I coraggiosi figli di Khevsureti e Kisteti combattono l’uno contro l’altro per proteggere le proprie terre. Ma affrontano tradizioni domestiche errate per rispettare la vera abilità del nemico e si trovano in conflitto con i propri compatrioti.
1ª parte di una trilogia diretta dal 60enne russo Bodrov, in bilico tra storia e leggenda, sulla vita di Gengis Khan (1155 o 1167-1227), principe mongolo. Riconosciuto nel 1206 capo delle tribù tartare, le organizzò in un potente esercito col quale creò un impero dalla Cina settentrionale al Mar Caspio. Nella 1ª metà del film Temugin – il suo vero nome – è un ragazzo che, ucciso il padre da una tribù nemica, è ridotto in schiavitù. Evaso, vive miseramente con la madre e i fratelli in attesa di sposarsi. Girato tra le steppe senza fine dell’Asia centrale (Kazakistan e Cina occidentale), quest’inizio è affascinante, in chiave di heroic fantasy , per la rievocazione della vita nomade, la brutalità delle situazioni, la colonna sonora e musicale in una lingua sconosciuta. Nella 2ª parte del film comincia l’ascesa al potere di Temugin, mentre si dà spazio a Borte, la sposa scelta quand’era ragazzino. Emerge la personalità del futuro Gengis Khan: energia, astuzia, crudeltà ma anche un innato senso di giustizia. Col ricorso agli effetti digitali diventa spettacolare e cala il suo fascino. Imponente la battaglia contro la tribù dei Merkit che combattono col volto coperto da maschere spaventose. Scritto dal regista con Sergej Aliyev.
Genia è un delinquente di origine lituana che dai porti della Francia fa da corriere della droga per la mafia russa. Rimasto senza denaro, decide di recarsi a Mosca per recuperare dei soldi dai suoi boss e di lasciare a Parigi la fidanzata Gabrielle, che nel frattempo per bisogno di denaro si concede a un altro uomo conosciuto in un club. Giusto a est, Genia riprende contatto con una vecchia fiamma, la prostituta Sasha e, dopo aver ucciso uno dei boss mafiosi per sottrargli il denaro, intraprende con lei una fuga precipitosa per fare rientro in Francia.
Nel 1946 il medico Aleksej Golovin (Menshikov) è uno dei russi “bianchi” emigrati (da 3000 a 12 000 in Francia) che rispondono all’appello di Stalin per il rientro nell’URSS. A Odessa dove arriva con la moglie francese Marie (Bonnaire) e un figlio, scopre che i rimpatriati sono processati o deportati nei campi di lavoro. Aleksej, invece, è destinato a un dispensario di Kiev. Dopo la morte di Stalin (1879-1953), Marie, uscita dal gulag, riesce, con l’appoggio del marito e l’aiuto di una famosa attrice francese (Deneuve), a tornare in Francia. Su una sceneggiatura scritta con Louis Gardel e due russi (Rustam Ibraguimbenkov e Sergej Bodrov), Wargnier, regista di pochi film e molti premi, ha diretto il suo 5° e più ambizioso film nelle cadenze di un melodramma politico, lordato di violente passioni, espresse in linguaggio pomposo e fondato su una schematica denuncia del socialismo reale e dello stalinismo.
Vincent (Blanchet), potente ministro, costretto a dare le dimissioni per una cantonata politica, ricomincia a vivere. Perde la giovane amante, si fa cacciare dalla moglie, scopre la sua casa invasa da famiglie nordafricane, recupera la vecchia madre (Piccoli!), riaggancia le ex amichette, riprende il giro dei bar con i vecchi amici, riscopre i piaceri della pigrizia pensante. Intanto il suo successore assaggia l’ebrietà e le incertezze del potere. Può sembrare una favola poetizzante e leziosa, un po’ demagogica, avulsa dal mondo e dalla realtà sociale, ma è semplicemente una commedia controcorrente, in linea con tutti i film passati di questo georgiano, trapiantato a Parigi negli anni ’80, che ha il genio della scrittura leggera e non crede nel progresso, ma nemmeno nel catastrofismo nichilista oggi di moda. Sembra, la sua, una facile disinvoltura, ma soltanto per chi non sa coglierne la ricchezza musicale delle situazioni, impregnate di una buffoneria sottile, affidata ai gesti e ai comportamenti più che ai dialoghi. Non è forse spiazzante il suo bestiario, la galleria degli animali, buffi perché fuori dal loro contesto (asini, tucani, ghepardi, bisonti)? Dietro l’apparente frivolezza del racconto “c’è una sorta di tessitura molto compatta, la confezione di una trama fine, densa, quella di un vestito ideato da un sarto artista e filosofo” (J.-F. Rauger).
Disposta su 4 piani temporali – il Medioevo in Georgia; gli anni della rivoluzione bolscevica; quelli dello stalinismo in Russia; il presente a Parigi e in Georgia – dove, in un fitto e fluido intersecarsi, ritornano gli stessi attori-personaggi in panni diversi, questa ilare e nerissima tragicommedia ha per protagonisti gli uomini del potere (re, boiardi, rivoluzionari, uomini della nomenclatura comunista) che oggi si sono trasformati in mafiosi, fanatici nazionalisti, uomini d’affari, insomma briganti che saccheggiano legalmente le ricchezze del Paese. Iosseliani torna in patria, senza staccarsi da Parigi, per regolare i conti con il socialismo reale e, più in generale, con il tempo sporco della Storia. Nelle cadenze dolorose eppure piane e lievi di una parabola che attinge linfa dal realismo fantastico della letteratura russa (Bulgakov più che Gogol), questo suo 7° film è anche il 1° esplicitamente politico, dunque il suo 1° film violento. Il tema centrale è la crudeltà e l’insensatezza del potere, di qualsiasi potere. Cara da sempre al regista, l’idea della ripetitività o della circolarità regge la storia degli uomini (delle crudeltà umane), e lo stesso film. Passano i secoli, gli uomini non cambiano. In questa lezione di storia che è anche una lezione di cinema, conta il mondo, cioè lo stile di Iosseliani: leggerezza, calma, ironia tragica. Conta il suo sguardo. Non più di 200 inquadrature, piane e calcolatissime, senza primi piani, con pochi dialoghi e semplici, grande attenzione ai rumori, alla musica, ai canti. “La vera commedia è sempre fondata sul dolore” (O. Iosseliani). Gran Premio Speciale della giuria a Venezia 1996.
Un film di Mikhail Kalatozov. Con Betty Luz María Collazo, José Gallaro, Sergio Corrieri, Mario Gonzales Broche, Raúl García Titolo originale Soy Cuba: Ya Kuba. Documentario, b/n durata 141 min. – Cuba, Russia 1964. uscita venerdì 7ottobre 2005. MYMONETRO Soy Cuba valutazione media: 3,25 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari
Produzione sovietico-cubana che illustra l’evoluzione di Cuba dal regime di Batista alla rivoluzione di Fidel Castro. Girato nel 1964, in piena guerra fredda, questo film di propaganda ferocemente anti-americano denuncia il capitalismo e le sue conseguenze disastrose sull’isola caraibica.
L’opera, un flusso ininterrotto di immagini liriche ed oniriche collegate secondo un procedimento analogico, è stata realizzata con diversi tipi di disegni e di découpage animato. Da segnalare anche la colonna sonora con musiche di Johann Sebastian Bach e di Wolfgang Amadeus Mozart.
Jack Malik è un musicista di scarso successo. In lui crede solo Ellie, manager, amica e forse qualcosa in più, benché inespresso. Finché una sera, dopo che ha deciso di smettere con la musica e cercare un lavoro più regolare, Jack ha un incidente e perde coscienza durante un blackout planetario. Quando si sveglia, scopre che il mondo è stato privato delle canzoni dei Beatles e che lui è rimasto il solo a ricordarle.
Irreperibile (a quanto ci risulta) sul mercato occidentale, il film racconta di un’umanità sopravvissuta allo scioglimento dei ghiacci polari, dilaniata da una nuova forma di lotta di classe nella quale i reietti sono una massa di poveri mutanti confinati dal potere – ostile da sempre ad ogni forma di deviazione – in campi di concentramento. Un uomo in viaggio di studio tra i musei scampati alla distruzione è lo spaventato testimone, prima, e il generoso portavoce, poi, delle loro rivendicazioni. Konstantin Lopushansky (regista anche di Quell’ultimo giorno) è stato premiato per questo film all’International Film Festival di Mosca del 1989. Citata nelle filmografie americane come Visitor of a Museum, in Germania la pellicola ha per titolo Der Museumsbesucher
Studente liceale ribelle e assai problematico, non supportato né dalla famiglia né dalla scuola (entrambi incapaci di gestire, contenere, aiutare le turbolenze adolescenziali del ragazzo), parte per una tangente religiosa fanatica, violenta e repressiva che porterà gravi conseguenze. Dovrebbe essere materia di studio di psicanalisti intelligenti questo tremendo film, dove si legge tra le righe una spaventosa repressione sessuale (da parte della famiglia, della religione, della società) all’origine dei comportamenti deviati e devianti del giovane. Peccato che, invece, non si approfondiscano questi aspetti e si concluda la vicenda in modo sbrigativo e inevitabilmente riduttivo.
Praga, 1988. L’anziano Louka (Sv(3 rák), esimio violoncellista disoccupato, indebitato e scapolo sottaniere, accetta per denaro di sposare una russa (Safranková), madre di Kolja (Chalimon) di 5 anni, per permetterle di acquisire la cittadinanza ceca. Ottenutala, la donna se ne va in Germania, lasciando Kolja alla nonna che, però, ha un infarto e muore. Kolja, che non sa il ceco, passa a Louka, che non parla il russo. Rapporto difficile. Opus n. 4 di J. Sv(3 rák, figlio del protagonista Z. Sv(3 rák, noto attore ceco di commedia, è un film – piccolo, in apparenza, ma ricco a livello tematico e stilistico – sul mestiere (l’arte?) della paternità. Qui è acquisita e provvisoria, ma pur feconda di cambiamenti: nella vita del violoncellista Kolja è un segno straordinario che si manifesta nel quotidiano e ne permette la mutazione. Discutibile edizione italiana della Lucky Red, con Omero Antonutti che dà una voce troppo intristita al protagonista. Oscar 1997 per il film straniero.
Un film di Dziga Vertov. Titolo originale Celovek s kinoapparatum. Documentario, b/n durata 64′ min. – Russia 1929. MYMONETRO L’uomo con la macchina da presa valutazione media: 3,70 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
L’uomo con la macchina da presa è il monumento del cinema costruttivista sovietico, un vorticoso mosaico sull’utopia dell’uomo-macchina e di un mondo nuovo. Nonostante la sua indiscussa reputazione, questo classico del cinema muto non è mai stato mostrato con la musica che lo stesso Vertov aveva immaginato per il film, e che fu eseguita soltanto alla sua prima uscita. I nostri agenti di Mosca hanno scovato il manoscritto negli Archivi di Stato; dopo averlo letto, abbiamo pensato che la Alloy Orchestra (già vista all’opera con Sylvester al Festival di Telluride e, lo scorso anno, con Lonesome) fosse l’approdo ideale per il visionario progetto di Vertov. Il risultato è un’abbagliante, distorta sinfonia di musica concreta, trasmissioni radio e danze popolari, un’esperienza sonora esplosiva per un film destinato a celebrare la bellezza del caos. -PCU Il suono nell’Uomo con la macchina da presa è ben più di un’illustrazione alle immagini. Nella visione futuribile di Vertov, il cinema si sarebbe fuso con la radio allo scopo di mettere in contatto i proletari di tutto il mondo, infrangendo così le frontiere e annullando le distanze: “L’uomo con la macchina da presa, scrisse lo stesso Vertov nel 1929, costituisce il passaggio dal cine-occhio al radio-occhio”. In effetti, il film diviene una sorta di radio-occhio grazie a una serie di immagini sonore durante la sequenza dedicata a un dopolavoro del futuro, con visioni sovrapposte a un altoparlante in primo piano. -NT -PCU -YT
Farmer Ivan Dunaev gets up early. He feeds his piglets, does paperwork, fixes the tractor, and weighs the meat he’ll take in his old pickup truck to the market to sell. He has a wife, a teenage daughter, and a young son. And he loves to hunt. His world revolves around these things. Then, one day, two new workers, Lyuba and Raya, on work release from the local prison colony, arrive on the farm. Ivan doesn’t notice it at first, but something begins to change.
Lesha Shultes, è un ex atleta di venticinque anni che, rimasto gravemente ferito in un incidente d’auto, è diventato borseggiatore. E questo è il solo modo in cui comunica con il mondo esterno. Vive con la madre ammalata, ruba, e ogni tanto va a trovare suo fratello minore che è nell’esercito. Nella vita di Shultes non c’è spazio per l’amore, l’amicizia, l’affetto. Il suo unico scambio sentimentale si verifica quando riceve una cassetta da una ragazza che lui ha derubato. Questo contatto con la vita e i sentimenti di una straniera lo spingono a prendere una decisione rischiosa.
Commedia dell’est nello stile di Kusturica (che pare abbia apprezzato il film). Una ragazza vive col padre vedovo e il fratello reduce di guerra. Sogna di fare l’attrice e ingenuamente si fa sedurre da un giovane che si finge amico di Tom Cruise. Tra un tentativo di aborto e la caccia al seduttore una serie di discrete immagini visionarie.
Marina è una donna che ha tutto, la bellezza, l’amore di un marito, una bella casa nel centro della città, la passione per un lavoro socialmente utile, è assistente sociale, si occupa di bambini che vivono in famiglie problematiche. Così, almeno, è quel che dicono e pensano di lei, amici e conoscenti. In realtà la giovane sta vivendo una piena crisi matrimoniale, ma anche professionale. Una sera, di ritorno a casa, Marina viene aggredita per strada e poi stuprata. Soccorsa da un passante, la donna non fa alcuna denuncia, decide tuttavia di mettersi sulle tracce dello stupratore.
Zhenya e Boris hanno deciso di divorziare. Non si tratta però di una separazione pacifica, carica com’è di rancori, risentimenti e recriminazioni. Entrambi hanno già un nuovo partner con cui iniziare una nuova fase della loro vita. C’è però un ostacolo difficile da superare: il futuro di Alyosha, il loro figlio dodicenne, che nessuno dei due ha mai veramente amato. Il bambino un giorno scompare. Andrey Zvyagintsev fin dalla sua prima comparsa sugli schermi internazionali con Il ritorno ha avuto modo di farsi notare. Quel film gli valse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia anche se aveva qualche debito di troppo con Maestri come Tarkovsky e Sokurov.
Elena e Vladimir sono una coppia di anziani. Lui è un signore benestante e freddo, lei ha origini più umili ed è una moglie docile. Si sono incontrati quando erano già avanti negli anni ed entrambi hanno figli nati da altri matrimoni. Il figlio di Elena è disoccupato, incapace di mantenere la propria famiglia e chiede di continuo soldi alla madre. La figlia di Vladimir è una giovane donna che col padre ha un rapporto distante. Un giorno Vladimir ha un attacco di cuore e viene ricoverato in ospedale. Mentre si trova lì, capisce che gli rimane poco tempo. Un breve, ma a suo modo tenero, incontro con la figlia lo porta a prendere una decisione importante: sarà lei l’unica erede della sua fortuna. Una volta dimesso e tornato a casa, lo comunica alla moglie, che si rende conto d’un tratto che le sue speranze di aiutare finanziariamente il figlio sono vane. E così la timida e sottomessa casalinga si inventa un piano per dare al figlio e ai nipoti un’opportunità reale di avere una vita migliore.
Kolia vive in una remota località rurale nel nord della Russia, vicino al mare. In quel piccolo paese un sindaco prepotente e corrotto ha deciso di volere per sè le terre di Kolia e cerca quindi di comprarle. Ex-militare e uomo dal temperamento violento e coriaceo, Kolia non solo non accetta ma si scaglia con violenza in una causa legale per mettere in mutande il sindaco stesso. Ad aiutarlo c’è un amico, avvocato di Mosca, con lui sotto le armi e molto determinato nel fermare quest’abuso. Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in Dio (e figuriamoci nella Chiesa!). I disastri nella vita del protagonista infatti si susseguono uno dopo l’altro ma non è tanto la volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente l’accanimento del sindaco cioè della forma minore di potere statale che si possa incontrare.
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