesima taverna. Un giorno decide di coinvolgere nei suoi loschi affari il marito della cantante del Bar Titanic, per poter così avvicinare la giovane donna. Riesce ad allontanare l’uomo per qualche giorno, con la complicità di Willarsky, suo amico e proprietario del bar. Gli slanci affettivi mutevoli che caratterizzano i rapporti tra questi quattro personaggi indissolubilmente legati gli uni agli altri dai loro interessi e sentimenti, provocano tra di essi conflitti e ravvicinamenti disperati. Sarà Karrer a uscirne sconfitto; a lui non resterà che l’odio e il desiderio di vendetta. Le tappe del suo calvario lo porteranno non alla redenzione, ma a ciò che rappresenta il peggio per l’uomo europeo: la morte che precede la morte, la solitudine totale, il naufragio nella perdizione.
Un’anziana donna sale l’ultima rampa di scale che conduce al tetto in un tipico edificio residenziale di Budapest. Poi si avvicina al cornicione, guarda giù, e si butta. Per un momento tutto si ferma, c’è silenzio. La vecchia signora ricomincia a muoversi, lentamente, in modo incerto… Sei vite, sei storie indipendenti, e nonostante tutto collegate in infiniti modi, che ci danno una visione grottesca e talvolta mistica della realtà che conosciamo bene.
Quella delle gravidanze non volute è una delle nuove tendenze hollywoodiane. Dopo Waitress e Molto incinta, un’altra pellicola dal titolo Juno affronta la difficile tematica con un tono assolutamente leggero. Il regista è Jason Reitman che ha debuttato dietro la macchina da presa con il film campione d’incassi, Thank you for smoking. Un’adolescente, sicura di sé e dalla lingua affilata, riesce ad avere il controllo della situazione una volta che scopre di essere rimasta incinta di un suo coetaneo. Tutte le questioni trattate (l’amore, il matrimonio, la libertà) sono sollevate e mai giudicate. Sospesa tra le ingenuità dell’adolescenza e le responsabilità dell’essere adulti, la ragazza è interpretata da una bravissima Ellen Page la cui versatilità espressiva ha qualcosa di unico. La sceneggiatura si caratterizza per un linguaggio molto vicino a quello che usano i ragazzi di oggi. Anche le situazioni narrate riescono ad avere una tale verosimiglianza da escludere qualsiasi traccia di finzione. Tutto il merito va a una blogger di nome Diablo Cody che è stata scoperta da uno dei produttori mentre navigava su Internet. Colpito dal suo stile umoristico, Novick ha deciso di chiamare la scrittrice per proporle la stesura dello scritto che, per tutta la durata del film, si distingue per la sua natura ultra contemporanea e spiccatamente femminile. Assolutamente originale la rappresentazione dei non protagonisti. Alla notizia della dolce attesa, i genitori di Juno sfidano le convenzioni e gli stereotipi cinematografici assumendo un atteggiamento ironico e compito. Allo stesso modo, la coppia, a cui la teenager vorrebbe affidare il bambino, rivela di possedere molte più crepe di quelle che il loro status alto borghese implicherebbe. La pellicola trova il proprio equilibrio grazie anche a una serie di elementi di contorno. Il look di Juno, le candide musiche di sottofondo e le ambientazioni cariche di colori e di vita contribuiscono a raggiungere una buona coerenza.
Dialoghi ridotti al minimo, ma con un’assidua voce narrante, parlato in inglese e ungherese con sottotitoli, distribuito in DVD, è il LM di fiction di esordio di Brugia, autoriale, astruso, complicato e ambizioso. Fa capo a un uomo misterioso che vive molte vite con diversi passaporti, ma ha perduto la sua identità come se il suo scopo fosse quello di non esistere, ma di esserci là dove occorre. È al servizio di una società criminale ungherese che lavora sul mercato europeo della prostituzione. Gli affidano, da portare in Italia, Nora, biondina un po’ androgina e infantile, prelevata da un orfanotrofio, ma poi lo incaricano di eliminarla. Scritto dal regista con Giovanni Robbiano, è filmato in un originale colore denaturato sino al bianconero. È montato in modi allusivi, giocando sulla sottrazione, contraddetta dalla macchinosa parte criminale che pur non manca almeno di un personaggio riuscito, il potente sull’orlo del fallimento. Aspettiamo Brugia al suo 2° film.
Tra il 2008 e il 2009 in Ungheria gruppi organizzati di ‘giustizieri’ hanno commesso atti di violenza contro romeni. 16 case sono state attaccate con bombe molotov, sono stati sparati 63 proiettili per un totale di 55 vittime tra cui 5 ferite gravemente e 6 uccise. I processi contro i sospettati sono tuttora in corso. Mari, romena, vive con il padre invalido in una baracca nei boschi alla periferia di una città. Lavora come tagliaerba per il municipio e come donna di servizio. La figlia più grande, Anna, cerca di studiare in un ambiente non accogliente mentre il preadolescente Rio vagabonda evitando la scuola. Tutti sono sotto la stretta osservazione di un gruppo xenofobo. È un film in cui la tensione si fa respiro, sguardi, dettagli quello di Bence Fliegauf. Un’opera che concede ben poco allo spettatore ma sa come costruire, con una lentezza densa di significazioni quasi palpabili, un clima di paura nei confronti di un Male che può colpire all’improvviso e senza neppure la necessità di una benché minima provocazione. Il regista ha ben chiara la giustificazione che il gruppo razzista ha interiorizzato: non ce l’abbiamo con i romeni. Ce l’abbiamo con gli zingari che rubano eccetera. Di fatto poi tutti i romeni vengono catalogati come zingari. La giovane Anna, attenta nei confronti dei più piccoli e anche disegnatrice creativa, a scuola diventa la studentessa a cui si fa presente che è avvenuto un furto di attrezzature indicandola in tal modo come sospetta. L’attesa della punizione per un reato non commesso pervade tutto il film offrendo non solo l’occasione per riflettere su come l’odio irrazionale riesca a penetrare aree pronte ad assorbirne le più pretestuose ragioni. Just the Wind fa di più perché ci mostra come nella galassia ex comunista le minime garanzie sociali (pagate con il caro prezzo della dittatura) siano state sostituite da democrazie di nome ma non di fatto in cui la vita dei singoli (soprattutto se appartenenti a minoranze da sempre emarginate) non gode più di alcuna tutela.
Il film è liberamente ispirato a un episodio che ha segnato la fine della carriera del filosofo Friedrich Nietzsche. Il 3 gennaio 1889, in piazza Alberto a Torino, Nietzsche si gettò, piangendo, al collo di un cavallo brutalizzato dal suo cocchiere, poi perse conoscenza. Dopo questo episodio, che costituisce il prologo del film, il filosofo non scrisse più e sprofondò nella follia e nel mutismo. Su queste basi, The Turin Horse racconta la storia del cocchiere, di sua figlia e del cavallo, in un’atmosfera di grande e simbolica povertà. Il regista afferma: ‘Il film segue questa domanda: cosa accadde al cavallo? Il cocchiere Ohlsdorfer e sua figlia vivono in campagna. Sopravvivono grazie a un duro lavoro. Il loro unico mezzo di sussistenza è il cavallo con il carro. Il padre va a lavorare, la figlia si occupa delle faccende domestiche. È una vita misera e infinitamente monotona. I loro abituali movimenti e i cambi di stagione e di momento del giorno dettano il ritmo e la routine che viene loro crudelmente inflitta. Il ritrae la mortalità, con quel dolore profondo che noi tutti che siamo condannati a morte, proviamo.’ Il regista ungherese prosegue con estrema determinazione il suo percorso di ricerca stilistica che privilegia l’analisi della quotidianità trasferita sullo schermo con ritmi che si avvicinano quando non addirittura riproducono il tempo reale. Rende così quasi tangibile la marcia cadenzata dei suoi personaggi verso la morte con la scansione dei gesti quotidiani in una terra spazzata da un vento che percuote gli spiriti. Non è cinema per tutti il suo e, soprattutto, è cinema che non può essere trasferito dal grande schermo altrove se non per studi analitici. È lì sul telone bianco che lo sguardo dello spettatore può perdersi nella lentezza quasi ipnotica di un fluire funebre del tempo dettato dall’occhio di un maestro dello stile di un rigore assoluto.
Due versioni: una 720p presa da rai hd a cui credo manchino pochi secondi all’inizio. L’altra 1080p rippata da me a cui ho aggiunto i subita (tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni).
Un uomo decide di abbandonare il tetto coniugale, ma poi ci ripensa e torna a casa dalla moglie, con la quale è sposato da nove anni. Il loro matrimonio, però, si trascina stancamente tra liti e incomprensioni: lei vorrebbe che suo marito l’aiutasse a crescere i figli e a sbrigare le faccende domestiche, ma lui, pigro e indolente com’è, quando non lavora, pensa solo a riposarsi e rilassarsi, scatenando così la rabbia della sua compagna.
L’unico conforto di Andràs Szabó, giovane infermiere in un manicomio, è il violino. Intorno a sé, la realtà quotidiana e scialba di un’anonima cittadina ungherese. L’altro conforto di Andràs è l’alcool, capace di consolare la sua solitudine, i contrasti, le lotte e le sue incomprensioni con il mondo che lo circonda.
Tornato dal servizio nel corpo militare di stato, Laci è costretto a vivere con la moglie operaia Irén e la figlioletta nell’angusto appartamento dei suoi genitori, in attesa che il piano alloggi gliene fornisca uno. Il padre di Laci mal sopporta la nuora, imputandole l’incapacità tanto di educare la bambina quanto di mettere da parti soldi per far fronte alle spese comuni. Le incomprensioni crescenti porteranno all’inevitabile frattura del nucleo famigliare. Prodotto dai Béla Balázs Studio, l’esordio nel lungometraggio del giovane Béla Tarr affronta una problematica di stretto carattere politico-sociale, com’è la carenza di case nel sistema comunista ungherese, mediante il linguaggio di un cinéma-vérité aggressivamente polifonico. A conferma dell’interesse pubblico di quanto si vedrà sullo schermo, ad aprire è una didascalia inequivocabile nella sua chiarezza: «È una storia vera, non è accaduta ai personaggi del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro». L’effervescenza dell’impianto di un lavoro tanto fisico sta nell’impiego di attori non professionisti, nel suono in presa diretta, nella macchina a spalla orientata – come la lente di un microscopio – a focalizzare stralci di frasi, dialoghi sovrapposti, reazioni mimiche, spostamenti improvvisi dei corpi. Affine alle sperimentazioni di altre cinematografie, il primo metodo di Béla Tarr costituisce, invero, il punto d’incontro tra il vivo desiderio di ancorarsi alla realtà e la pochezza dei mezzi a disposizione, in un’intercambiabilità tra programma estetico e politico dove è già possibile scorgere quella deriva della condizione umana che sarà tema prediletto dei titoli maturi. Al di là del filtro di un “cassavetismo incolpevole”, allora Tarr non conosceva l’opera del cineasta americano, il dramma personale e ugualmente pubblico di Laci e Irén acquista sottigliezza psicologica caricandosi di credibilità ad ogni nuovo scontro-dialogo, fino alla resa dei conti delle due, splendide, confessioni finali in cui è palese il sapore schiacciante della sconfitta. Con un titolo che rimarca, per antifrasi, l’inferno della convivenza, Nido familiare costituisce, insieme a The Outsider, Rapporti prefabbricati e, in parte, Almanacco d’autunno, il periodo realista del regista prima della svolta stilistica segnata da Perdizione.
Mainon conduce una vita semplice e priva di prospettive ai bordi del mare. Quasi non si accorge della realtà che lo circonda e ha ormai accettato la solitudine in cui è immerso. Finché un giorno diviene testimone di un omicidio. La sua vita subisce uno sconvolgimento. È costretto a chiedersi cosa separi il bene dal male e quale sia la sottile linea che divide l’innocenza dalla complicità. Progressivamente è costretto a porsi domande, che aveva sempre rimosso, sul senso ultimo della vita. Il film è tratto da un romanzo di Georges Simenon. Il figlio dello scrittore ha detto in proposito: “Le vite di alcuni personaggi creati da mio padre non sono facili da trasporre in un film o in televisione. Questo vale anche per L’Homme de Londres perché la macchina da presa aspira a seguire la suspense che ha luogo nella mente del protagonista e l’impresa sembra impossibile. Bela Tarr ne ha fatto un esercizio di stile che mi ha toccato nel profondo”. In effetti tutti i film del regista ungherese sono esercizi di stile. Primo fra tutti Satantango, suo capolavoro della durata fiume di 7 ore e mezzo. Ma lì, come in altre sue opere, era presente una ricerca cinematografica destinata a un ristretto pubblico di cinefili ma ricca di creatività e di senso. In questo The Man from London c’è invece la sterile applicazione di uno stile a un testo altrui. Si ammirano pertanto i lentissimi movimenti di macchina da un punto di vista estetico, ma ci si chiede se siano funzionali alla narrazione. La risposta è spesso negativa.
Un film di Bela Tarr. Con Peter Berling, Mihaly Vig, Putyi Horvath, Erika Bok Drammatico, b/n durata 465′ min. – Ungheria, Germania, Svizzera 1994. MYMONETRO Satantango valutazione media: 3,81 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Diviso in 2 parti e in 12 capitoli per la durata di 7 ore e più, costato quasi 4 anni di lavoro (1991-94), tratto da un romanzo di László Krasznahorkai, adattato dall’autore col regista, è il più ambizioso dei film di Tarr, il narratore più estremo del cinema magiaro, attivo dal 1977. In un villaggio della pianura stepposa ungherese due gabbamondo, già dati per morti, convincono la popolazione a lasciare le proprie case e i loro risparmi, necessari a fondare una colonia collettiva dell’utopia. In cadenze allegoriche, anche se storicamente precise, è una satira antiautoritaria e, insieme, un apologo metafisico. Tema centrale: quelle che i padri della Chiesa cristiana chiamavano le figlie dell’accidia (filiae acediae), intesa come “la fuga dell’uomo davanti alle ricchezze delle proprie possibilità spirituali”: il torpore, il divertimento e soprattutto la disperazione, cioè la presuntuosa e compiaciuta certezza di essere già condannati alla rovina.(Leggere il Canto VII dell’Inferno di Dante). Influenzata dal cinema “improvvisato” di Cassavetes, ma anche dall’elegante rigore coreografico di Jancsó e Tarkovskij, la scrittura di Tarr è affidata a una esasperata dilatazione dello spazio e del tempo in lunghi piani-sequenza. La tensione che ne deriva corrisponde alla stasi spirituale mortifera del racconto e “si traduce in un’indagine ‘ontologica’ sul cinema stesso, sulla dialettica che lo fonda” (A. Piccardi). Fotografia: Gabor Medvigy.
Edit 19/2/24: Ho rippato un bdrip da 44gb e portato a 1080p h265. File unico ovviamente migliore della versione precedente dvdrip.
Vita tormentata e fine tragica di Edith Stein (1891-1942), filosofa ebrea, in gioventù atea poi convertita al cattolicesimo, assistente del filosofo Edmund Husserl di cui riordinò i manoscritti ( Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica , 1913). Entrò nel Carmelo di Colonia nel 1933 col nome di Benedicta a Cruce. Prelevata dai nazisti nell’agosto del 1942 a Echt (Olanda) e portata a Auschwitz dove morì il giorno dopo il suo arrivo. Scritto con Roberta Mazzoni ed Eva Pataki, punta sul versante privato di quest’intellettuale ruvida e fiera, beatificata dalla Chiesa di Roma: i difficili rapporti con la madre, che la considera una rinnegata, e gli innamorati, quelli con la sorella Rosa che condivide la sua sorte. Date le premesse (anche produttive), i toni edificanti prevalgono su quelli espressivi, soprattutto nella parte centrale. M. Morgenstern, attrice teatrale rumena, è comunque all’altezza del personaggio. Il titolo si riferisce alle sette stanze o tappe dell’ascesi carmelitana, secondo la spagnola Teresa d’Avila. La settima è la camera a gas.
Auschwitz 1944: la giornata di ordinario orrore di Saul, membro di un Sonderkommando – ebrei con il compito di condurre i connazionali nelle camere a gas e poi di cremare i “pezzi” (così le SS chiamavano i cadaveri) – che rischia la vita per trovare un rabbino che reciti il Kaddish (la preghiera funebre) sul cadavere di un bambino in cui ha creduto di riconoscere un figlio. Esordio lancinante, come regista e cosceneggiatore (con Clara Royer), dell’ungherese Nemes, allievo di Béla Tarr, campione di cinema estremo. Formato ristretto (4:3), camera a spalla, ininterrotti primi piani e soggettive del protagonista, colori desaturati, sfondi sfocati, assenza totale di musica (sostituita dal robotico ossessivo sottofondo sonoro degli ordini e delle imprecazioni delle SS); Nemes è riuscito nell’impossibile impresa di girare un film originale sulla Shoah, capace di immergere lo spettatore in un campo di sterminio nazista e di fargliene toccare con mano l’orrore, ma con un tocco di grazia, senza mai scadere nel trucido. Merito della poesia che scaturisce dall’antitesi tra la violenza e l’odio, che accomunano SS e Sonderkommando, e l’amore e la pietà di Saul, simbolo della vita che risorge proprio nel regno della morte. Gran Premio della Giuria a Cannes 2015, Golden Globe 2015 come miglior film, Oscar 2016 per il film straniero.
Ascesa e fulminea caduta nell’esercito austroungarico di Alfred Redl, perfetto ufficiale di un esercito e di una nazione che stanno disfacendosi (la prima guerra mondiale è alle porte). Diventato un capo dei servizi segreti, viene tradito dalla propria omosessualità. Ricattato, è fatto passare per spia. Verrà costretto a suicidarsi. Dopo Mephisto un altro film notevole costruito da Szabò sulla misura del suo attore feticcio Brandauer.