Morto il fidanzato per overdose, cantante di flamenco si rifugia nel piccolo convento madrileno delle Redentoras Humilladas dove le suore si iniettano eroina, allevano una tigre e molte galline, scrivono sotto pseudonimo romanzetti spinti, s’impegnano in un futuro viaggio in Thailandia come corrieri della droga. Il che non impedisce loro di essere pie, generose, amanti del prossimo. Questo melodramma raffreddato con i veleni del grottesco non è una parodia: i sentimenti di queste donne, suore o peccatrici, sono presi sul serio. È sbracato e divertente a causa della strategia retorica di Almodóvar che spiazza lo spettatore, suscitando in lui “la percezione e l’accettazione di un mondo in cui il disordine eccede e sfida ogni ricomposizione” (A. Wilde), strategia che sarebbe uno dei caratteri del postmoderno. Maciullato dalla distribuzione (e dalla censura) italiana.
C’è una truccatrice che deve fare i conti con le sindromi del suo partner il cui padre ha ucciso la madre. C’è un pornodivo che stupra fanciulle. C’è una reporter TV in cerca di storie trucide da inserire nel suo show. E le storie si intrecciano. 10° film di Almodóvar, uscito in Italia con un ritardo di 2 anni: una feroce, grottesca, violenta satira sui mass media all’insegna del Kitsch premeditato. La mano del più interessante autore del cinema spagnolo si sente, ma anche la maniera. L’operazione è solo parzialmente riuscita.
Becky (Paredes), diva della canzone, torna a Madrid, dopo anni di successo in Messico, e rivede la figlia Rebecca (Abril) annunciatrice di un telegiornale. Quando suo marito, ex amante di Becky, è assassinato, un giudice (Bosé) dalla doppia vita indaga, senza credere alla confessione che Rebecca fa in diretta TV. In questo falso melodramma dai personaggi eccentrici Almodóvar combina sapientemente la leggerezza ironica del tocco e la gravità dolorosa dei tempi tenendo lo spettatore sulla corda. Musiche del giapponese Ryuichi Sakamoto.
Pepi coltiva pianticelle di marijuana sul balcone. Un poliziotto la scopre e accetta di non denunciarla in cambio della sua verginità. Per vendicarsi, Pepi chiede aiuto all’amica Bom che seduce la moglie masochista del poliziotto e lo fa bastonare dagli amici, che sbagliano e pestano il suo gemello. Opera prima del trasgressivo regista spagnolo, ex impiegato della SIP, omosessuale e rockettaro, girata in 16 mm nel 1978, è un divertente, caotico, ironico quadro di un microcosmo che riesce a far ridere, a scandalizzare o imbarazzare con canagliesca grazia amorale.
La preparazione del trasloco riporta la 50enne Julieta al passato: decide così di non partire più con il suo compagno e scrive invece una lettera alla figlia che non vede da 13 anni per raccontarle la storia del suo amore per Xoan e della sua scomparsa. In concorso al 69° Festival di Cannes, è un carrozzone di personaggi in coma, incidenti letali, abbandoni, egoismi, mali incurabili, solitudine, ripicche. Il filo che li lega è un devastante senso di colpa che punisce per ogni peccato e annienta per ogni piccola gioia. Almodóvar scrive una sceneggiatura ispirata a 3 storie di Alice Munro – Fatalità , Fra poco e Silenzio – e dirige i personaggi quasi prendendone le distanze, in una storia greve, una tragedia della realtà, con una recitazione volutamente secca, asciutta, quasi monocorde. La singhiozzante musica di Alberto Iglesias non basta a zuccherare un film intriso di solitudine, dolore, depressione.
Una donna sta per essere abbandonata dal suo amante, un famoso doppiatore cinematografico. Mentre cerca di rintracciarlo s’imbatte nel figlio dell’amante, in un’amica che crede di essere inseguita dalla polizia e infine nella nuova fiamma del suo ex. Il film ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar, ha vinto un premio ai Nastri d’Argento, Il film è stato premiato al Festival di Venezia, 1 candidatura a Golden Globes,
Il nucleo centrale del quarto lungometraggio del regista spagnolo Almodovar è rappresentato da Gloria, casalinga tutta casa e cucina. Vive col marito tassista un’esistenza miseranda e ha accumulato una grande frustrazione. È la sfortuna in persona. Non è però un film drammatico secondo la follia del suo autore, è una parodia che non manca di evidenziare aspetti emblematici di quotidianità, e il dramma esiste.
Da quando sua moglie è morta, arsa viva in un incidente d’auto, Robert Ledgard, chirurgo plastico, dedica la vita alle ricerche su una pelle artificiale, sensibile alle carezze, ma resistente alle ustioni. Ha bisogno di una cavia e di un complice. La cavia è Vicente, un ragazzo che ha violentato sua figlia Norma (Suárez) e che Robert fa prigioniero. Il complice è la fedele Marilia che l’ha visto crescere fin dalla nascita. Lo stesso Ledgard vive quasi prigioniero della sua fastosa casa El Cigarral, piena di specchi e di videocamere a circuito chiuso accese 24 ore su 24. Liberamente ispirato al romanzo Tarantula di Thierry Jonquet, è un film manierista e tortuoso in cui il 60enne Almodóvar mescola abilmente thriller e melodramma, fantascienza e horror, ricco di flashback e citazioni cinefile che comprendono Buñuel, Hitchcock, Fritz Lang e Georges Franju. La pelle come vestito in un film con molti vestiti.
Un uomo vive, scrive e ama al buio. 14 anni prima, in un incidente d’auto nell’isola di Lanzarote, ha perso la vista e (Magda)Lena, il grande amore della sua vita. Campa con sceneggiature, aiutato da Judit, sua fidata produttrice esecutiva, e da Diego, figlio di lei, dattilografo e guida per ciechi, al quale racconta la storia di Lena e di Ernesto Martel. Opus n. 17, è un melodramma metacinematografico, ma anche una commedia con risvolti di noir e parentesi grottesche su molti temi: fatalità, gelosia, abuso di potere, vendetta, tradimento, sensi di colpa. Nella struttura narrativa c’è il Leitmotiv della duplicazione (o sdoppiamento): 2 i nomi del protagonista; Ernesto Martel padre e figlio; il film ( Chicas y maletas ) nel film; 2 personaggi di P. Cruz; un uomo e una donna abbracciati e sommersi dalla lava del Vesuvio a Pompei, citazione di Viaggio in Italia di Rossellini. Debole la sezione maschile degli attori e in quella femminile la Portillo è più intensa della Cruz, con o senza parrucca bionda. Il cinefilo regista manchego dedica cammei alle sue fedeli Angela Molina, Rossy De Palma, Chus Lampreave, Lola Duenas. Almeno 2 sequenze notevoli e molti momenti significativi, ma la delusione di fondo rimane.
Leocadia Marcia detta Leo che, con lo pseudonimo di Amanda Oris, scrive romanzi rosa di successo, sprofonda in una duplice crisi: sta per essere abbandonata dal marito amatissimo e non ne può più di scrivere romanzetti. Tenta il suicidio, elabora il lutto, riscopre le proprie radici, raggiungendo la madre nel villaggio natio della Mancha (patria del regista e di Don Chisciotte). Un Almodóvar più limpido del solito, come riconciliato, in una commedia spruzzata, invece che intinta, di grottesco che vive della sua dolorante eroina e dei suoi rapporti con gli altri personaggi, specialmente femminili, raccontati con affetto, tenera ironia, leggerezza.
Madrid: Manuela ha un figlio di diciassette anni che muore travolto dalla macchina su cui viaggia una famosa attrice impegnata nella pièce Un tram che si chiama desiderio. Manuela decide di trovare il padre del ragazzo che vive a Barcellona ed è diventato Lola, un travestito. La donna incontra Agrado, altro travestito, che fa la vita e conosce anche l’attrice indiretta responsabile della morte del figlio. Vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, Tutto su mia madre è una perfetta fusione di passione per l’arte (a partire ovviamente dal cinema da cui si prende esplicitamente in prestito il titolo riferendosi a All About Eve). E’ proprio a un’icona che Almodovar ama come Bette Davis che il film si ispira per raccontare quello che in altre mani sarebbe potuto diventare (avendone in nuce tutte le potenzialità) un melodramma di bassa caratura. Pedro vi trasfonde (come quella flebo che vediamo in dettaglio in apertura) tutta la propria sensibilità. Le variabili sessuali di genere non sono per lui un problema ma anzi una fonte di ispirazione che riesce anche a tenere a distanza dall’altro temibile rischio: quello di un’algida referenzialità cinefila. E’ un film carico di umanità ma anche di sorprese quello che Almodovar propone agli spettatori. Si tratta di scoperte che vanno fatte passo passo insieme a Manuela (interpretata dall’argentina Cecilia Roth) perché ognuna di esse, anche quella più sopra le righe, apporta una nuova consapevolezza ai personaggi e favorisce un’empatia con mondi che il regista conosce e ama nella loro complessa contraddittorietà.
Dimesso da una clinica psichiatrica, orfanello sequestra nel suo stesso appartamento una pornostar di cui è invaghito e la lega al letto, con lo scopo di darle il tempo di conoscerlo in modo che s’innamori di lui e lo sposi. Storia d’amore mimetizzata, in altalena tra commedia e melodramma, ammirabile per lo spessore dei personaggi, le accelerazioni di ritmo, l’umore beffardo delle scene erotiche e del modo con cui mette in discussione la nozione di normalità. Divertente specialmente nella 1ª mezz’ora. Diseguale, ma effervescente.
Raimunda, una giovane madre de la Mancha, trova rifugio dal suo passato a Madrid, dove vive col suo compagno Paco e la figlia adolescente, Paula. Durante un tentativo di abuso da parte del patrigno, Paula lo pugnala a morte. Scoperta la tragedia, Raimunda ‘abbraccia’ la figlia e la legittima difesa, coprendo l’omicidio e occultando il cadavere. Questo evento disgraziato rievoca fantasmi dolorosi e mai svaniti. Dall’aldilà torna Irene, sua madre, a chiederle perdono e a riparare la colpa. A tornare in questo film di Almodóvar, come suggerisce il titolo, sono anche le sue attrici: ritorna Carmen Maura, non più donna sull’orlo di una crisi di nervi ma fantasma sull’orlo dell’aldiquà; ritorna Penélope Cruz, figlia e madre dopo Tutto su mia madre. Qualcuno ritorna e a qualcosa si ritorna: al cinema degli esordi, Che ho fatto io per meritare questo?, film di ambientazione popolare così prossimo a Volver, dove Carmen Maura esasperata uccideva il marito fedifrago; alla terra, la Mancha, regione dei mulini a vento e del picaresco su cui soffia incessantemente il solano, il vento dell’ovest che rende pazzi e che incendia boschi e cuori. Terra mancega, che ha generato Almodóvar, per un film mancego, che ha concepito cinque profili femminili rivelatori, in atto o anche solo in potenza, della grazia della maternità. Condizione femminile che comprende simultaneamente il materno e il natio, l’origine, il luogo in cui tutto comincia e a cui tutto ritorna. Madri, figlie e sorelle che bussano alla porta accanto dove trovano vicine generose e singolari come Augustine, che non manca mai di soccorrere, di solidarizzare e di contribuire all’economia anche affettiva della famiglia protagonista. Le donne sembrano bastare e bastarsi in questo film al femminile, dove gli uomini sono portatori di un dolore ancestrale che impongono incuranti a mogli, figlie e nipoti. Almodóvar le riunisce tutte insieme, chiamandole al di qua dall’aldilà, intorno ai tavoli, lungo i fiumi, dal parrucchiere, affinché i morti assistano i vivi, affinché le madri accudiscano le proprie figlie, “bellissime”, come quella viscontiana della Magnani che Carmen Maura guarda alla televisione. Una stella per la grazia creativa di Almodóvar, un’altra per la “resurrezione” di Carmen Maura e due per gli occhi neri di Penélope, quando lacrimano e quando si colmano senza versarsi.
Cinque personaggi e una città, Madrid, che è il 6° personaggio. Nel 1990, vent’anni dopo essere avventurosamente nato su un autobus nella capitale deserta per il Natale, Victor (Rabal) s’innamora della ricca, viziata e tossica Elena (Neri) e ingiustamente finisce in prigione per aver ridotto a paraplegico con una revolverata il poliziotto David (Bardem), in realtà ferito dal suo collega Sancho (J. Sancho). Scarcerato dopo 4 anni, Victor diventa prima l’amante di Clara (Molina), moglie di Sancho, e poi di Elena, rinsavita e moglie di David. Sancho uccide Clara e si suicida. David emigra. A Natale Elena, incinta di Victor, ha le doglie. Opus n° 12 di P. Almodóvar, è un film maturo e complesso, attraversato da uno humour nero alla Buñuel (esplicitamente citato con immagini di Estasi di un delitto ). Cinemascope molto fisico e palpitante (che è la corretta traduzione del “trémula” originale) nella messinscena del piacere sessuale condiviso, è un melodramma geometrico che svaria dalla commedia alla tragedia, dal grottesco al noir, cromaticamente dominato dal rosso, ricco d’invenzioni e recitato benissimo, con una dimensione politica inedita nel regista. Liberamente ispirato al romanzo Live Flesh di Ruth Rendell.
A Toledo nel 1929 un’orfana viene affidata a un anziano tutore che ne fa la sua amante. Innamoratasi di un pittore fugge con lui, si ammala, perde una gamba attaccata dalla cancrena, ritorna e accetta di sposare il vecchio. Gliela farà pagare. Tratto, come Nazarín, da un romanzo (1892) di Benito Pérez Galdós, è la storia impietosa di una liberazione mancata e di un’opera di corruzione in cui la vittima, imparata la lezione di ipocrisia e crudeltà, si trasforma in carnefice. “La complessità stilistica si riflette … nella poliedricità dei due personaggi principali” (G. Tinazzi). Soltanto una sequenza onirica in questo film ammirevole per la calma lentezza della sua concisione che, nella trasparenza di un equilibrato e oggettivo classicismo, stimola, affascinandola, la curiosità dello spettatore.
Josè non è mai stato un gran lavoratore e da quando la moglie lo ha lasciato può vedere solo ogni tanto il figlio piccolo, così decide di portarlo con sè in una rapina al termine della quale, dopo un lungo inseguimento in auto, i due assieme al complice, l’autista del taxi che hanno sequestrato e un ostaggio finiranno in un paese di streghe nel tentativo di espatriare in Francia. Le streghe in questione sono interessate al bambino piccolo, perfetto per un rituale che progettano da tempo e meditano di mangiare gli altri uomini in un grande banchetto, se non fosse che la più giovane di loro si è invaghita di Josè.
Vincitore degli 8 principali premi Goya (tra cui regia, sceneggiatura, 3 attori), 15 milioni di euro di incassi in Spagna. Nella sezione di sicurezza della prigione di Zamora scoppia una rivolta, mentre un giovane agente è in visita il giorno prima di prendere servizio. Colto da malore, è messo in fretta nella cella vuota 211. Si spaccia per un detenuto nuovo, conquista la fiducia e l’amicizia di Malamadre, capo della rivolta.
Marco è un giornalista specialista in guide turistiche, Benigno un infermiere generoso, perfetto. Quest’ultimo da quattro anni si prende cura di Alicia, (ex) ballerina, in coma. Marco ha una relazione con Lidya, torera, che ben presto raggiunge Alicia nello stesso ospedale, ridotta a sua volta in coma. Benigno parla con la sua paziente come se fosse cosciente, le racconta tutto, vita quotidiana, pensieri, spettacoli. Marco, meno fantasioso, si limita a guardare piangendo. Benigno (mai avute donne, forse gay), gli insegna a “parlare con lei”, appunto. Il film prende sentieri imprevedibili, sconcertanti, allarmanti. Alicia (le cui funzioni vitali sono comunque integre) viene scoperta incinta. Il “colpevole” è naturalmente Benigno, che finisce in prigione. Marco, sempre più coinvolto, lo sostiene a oltranza. Miracolosamente Alicia, il cui bimbo è morto subito, esce dal coma, ma Benigno non dovrà mai saperlo, così l’infelice infermiere si suicida. Il caso (un balletto), vuole che Alicia e Marco si incontrino. Premesse e sguardi sono dolci e promettenti, ci saranno sviluppi. Gli aggettivi usati sopra “imprevedibile, sconcertante, allarmante” aderiscono benissimo ad Almodovar. Dopo lo straordinario Tutto su mia madre il regista si lascia andare in una storia umano-melò-grottesca a suo modo perfetta. Estremizzazioni che solo Pedro può farsi perdonare. Sviluppi che affosserebbero qualsiasi altro autore. Regia talmente complessa da essere semplice e subito decifrabile, ironia, insomma tutte le cifre che appartengono al più grande autore (con Wenders) di cinema europeo. Con inserti di fantasia superiore, come il “muto” ricostruito dove un uomo reso piccolissimo da una pozione entra in una vagina per non uscirne mai più: è la premessa, non fine a se stessa, ma “strumentale” per innescare la stranissima maternità che seguirà. Presente anche la solita forte umanità e l’amore per il vivere anche quando il vivere è disperato. Il film comincia e finisce con le immagini di teatrodanza di Pina Bausch.
Bella orfana, decisa a farsi suora, è ospitata in casa di un ricco zio che, dopo aver cercato di usarle violenza, s’impicca. Erede del suo castello, si dedica a opere di carità cristiana, ma è derisa dai suoi beneficiati. 1° film girato in Spagna da Buñuel dopo 30 anni d’esilio, ebbe la Palma d’oro a Cannes ex aequo con L’inverno ti farà tornare di H. Colpi, fu proibito in Spagna, attaccato dal Vaticano come “insulto alla religione cristiana”, specialmente per la scena blasfema dell'”ultima cena”, modellata su quella di Leonardo. Nonostante la sua innegabile carica eversiva, non è un film a tesi, ma un racconto di schema melodrammatico, ai limiti del romanzo d’appendice, dove i tipici temi privati buñueliani (religione, erotismo, feticismo, masochismo, movimenti dell’inconscio) s’innestano sul fondo sociale della vecchia proprietà terriera in decadenza cui succede una borghesia più efficiente. Scritto da Buñuel con Julio Alejandro de Castro. Händel (Il Messia), Beethoven (Sinfonia N. 9) e Mozart (Requiem) nella colonna musicale.
Gil (sceneggiatore hollywoodiano con aspirazioni da scrittore) e la sua futura sposa Inez sono in vacanza a Parigi con i piuttosto invadenti genitori di lei. Gil è già stato nella Ville Lumiêre e ne è da sempre affascinato. Lo sarà ancor di più quando una sera, a mezzanotte, si troverà catapultato nella Parigi degli Anni Venti con tutto il suo fervore culturale. Farà in modo di prolungare il piacere degli incontri con Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso e tutto il milieu culturale del tempo cercando di fare in modo che il ‘miracolo’ si ripeta ogni notte. Suscitando così i dubbi del futuro suocero.
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