Nel Medioevo lo spiantato cavaliere Brancaleone da Norcia si mette alla testa di un gruppo di scalcinati senza famiglia e parte alla conquista del feudo di Aurocastro. Il film dilata i confini della commedia all’italiana con un’operazione culturale originale che comprende Kurosawa e Calvino, una rilettura della storia in chiave nazional-popolare, l’invenzione (di Age & Scarpelli) di una parlata mista di latino medievale e italiano prevolgare, il gusto anarchico di una scampagnata becera e i temi tipicamente monicelliani del gruppo dei piccoli perdenti e del senso della morte. 3° incasso nella stagione 1966-67, 3 Nastri d’argento (Gherardi per i costumi, Di Palma per la fotografia, Rustichelli per la musica) e un titolo passato in proverbio.
Dopo una battaglia nel deserto, un gruppo di soldati tedeschi e i loro prigionieri americani si trovano ad affrontare le sabbie infuocate. Durante la difficile marcia ogni rivalità è dimenticata, tanto che l’ufficiale tedesco, alla fine, lascia liberi i prigionieri. Mesi dopo, in altro luogo l’ufficiale tedesco si trova nuovamente di fronte l’avversario americano: non ha il coraggio di sparargli, ma la sua generosità gli è fatale.
Set in Montevideo‘s legendary Cinemateca Uruguaya, it is the story about the closure of a cinematheque with the same name due to financial difficulties, and how it affects its film loving middle manager Jorge (played by film critic-turned-actor Jorge Jellinek[4]), who has worked there for 25 years. At first he is overwhelmed by the prospect of having no profession or purpose, and drifts around in Montevideo. But eventually he realises that nothing can kill his love for film, so he ends the day by taking his love interest to the cinema. Although the story is fiction, Cinemateca Uruguaya, which celebrated 50 years in 2012, is besieged by financial problems, and its director Manuel Martínez Carril agreed to play himself in the film.
Dopo la perdita della moglie, Lionel cresce da solo la figlia Josephine, dedicandole ogni pensiero e ogni cura, al termine del turno di lavoro come autista della metropolitana. Jo, studentessa di antropologia, lo ricambia con devozione assoluta, ma Lionel è cosciente che è giunto il momento che si renda più autonoma e cominci a vivere la propria vita. Ogni film ritaglia una fetta spazio-temporale dalla torta di tutte le storie possibili. 35 Rhums, di Claire Denis, ritaglia esattamente lo spazio-tempo sospeso tra il momento in cui la vita precedente dei due protagonisti si è fermata e quella nuova non è ancora cominciata e il momento in cui tutto cambia, senza far rumore. Quando li incontriamo, padre e figlia non sono pronti per il mondo esterno, si proteggono ancora l’un l’altro, cullati dalla musica dei Tindersticks, pronti a farsi famiglia allargata per ospitare il cuore solitario della vicina di pianerottolo e quello palpitante del vicino di sopra, l’unico bianco della compagnia. Jo studia il terzo mondo, ne critica la dipendenza dai paesi sviluppati, cerca tra le carte dei pensatori la via per l’autonomia. Lionel combatte con la dipendenza economica da un lavoro ipnotizzante, in bilico tra accettazione e rassegnazione. Tra loro hanno trovato un equilibrio, fatto di un amore grande e di alcuni gesti piccoli ma sempre presenti -un bacio, uno sfiorarsi di mani- potenziati da una fisicità sconosciuta alla famiglia occidentale. È curioso, come in un film non apparentemente incentrato sulla sceneggiatura e invece fatto di interpretazione e di fotografia (Agnès Godard) dei sentimenti, il colpo di scena ci sia, centralissimo e magistrale turning point, travestito da temporale notturno che manda all’aria un concerto e riunisce i quattro personaggi in un caffé, recidendo improvvisamente la quiete precaria e liberando le passioni trattenute. La bolla che aveva tenuto protetti Jo e il padre scoppia, da un momento all’altro, e il film -fino a quel momento fatto di interni e di abitudini rassicuranti- si avventura allora in un piccolo viaggio fuori strada, sperimenta una notte all’aperto (vero addio al nido), si arrende all’epifania di un futuro che era già presente, bastava solo far scoppiare la bolla. Ma ogni film, come ogni storia d’amore, ha bisogno del suo tempo e a nulla varrebbe forzarlo. Di amore e di libertà, disserta dunque, con profondità e delicatezza, 35 Rhums , e di come è fondamentale che procedano insieme.
Violeta, una ragazzina che vive in un villaggio del Mali, decide di scappare da casa per evitare il matrimonio combinato con un balordo da cui subì molestie da bambina. Intanto nel vicino Niger Buba trascorre le sue giornate tra la passione per il calcio e la necessità di fare il meccanico per vivere. Decide insieme al fratello di tentare una sorte migliore in Europa. Violeta e i due ragazzi si incontrano durante il viaggio verso il Marocco e condividono la meta dello Stretto di Gibilterra, quei 14 chilometri che separano l’Africa dall’Europa. Attraversano l’Algeria con mezzi di fortuna, e a un certo punto si ritrovano soli nel micidiale deserto del Ténéré e sbagliano direzione, incominciando a girare in tondo. È l’inizio di un durissimo cammino. Nel suo secondo lungometraggio di finzione dopo Il grande match, Olivares percorre il dramma dei migranti clandestini che dal Continente Nero vagano in direzione Marocco per raggiungere l’attraente opulenza europea; la tragica illusione dei disperati è che siano i 14 chilometri dello Stretto a separarli dall’ agognata felicità. La macchina da presa stringe su Buba e Violeta, è a loro che rivolge il suo sguardo discreto ma presente, li segue passo passo nella loro estenuante odissea. Del vagheggiato continente europeo vedremo solo la punta più meridionale, Tarifa, la città andalusa dove sbarcheranno i due ragazzi; oltre a questi pochi frangenti, l’Europa è data solo come riflesso nei sogni dei migranti, al regista non interessa metterla a fuoco. È l’Africa che interessa ad Olivares, con le sue contraddizioni e la sua disperazione, è sull’Africa che investe e sembra voler disperatamente gridare che anche i suoi abitanti dovrebbero farlo. La pellicola trasuda amarezza da ogni inquadratura, l’amarezza della fuga dalla propria origine, del voler recidere le radici in nome di un’utopistica vita migliore. La vivida fotografia fatta di tramonti in controluce e spazi naturali incontaminati contribuisce alla poesia di una pellicola che non perde mai la delicatezza di una storia di giovani anime che credono in un sogno che seppur sorretto quasi solo da miraggi, resta ancora possibile. La storia di Buba e Violeta lascia addosso l’aridità del deserto che li ha visti venire al mondo, quel deserto che al contempo li allontana e imprigiona a sé. “Continueranno a vivere e a morire, perchè la storia ha dimostrato che non c’è muro capace di contenere i sogni”; Olivares prende in prestito una riflessione della scrittrice spagnola Rosa Montero, la pone a chiusura del suo lavoro e affida ai sogni il ruolo di unica certezza possibile.
La mafia italo americana vuole mettere le mani sulla macchina del tempo di un geniale inventore! I 3 fantastici Supermen si confronteranno, tra i vicoli e i minareti dell’esotica Istanbul, con pericolosi gangsters per vanificare il criminale piano dei cattivi e portare a termine la missione.
6 “racconti selvaggi” (questo il significato del titolo originale stravolto in quello italiano commercialmente fantozziano): 1) i passeggeri di un aereo in volo scoprono troppo tardi di essere accomunati da relazioni con una stessa persona; 2) la cameriera di un autogrill deve servire l’usuraio che ha rovinato la sua famiglia; 3) un sorpasso ostacolato e un insulto scatenano una faida tra 2 automobilisti; 4) ingegnere esperto di demolizioni col tritolo è ingiustamente multato; 5) ricco imprenditore paga il giardiniere perché si accusi di 2 omicidi colposi commessi da suo figlio; 6) pacchiana festa di nozze si trasforma in un duello rusticano tra gli sposi. Il Leitmotiv apparentemente è la vendetta interpersonale, ma è in realtà la ribellione istintiva dell’individuo al “sistema”, alla civiltà organizzata, alle istituzioni, ai suoi costumi, ai suoi riti, alle sue false comodità tecnologiche, alla sua corruzione. Il 3° lungometraggio dell’argentino Szifrón, anche sceneggiatore, Almodóvar produttore, è un noir ibrido per registro e valore: i primi 3 relatos sono dei pulp di largo consumo, i rimanenti sono graffianti grotteschi con una potente e mirata carica satirica. Su tutti svetta il 4°, il più originale, verosimile e universale: impossibile non immedesimarsi in “Bombito”. Miglior film europeo a San Sebastián, il più visto in Argentina nel 2014
Cile, 1973. Ponzalo Infante e Pedro Machuca sono due bambini di 11 anni che vivono a Santiago, il primo in un quartiere agiato e il secondo in un sobborgo abusivo recentemente costruito poco distante: due mondi separati da una grande muraglia invisibile che alcuni, mossi dal sogno di un mondo migliore, vorrebbero abbattere. Uno di questi sognatori è il direttore di un collegio religioso privato, padre McEnroe, che con l’aiuto dei genitori accoglie nel collegio i bambini di entrambi i quartieri, insegnando loro a rispettarsi reciprocamente. Per questo motivo Pedro e Ponzalo frequentano la stessa classe, e tra i due nasce un’amicizia piena di scoperte e di sorprese. Ma questo intento di aggregazione si scontra con le difficoltà oggettive derivanti dal clima di aperto scontro sociale che regna in Cile a quell’epoca. Un film che sa parlare dei ragazzi e del contesto politico prendendo posizione ma con un profondo rispetto per i temi trattati. La lezione di Arrivederci ragazzi di Louis Malle non è passata invano e questo film può arrivare a commuoverci senza retorica proprio grazie alla sua ‘scrittura’.
Un film di Narciso Ibañez Serrador. Con Lewis Flander, Prunella Ramsone, Antonio Iranzo Titolo originale ¿Quién puede matar a un niño?. Drammatico, durata 92 min. – Spagna1976. MYMONETRO Ma come si può uccidere un bambino? valutazione media: 3,17 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Thomas arriva insieme a sua moglie in un’isola spagnola per trascorrere una vacanza. I due si accorgono che l’isola è popolata solo da bambini. In realtà, gli adulti sono stati uccisi dagli stessi bambini; per salvarsi occorre dunque uccidere i piccoli. È una cosa ripugnante, ma Thomas deve farsi forza.
Oppresso e depresso dalle responsabilità, scienziato nucleare americano trova rifugio a Calabuch, paesino catalano di pescatori, dove, con la pace, trova 928 amici e il piacere della vita. Apologo dolcemente pacifista, insaporito dai dialoghi di Ennio Flaiano, 2 o 3 momenti geniali (la corrida), e il veleno nella coda quando un’intera flotta arriva a prendere in consegna lo scienziato e riportarlo ai suoi laboratori. Premio dell’OCIC (cattolico) alla Mostra di Venezia.
Juan Villegas ha lavorato, per quasi tutta la sua vita, in una stazione di servizio, su una strada deserta della Patagonia, ma è stato licenziato. Durante un pomeriggio assolato, il Caso offre a Juan un lavoretto: la riparazione di una vecchia automobile in una fattoria. La proprietaria è un’anziana signora che, invece di pagare Juan in denaro, gli consegna un cane – di nome Bombòn e di razza Dogo Argentino. Da quel momento la sorte di Juan comincia a cambiare: l’uomo trova un lavoro provvisorio in un magazzino di lana; in seguito, conosce Walter che prepara i cani per le esposizioni e proprio Bombòn vincerà il terzo premio. Un racconto dolce-amaro di personaggi poveri e semplici; una storia ancora minimalista e interpretata da attori non professionisti, per il regista di Piccole storie. Un road-movie dai ritmi lenti come sono i pensieri di Juan che – silenzioso – osserva il mondo disincantato e crudele che lo circonda e come Bombòn, il cane che tutti giudicano forte e aggressivo e che, invece, non riesce ad avvicinarsi ad una femmina. Dicono che i Dogo non provano neanche dolore. Ma non è così: Bombòn, come il suo padrone, è semplicemente estraneo all’insensibilità e alla volgarità.. Bombòn, Juan e tutti quelli come loro sono davvero di “un’altra razza”.
Ennesimo prodotto drammatico-avventuroso basato sul mistero del triangolo “maledetto” delle Bermude (dove inspiegabilmente spariscono natanti e persone). È una pellicola che unisce l’elemento “giallo” allo sfruttamento delle bellezze turistiche del luogo. Di un certo pregio sono le riprese subacquee.
Spagna, 1937. Arruolato a forza nella milizia di Franco, il Clown Stupido fa col machete una strage di franchisti in divisa. Nel 1973, due anni prima della morte del dittatore, suo figlio Javier trova lavoro come Clown Triste in un circo dove incontra Sergio. Spinti da rabbia, disperazione, desiderio i due si battono a morte per la trapezista Natalia, bella e crudele. 7ª regia del basco de la Iglesia che l’ha scritto e prodotto, è una riflessione grottesca e parossistica sulla tetra atmosfera di morte del quarantennio franchista. In altalena tra pop e trash , melodramma, riflessione storica e humour nero, gli omaggi a Fellini e quelli a Tim Burton, non lascia scelta allo spettatore: prendere o lasciare. Leone d’argento e premio alla sceneggiatura a Venezia 2010.
Madrid: José Sirgado, regista di horror di serie B, è in contrasto con il montatore del suo ultimo film, incentrato sulla vita di una vampira; il pomo della discordia è il finale della pellicola, tanto soddisfacente per il regista quanto deludente e tecnicamente poco valido per il montatore. Al suo ritorno a casa, José trova la sua ex fidanzata nonché attrice Ana, con cui aveva litigato e da cui si era separato, in stato d’incoscienza per un probabile uso di droghe; José, anche lui tossicodipendente, si inietta una dose. Aperto un pacco che aveva appena ricevuto, contenente un nastro, una pellicola super 8 ed una chiave, José decide di ascoltare il nastro: la voce narrante è di Pedro, una sua vecchia conoscenza con cui aveva avuto a che fare in due occasioni, entrambe nella casa di campagna di Pedro.
Cesàr è un giovane di successo che cambia continuamente amanti: una sera, a una festa, conosce e si innamora follemente di Sofia, ma il destino ha in serbo per lui un tragico scherzo: tornando a casa si imbatte infatti in una sua ex delusa, Nuria, che esce volontariamente di strada con la sua macchina, trovando la morte, e lasciando Cesàr sfigurato per sempre. In ospedale, il protagonista comincia però ad avere strane visioni e la sua vita cambia radicalmente quando Nuria torna a farsi viva, asserendo di essere Sofia. Clamoroso successo di pubblico in patria, film amatissimo da Tom Cruise che girerà il remake meno riuscito Vanilla Sky (durante la cui lavorazione inizierà la liason con la Cruz che porterà alla dissoluzione del suo decennale matrimonio con Nicole Kidman), Apri gli Occhi è l’affascinante e complessa opera seconda del talentuoso Amenabar: difficile da seguire e comprendere, per il continuo alternarsi di piani narrativi differenti e passaggi tra finzione e realtà, il film rappresenta un’affascinante incursione nel mondo del subconscio, dell’amore, della sfera emozionale che ognuno di noi possiede e che spesso fatica a emergere, affossata com’è dalla banalità del quotidiano: qui un evento tutto sommato comune, ma al contempo straordinario, come una storia d’amore si trasforma in efficace volano per riflettere sulle mille maschere che indossiamo ogni giorno e sui dubbi e le incertezze che attanagliano la nostra società. Impeccabile il cast, Noriega e Cruz in testa, e grande fotografia di Hans Burmann: tra forma e filosofia, vince il sentimento.
Il capitano Hopper (Saxon) libera da un campo di prigionia vietcong i marines Bukowski e Thompson che per sopravvivere agli stenti e alle torture si sono abbandonati perfino ad atti di cannibalismo. Qualche anno dopo, Bukowski, dimesso dall’ospedale psichiatrico di Atlanta dove è stato curato per liberarsi dall’incubo della tragica esperienza, cade improvvisamente vittima dell’irresistibile impulso di nutrirsi di carne umana. Aggredita una donna in un cinematografo, si barrica in un supermercato e soltanto l’intervento di Hopper – accorso in aiuto della polizia – lo dissuade dal commettere una strage. Nuovamente ricoverato in ospedale, Bukowski incontra l’ex commilitone Thompson, tutt’ora affetto da smanie cannibalesche, e insieme con lui scatena il terrore tra le corsie.
Una storia intima, il ritratto di uno spaccato di vita nei Paesi Baschi. Valle d’Arratia, 1999. Ander è un contadino oltre i 40 anni, conduce un’esistenza monotona in un angolo sperduto della Biscaglia con sua sorella Arantxa e la loro vecchia madre. Pensa solo al lavoro, tra i campi e presso la locale fabbrica di biciclette. Il momento in cui dovrà badare da solo alla madre è vicino, perché Arantxa è prossima al matrimonio. Un giorno Ander si rompe una gamba in un incidente e deve restare ingessato per due mesi. Per assisterlo nei suoi lavori, contro il parere della mamma, la famiglia assume un lavoratore immigrato, il peruviano José. L’arrivo dell’uomo sconvolgerà le loro relazioni personali e familiari.
Il transiberiano Pekino-Mosca trasporta l’eccezionale reperto del professor Alexander Saxton: il corpo di un uomo preistorico, risalente a due milioni di anni fa, che testimonierebbe la discendenza dell’uomo dalla scimmia. Durante il viaggio, il rinvenimento del cadavere di un ladro che aveva tentato di forzare la cassa immaginandovi forse nascosto un tesoro – gli occhi della vittima sono prive di pupille – spinge il dottor Wells, rivale di Saxton, e la sua assistente Mrs. Jones ad indagare. Ma le morti si susseguono.
Il titolo originale è Le couperet, che è semplicemente la mannaia. La mannaia che cade spietatamente su chi lavora in un’azienda quando qualcuno decide la ristrutturazione, che significa mandar via più gente possibile. Bruno Davert, chimico cartaceo, molto qualificato, apprezzato, apparentemente al sicuro, si trova dunque senza lavoro. Quarantenne, tenore di vita alto, villetta, cambio biennale di macchina, famiglia felice.Bruno ritiene che si tratti di un intervallo quasi propizio, si guarderà intorno, riposerà, sarà riassunto da un’altra parte. Ma dopo tre anni è ancora disoccupato. E disperato.
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