Nel 1663 il gesuita António Vieira (1608-97), celebre predicatore, è convocato a Coimbra dal tribunale dell’Inquisizione dove rievoca il soggiorno giovanile in Brasile e l’adesione alla causa degli indigeni. Impedito di predicare, si rifugia a Roma, si fa stimare dal Papa e dalla regina Cristina di Svezia, ma sente la nostalgia della patria dove il nuovo re João IV lo accoglie freddamente. Va a morire in Brasile. M. de Oliveira ha sempre fatto un cinema di Parola e di Utopia. Su Vieira (impersonato, in ordine cronologico discendente, da L. Duarte, L.M. Cintra e R. Trepa), definito da F. Pessoa “imperatore della lingua portoghese” e “maestro della forma e della visione”, ha fatto un film che, più che storico e biografico, è un autoritratto per transfert, un confronto tra il retore più famoso del Seicento e il cineasta più letterario del Novecento. Fotografia di Renato Berta, musiche di Carlo Paredes e Massimo Scapin.
Dal dramma El-Rei Sebastião (1949) di José Régio cui M. de Oliveira s’era già ispirato in Benilde ou a Virgem Mãe e Mon Cas (1985). Sebastião (1554-78), nipote di Carlo V d’Austria, giovane re del Portogallo “nato ferito a morte”, è ossessionato dalla missione di unificare il mondo in un impero universale cattolico, impegnando il suo esercito in una nuova crociata (l’ultima) contro i Mori. Inutilmente sua zia Catarina e alcuni anziani consiglieri cercano di dissuaderlo. L’anziano “Calzolaio santo” lo incoraggia a realizzare il suo sogno, annunciandogli profeticamente che, scomparendo nella battaglia di Alcucér-Quibir (4-8-1578), diventerà il Re Nascosto o Velato ( encoberto ), cioè il mito di un sovrano messianico che tornerà a restaurare l’impero del Portogallo (il quinto dopo quelli greco, romano, cristiano e inglese). In questo film tenebroso e claustrofobico, tutto chiuso nel labirintico castello reale, Oliveira continua – oggi come ieri – il suo cinema di parola (non raffreddata: “scolpita”) di magnifica leggibile eleganza all’insegna di una triade (parole, immagini, tensione utopica) percorsa da una leggera brezza di ironia. Come il solito, prodotto da Paulo Branco.
Antonio, figlio di ricchi proprietari terrieri nei pressi di Porto, e José Feliciano detto Toro Azzurro, figlio della domestica Celsa, sono cresciuti insieme. Antonio sposa l’ex ricca e vergine Camila di cui José è innamorato da sempre e ha per amante Vanessa, tenutaria di bordelli e socia di José in affari loschi. Nonostante i tentativi di Celsa, intrigante a buon fine, i destini incrociati dei quattro finiscono tra le fiamme dell’inferno. Per la 4ª volta il novantenne M. de Oliveira ricorre a un romanzo ( Joia de familia ) della compatriota Agustina Bessa-Luis; ne prende in prestito l’eleganza dei dialoghi filosofeggianti e salottieri; accentua lo snobismo cinico dei personaggi con la sua impassibile scrittura di algida ironia e ne sottolinea l’ambivalenza nel Bene e nel Male, come il titolo suggerisce. Prevalgono i tipici toni di “commedia umana” che lo inducono a disinteressarsi, verso la fine, della vicenda criminosa di fondo, eliminando ogni delucidazione narrativa. “Non sappiamo niente”, dice José alla madre. Che gli spettatori si arrangino, sembra dire il regista nel chiudere il suo gioco. Trilli di Paganini nella colonna musicale e fotografia del fido Renato Berta.
Lo studioso statunitense Michael Padovich vuole dimostrare che Shakespeare fosse in realtà un ebreo spagnolo. Si reca quindi, in compagnia della bella moglie Hélène, nel convento francescano di Arrábida per svolgere le sue ricerche nell’antica biblioteca. Ma l’atmosfera cupa e ambigua del luogo influisce sulla coppia.
Nella casa del vecchio Gebo si ritrovano diversi amici per discutere del mondo, un banchetto di quiete che potrebbe durare all’infinito. Il ritorno inatteso di João, figlio di Gebo che ha smarrito la retta via, sconvolge gli equilibri interni alla famiglia e provocherà serie conseguenze. Il fenomeno inspiegabile che risponde al nome di Manoel De Oliveira ha da tempo smesso di sorprenderci; è diventata quasi un’abitudine attendere un suo nuovo film e toccare con mano come l’ultracentenario regista stacchi ancora il gruppo per sensibilità, levità e spirito di osservazione. Cogliendo in pieno lo zeitgeist di un’epoca mesta come quella del 2012, De Oliveira va dritto al cuore della questione: il denaro, la sua mancanza e il suo effetto sull’uomo. La crisi, quella con la “c” maiuscola, al centro dell’obiettivo, ma è nella peculiarità del tragitto percorso che si trova la firma del maestro, immune a ogni forma di contraffazione.
Nel 2007, alla soglia dei 100 anni, Oliveira ritorna, anche di persona, sul mare, per rievocare le imprese di Cristoforo Colon (e non Colombo) di cui si ricostruisce la possibile origine lusitana, non italiana né spagnola come comunemente si crede. Un angelo-fantasma, bardato dei colori verde e rosso della nazione portoghese, accompagna i viaggi di Manuel Luciano da Silvia e Silvia Jorge – attori poi sostituiti da Oliveira stesso e sua moglie Maria Isabel -, che tra gli anni ’40 e oggi ripercorrono luoghi come Lisbona, che vide partire le caravelle di Colombo/Colon; la Cuba in Alentejo, possibile luogo di nascita del navigatore; la New York che da sempre accoglie gli emigranti europei; la piazza newyorchese che ospita il Memoriale delle Scoperte. Il film è una “amorosa” lezione di storia per i portoghesi, l’auspicio appassionato del recupero di una memoria collettiva, allargata almeno agli stessi americani dimentichi di eventi, fatti, epoche che sono all’origine della loro storia.
Parigi, fine del ‘900. Reduce da una delusione amorosa, Mademoiselle des Chartres accetta di sposare senza amore un medico affermato. Quando s’innamora di un acclamato cantante pop che la ricambia, riesce a controllare comportamento e azioni, ma non la forza del sentimento. Per lealtà confessa il suo tormento al marito che ne muore di dolore. Invece di assecondare finalmente, come potrebbe, il suo amore, abbandona il suo mondo e se ne va in Africa con una missione umanitaria. Dal romanzo La principessa di Clèves (1678) di Marie-Madeleine Pioche de La Vergne, contessa di La Fayette, considerato il primo romanzo psicologico moderno, il 91enne Oliveira ha tratto – rischiosamente, ma con impeccabile rigore – un film di passioni violente e fatali, in bilico tra tenerezza e crudeltà, una storia non esente da influenze gianseniste e da echi del teatro tragico del ‘600 (Corneille, Racine), contrapponendola alla società di oggi, così permissiva verso l’amore e il sesso. In un film concentrato sull’intimità, la scommessa di Oliveira consiste nel proporre un personaggio mirabilmente inattuale nella sua etica e, insieme, di farne la critica attraverso la figura dell’amica suora. Tenuta, come e più che gli altri attori, su un registro di recitazione atonale e vestita da Cerruti, la figlia di Mastroianni e C. Deneuve si è doppiata nell’edizione italiana con un attraente accento francese. Premio della Giuria a Cannes. Dallo stesso romanzo deriva La principessa di Clèves (1961).
In una notte di pioggia il giovane e appassionato fotografo Isaac viene chiamato per scattare l’ultima foto a una morta. Angelica, questo è il suo nome, apre gli occhi e sorride mentre Isaac scatta. Da quel momento per il giovane ha inizio un’ossessione amorosa. Agli incubi si alternano momenti di profonda gioia quando vede la fanciulla comparire dinanzi a lui come uno spirito carico di positività.
Pilar è una lisbonese da poco pensionata che si impegna nel volontariato cattolico e che cerca di dare ascolto come può ad Aurora, un’anziana vicina di casa. Aurora parla spesso di una misteriosa figlia e dice di temere i riti voodoo di Santa la cameriera africana. In seguito a un grave malore viene ricoverata e chiede di poter incontrare Gian Luca Ventura. Pilar riesce a trovare l”uomo in una casa di riposo ma Aurora morirà prima di rivederlo. Ventura ha però una storia africana da raccontare: lui ed Aurora cinquant’anni prima sono stati amanti. Miguel Gomes ama i film di altri tempi e prova a farlo rivivere con originalità inserendolo in quello spirito del cinema portoghese che si imbeve di una profonda malinconia che pervade i sentimenti ma, al contempo, non dimentica la storia passata del Paese. Il prologo è significativo in proposito: racconta di un esploratore che in Africa cercava di dimenticare la morte della moglie finché un giorno, non riuscendoci, si fece mangiare da un coccodrillo che diventò triste e malinconico. Con questa cifra stilistica Gomes affronta una narrazione in bianco e nero che, dopo la prima parte in cui viene messa in luce la sommessa disponibilità verso il prossimo della caritatevole Pilar, assume l’atipica dimensione di un film muto estremamente particolare. La parola detta dai personaggi viene sostituita da quella della narrazione di Ventura che rievoca quanto accadde nel passato. Un passato in cui il Portogallo era una delle più attive potenze colonialiste. I toni del melodramma intriso di passione e di morte assumono così una dimensione particolare che colloca il film nell’ambito di quegli esperimenti che non sempre nel cinema riescono. In questo caso la professionalità ha prevalso.
Ogni mattina, il professor Raimund Gregorius si reca nella scuola di Berna dove insegna. Ma una mattina riscrive per sempre il suo percorso: una ragazza disperata è in procinto di buttarsi da un ponte ed è proprio Raimund a fermarla prima che sia troppo tardi. La ragazza scappa, ma lascia dietro di sé un libro e un biglietto ferroviario per Lisbona. Raimund, spinto dal bisogno di cambiamento e da un’improvvisa sete di avventura, sale sul treno e, una volta in Portogallo, si mette sulle tracce dell’autore del libro, Amadeu de Prado, medico e membro della resistenza che si oppose al regime di Salazar. Nasce e si svolge all’insegna del travestimento, e dunque del falso, questo film di Bille August, che traduce sullo schermo un romanzo best-seller nei paesi di lingua tedesca firmato da Pascal Mercier, nom de plume di Peter Bieri. Quando la cartolina di Berna lascia il posto a quella di Lisbona, le glorie attoriali, vecchie e nuove, di Germania, Francia e Inghilterra si spacciano per nativi portoghesi, in un film girato interamente in inglese, che decreta pertanto immediatamente la sua appartenenza ad un regime di finzione tout court, anche piuttosto anacronistica.Un’aderenza rincarata e protratta dalla trama, degna di un feuilleton o di un romanzo parastorico di Dan Brown, con triangoli amorosi, torture politiche, colpi di scena e strascichi del passato che giungono opportunamente fino al presente. Se si aggiunge la pretesa del regista di fare un thriller filosofico -che si translittera nelle considerazioni esistenzialiste di Amadeu affidate alla voice over di Jeremy Irons- il quadro è completo e l’avvertimento lanciato. Mélanie Laurent e Jack Huston, nei panni dei due giovani amanti rivoluzionari, fanno ciò che è in loro potere per strappare il film alla calligrafia e consegnargli a tratti dei momenti di maggior credibilità, ma lo spazio è poco e il contesto ingrato. Con Night train to Lisbon Bille August manca la sovrapposizione auspicabile tra contenuto ed espressione: desideroso di parlare di un episodio di rinnovata vitalità nell’esistenza di un uomo ormai maturo, realizza invece un film colpevolmente vecchio, nel quale pesano le metafore spiegate ad alta voce (di fronte al treno in partenza o nello studio oculistico) e il ruolo passivo del protagonista. Per passare dalla carta al cinema occorreva davvero il coraggio di prendere un altro treno.
Witold non ha superato gli esami di diritto e Fuchs si è appena licenziato da una società di moda parigina. I due vanno a trascorrere qualche giorno in una pensione familiare dove li aspettano una serie di presagi inquietanti: prima un passerotto impiccato nel bosco, poi un pezzo di legno che ha fatto la stessa fine e infine alcuni segni sul soffitto e nel giardino. Nella pensione c’è anche una bocca torva, quella della cameriera, e una bocca perfetta, quella della giovane proprietaria di cui Witold si innamora perdutamente. Sfortuna vuole che la donna si sia da poco sposata con un rispettabile architetto. Ma la giovane sposa sarà altrettanto rispettabile? La terza impiccagione, quella del gatto, è opera di Witold. Perché? E soprattutto: la quarta vittima sarà un essere umano?
Due ragazzi e una ragazza entrano ed escono di continuo da una “casa speciale”, uno dei tanti istituti di Lisbona che accolgono minori provenienti da ogni parte del Portogallo. I ragazzi rifiutano il poco che viene loro offerto (un tetto, dei pasti, la comprensione e la solidarietà degli istitutori), senza sapere che cosa cercare e dove cercarlo. La loro rivolta, per quanto inevitabile, è condannata all’autodistruzione, perché senza scampo e senza prospettive. Sono dei mutanti, individui che non accettano il posto loro destinato prima di aver potuto scegliere alcunché.
Dal romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) di Dacia Maraini. Nel 1743 a Palermo la tredicenne sordomuta Marianna di nobile famiglia va in sposa al duca Pietro, anziano zio materno, che la rende madre di cinque figli. Scopre molti anni dopo l’infame segreto di famiglia che è all’origine del suo handicap. Intanto, però, aiutata dalla vita, dall’affetto dei nonni e della madre, da un illuminato precettore straniero, è cresciuta con un’assidua ricerca di pensiero, emancipazione e libertà. Film ricco (anche di inquadrature: più di 1000), sontuoso, in bilico sul decorativo, con la fotografia di Tonino Delli Colli e le scene e costumi del grande Danilo Donati che esaltano la bellezza della Sicilia del Settecento. Ha i limiti dei film biografici: una struttura lineare che procede per accumulazione più che per sintesi, sottolineata da un certo gelo narrativo. Marianna è interpretata dall’ottima dodicenne Grieco e poi dalla francese Laborit, sordomuta dalla nascita. Herlitzka è un eccellente duca. Sacrificati i personaggi della Morante e di Trieste.
Pilar è una lisbonese da poco pensionata che si impegna nel volontariato cattolico e che cerca di dare ascolto come può ad Aurora, un’anziana vicina di casa. Aurora parla spesso di una misteriosa figlia e dice di temere i riti voodoo di Santa la cameriera africana. In seguito a un grave malore viene ricoverata e chiede di poter incontrare Gian Luca Ventura. Pilar riesce a trovare l”uomo in una casa di riposo ma Aurora morirà prima di rivederlo. Ventura ha però una storia africana da raccontare: lui ed Aurora cinquant’anni prima sono stati amanti.
Una donna rende infernale la vita al marito perché continua ad amare il primo consorte, morto in un incidente e, quindi, prova una grande simpatia per il fratello gemello del morto. Il poveretto, non potendone più, si suicida e, a questo punto, il gemello le confessa di essere in realtà il primo marito. La donna, però, prende ora ad amare il suicida.
The Ornithologist è un film di genere Drammatico del 2016 diretto da João Pedro Rodrigues con Paul Hamy e Chan Suan. Durata: 118 min. Paese di produzione: Brasile, Francia, Portogallo.
Fernando, ornitologo in cerca di cicogne nere, una specie in via d’estinzione, viene travolto dalle rapide mentre scende un fiume al nord del Portogallo. Salvato dalle acque da due cinesi in cammino verso Santiago di Compostela, si addentra in una foresta folta e pericolosa cercando di ritrovare il sentiero. A poco a poco, però, gli ostacoli e gli incontri imprevisti lo mettono alla prova, spingendolo a gesti estremi che lo trasformano e ne rivelano la natura profonda, facendone un uomo nuovo, sbalordito, molteplice e, infine, completamente illuminato.
Èla storia di Sergio (Ricardo Meneses), netturbino che svolge il suo lavoro nella zona nord di Lisbona. È lui il fantasma a cui il titolo fa riferimento: indifferente a tutto, Sergio trascorre le sue giornate in una stanza in affitto di una pensione dedicandosi prevalentemente al sesso anonimo con altri uomini. Questa ricerca spasmodica del piacere, accompagnata da continue ossessioni erotiche, lo rende insensibile alle ombre che cercano di avvolgerlo: l’amore di Fatima (Beatriz Torcato), una collega di lavoro, la strana sorveglianza di un poliziotto, il desiderio ambiguo del suo caposquadra. Film che spicca per la sua “diversità”, esplicito nelle immagini e nei contenuti e incomunicabile, proprio come un fantasma.
La riconsiderazione della leggenda di Dracula, il film si apre con l’arrivo di un ispettore di scuola elementare in un remoto villaggio.
During the second world war, an American crew of B-Movies took refuge in Lisbon. In 1943, producer Valerie Lewton married with a Portuguese actor that translated to her Branquinho da Fonseca’s short story “The Baron”. The dictator heard about the movie and ordered that the film was destroyed. The crew was repatriated. The Portuguese actors were deported to Tarrafal’s Concentration camp. They died tortured in the “skillet”, a cubicle where humans were roasted. In 2005, 2 reels and the screenplay were found in the archives of Barreiro’s kino-club. For the next 5 years the film was restored and reshot. In 2011, was shown for the first time.
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