Una coppia senza figli incontra una giovane donna, Malvina, incinta di sei mesi. Strani legami legano il terzetto. Morto l’uomo accidentalmente, Malvina mette al mondo un bambino che consegna all’amica. Come il solito nel cinema di Ferreri il contenitore scenografico della storia (una futuristica megalopoli dove coabitano Palermo, Milano, Ferrara, discoteche emiliane, supermercati lombardi) è suggestivo, ma dentro si muovono fantasmi impacciati dalle catene dell’ideologia. Fin quando mostra, funziona; quando comincia a dire, ristagna e affonda. Il solo modo di divertirsi è leggerlo in chiave di fumetto ironico-grottesco.
Da Una goccia nell’oceano divino , uno dei 18 racconti di Vite di uomini non illustri (1993) di Giuseppe Pontiggia. Claudia Bertelli nasce a Milano nel 1949, studia in Inghilterra, contestatrice e femminista, prima madre nubile con un figlio mulatto, poi sposa, fa il medico e poi la suora, muore nel 2011. Quasi mezzo secolo di vita italiana, e il ritratto di una donna che vive fino in fondo errori, dolori, delusioni, contraddizioni. E che cambia. Un po’ riduttivo il modo con cui si rievocano il ’68 e il movimento delle donne, ma è l’ottica del disincanto di un regista e tre sceneggiatori (Suso Cecchi D’Amico, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi) tra i 70 e gli 80 anni. I meccanismi della commedia italiana si addicono soltanto in parte a una storia come questa che ha al centro una donna. Anche perciò M. Buy rimane talvolta fuori del personaggio. Azzeccati, tra le figure di contorno, il Calabrone di Arena e il filosofo di Ovadia, giocoliere delle parole.
Roberto, maestro d’asilo, è accolto bene dalle colleghe, amato dai bimbi, ma ostacolato dai genitori che non capiscono i suoi rapporti con i loro figli. Nasce un legame particolare con un bimbo psichicamente disturbato. M. Ferreri ha fatto un film aperto, una straordinaria favola che va in cerca di sé stessa passando dentro le scene del quotidiano e della finzione e seguendo la non-storia di un Benigni delicato e struggente.
Lu Yanshi è un oppositore del sistema negli anni della rivoluzione culturale, per questo è perseguitato e deve nascondersi dalla sua stessa famiglia. Intenzionato a rivedere la moglie di cui è innamorato una notte ritorna a casa ma la figlia (plagiata dai ricatti della compagnia di ballo nella quale danza e che le ha negato un ruolo da protagonista proprio per il fatto di avere un padre dissidente) decide di tradirlo. Così il giorno dopo agenti governativi lo catturano alla stazione proprio mentre la moglie sta per avvertirlo.
Lo sguardo di una donna incinta sul variopinto mondo di rue Mouffetard, “la Mouffe” come la chiamano i parigini e situata nel Quartiere Latino della Ville Lumière.
In una zona della North Carolina, mentre la Terra entra in congiunzione con una cometa, tutti i mezzi meccanici impazziscono. Otto persone si trovano chiuse in una stazione di servizio, assediate da decine di autotreni. Sino al 1990 sono stati 18 i film tratti da romanzi o racconti di Stephen King, campione della narrativa fantastica made in USA. Questo è l’unico che ha diretto personalmente e non è uno dei migliori. Anzi. “Ora la mia curiosità è appagata. Per parecchi anni non ci penserò più. Ora so che è veramente difficile” (S. King).
Pamela Lyndon Travers è una scrittrice di romanzi per l’infanzia che vive a Londra e fa impazzire il suo editore. Da vent’anni Mr. Russell prova a convincerla a cedere i diritti di “Mary Poppins” a Walt Disney. Ossessionato dalla promessa fatta alle sue figlie, Mr. Disney sogna di realizzarne un musical in technicolor con pinguini animati e spazzacamini volteggianti. Cocciuta e ostinata a rendere la vita un inferno a chiunque, Miss Travers si persuade a partire per la California. Impermeabile agli ossequi e all’amabilità di Walt Disney e dei suoi assistenti, Pamela si siede in cattedra e passa in rassegna lo script e la sua infanzia, sublimata nei suoi romanzi. Cresciuta in Australia da una madre fragile e un padre sognatore, costretto a lavorare in banca e deciso ad affogare la propria vita nell’alcol, Pamela ha inventato Mary Poppins per salvare il suo papà e i Mr. Banks del mondo. Assediata dai ricordi e dal corteggiamento di Disney, che intuisce il dolore radicato nell’infanzia, Pamela dovrà infine decidere del suo futuro e di quello della sua celebre governante.
Burbero benefico, gestore di una sala per scommesse ippiche, si lascia ammorbidire il cuore da una bimbetta lasciatagli in pegno da uno sfortunato giocatore suicida. Commedia di situazione, affidata ai caratteri più che all’azione, fa perno su un Matthau impareggiabile con la sua camminata curva e l’angoloso istrionismo. È la 4ª versione di un soggetto di Damon Runyon, interpretato la 1ª volta da Shirley Temple.
Un film di Luca Miniero. Con Claudio Bisio, Alessandro Siani, Angela Finocchiaro, Valentina Lodovini, Nando Paone.Commedia, durata 102 min. – Italia 2010. – Medusa uscita venerdì 1ottobre 2010. MYMONETRO Benvenuti al Sud valutazione media: 2,85 su 179 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Alberto è un mite responsabile delle poste della bassa Brianza a un passo dal tanto sospirato trasferimento nel centro di Milano. Quando gli comunicano che la promessa rilocazione gli è stata revocata per dare precedenza a un collega disabile, Alberto, per non deludere le speranze della moglie e del figlio, decide di fingersi a sua volta disabile. Durante la visita di controllo, commette però un’imprudenza e, come punizione, gli viene imposto un trasferimento in Campania, in un piccolo paese del Cilento. Per un lombardo abitudinario e pieno di preconcetti sul Sud Italia come lui, la prospettiva di vivere almeno due anni in quei luoghi rappresenta un incubo, cui si prepara con un nuovo guardaroba di vestiti leggeri e giubbotto antiproiettile.
Fra l’esagono francese e lo stivale italiano, la cartina socio-culturale del pregiudizio appare specularmente rovesciata. In Francia la commedia popolare brama il sole del Mediterraneo e le palme della Costa Azzurra, mentre teme il freddo della Manica e i cieli grigi delle regioni del Nord; in Italia il sogno dell’uomo padano vive all’ombra della Madunina di Milano e rivolge tutte le possibili stigmatizzazioni verso il Sud pigro e parassitario. Da Giù al Nord a Benvenuti al Sud, l’attraversamento delle Alpi dell'”opera buffa” di Dany Boon ristabilisce una connessione fra discesa geografica e declino civile mediante lo stesso percorso bonario e leggero di sovvertimento dello stereotipo. Il film si presenta infatti come un vero e proprio remake nel senso americano del termine: una replica puntuale degli snodi narrativi e delle principali gag dell’originale francese, adattata al linguaggio partenopeo e allo scontro con la cultura meneghina. Nella “traduzione” va persa molta della comicità surreale e strampalata della mimica e delle boutade di Dany Boon e Kad Merad, a favore di tempi comici più in linea con l’impostazione cabarettistica di Claudio Bisio e Alessandro Siani. L’adattamento scritto da Massimo Gaudioso ricalca e parafrasa laddove serve, lisciando e addolcendo l’eccessivo schematismo della sceneggiatura originale soprattutto nei rapporti fra i vari personaggi. Per il resto, lo sceneggiatore di Gomorra si limita a convertire i vari elementi che caratterizzavano il Nord-Pas de Calais nel loro diretto corrispettivo cilentano (i formaggi puzzolenti diventano mozzarelle di bufala, i distillati alcolici e le birre corpose diventano caffè e limoncelli, mentre la tradizione dei carillon delle torri campanarie si converte nella pirotecnica barocca del folklore campano) e ad aggiungere qualche lieve elemento caricaturale sul razzismo leghista o di autoironia in merito allo stesso film di Garrone. Da parte sua, Luca Miniero aggiunge alla messa in scena piuttosto basica di Dany Boon un certo virtuosismo tecnico e uno spettro di colori più ampio e caldo, in linea con le tonalità della costa cilentana. In definitiva, laddove ognuno – protagonisti, comprimari, caratteristi e autori – gioca il proprio ruolo a dovere e gestisce senza falli né malizia il gioco leggero della commedia, resta un dato non troppo confortante: il fatto che anche le idee, per ridicolizzare affettuosamente il nostro piccolo paese, abbiamo bisogno di importarle dall’estero.
Tratto da Amleto ovvero le conseguenze della pietà filiale (1877) di J. Loforgue. Claudio uccide il re suo fratello e diviene amante della vedova. Il “re nero” non vuole vendetta, bensì mettere in scena una commedia a Parigi. Orazio racconta ad Amleto di aver visto il fantasma del re assassinato e Amleto gli raccomanda di tacere.
Notre-Dame de Paris narra la storia di Quasimodo, il campanaro gobbo della cattedrale di Notre-Dame e del suo amore impossibile e tragico per Esmeralda, una bella gitana.Un amore condannato dall’ingiustizia e dall’ipocrisia. Quasimodo costretto dalla sua bruttezza a guardare il mondo dall’alto di una torre un giorno si innamora perdutamente di Esmeralda che vede ballare e cantare sulla piazza davanti alla cattedrale. Ma Esmeralda è innamorata di Febo, il bel capitano delle guardie del Re. Febo è fidanzato di Fiordaliso, una giovane e ricca borghese, ma la bellezza esotica e sensuale della gitana non lascia indifferente l’uomo che da subito se ne invaghisce.
Giovane guardiano di un obitorio si fa coinvolgere dal suo assistente in una lucrosa attività di sfruttamento della prostituzione. È una commedia amara che incuriosisce per il suo mix di ingredienti trasgressivi e antipuritani, ben frullato da una regia agile, dialoghi mitragliati, interpreti che credono nei loro personaggi. Nella colonna sonora c’è “That’s What Friends Are For” di Rod Stewart. Appare anche Kevin Costner. 1° film di Keaton.
Napoli, primi Anni Sessanta. Crolla un palazzo a causa di un cantiere limitrofo di proprietà di un certo Nottola, speculatore edilizio appoggiato dalla maggioranza che guida l’amministrazione della città. Viene aperta una commissione d’inchiesta dalla quale emerge che le pratiche per la concessione sono state corrette dal punto di vista formale. Nottola è però diventato ‘scomodo’ e non è possibile garantirgli il posto da assessore che egli pretende in seguito alle ormai imminenti elezioni. Ci sono film, anche di valore, che con il passare degli anni perdono la presa che ebbero al momento della loro uscita e restano lì a farsi ammirare come un prezioso utensile del passato di cui riconosciamo la perfezione ma che può solo restare chiuso in una teca. Altri invece (e il film di Rosi è fra questi) che invece conservano una loro inattaccabile attualità. Verrebbe da dire: purtroppo. Purtroppo perché quei problemi, quel malcostume, quel modo di intendere l’amministrazione della cosa pubblica perdurano. È sicuramente anche questo uno dei motivi della tenuta di Le mani sulla città ma quello che lo distacca dalla cronaca politica è lo stile narrativo. Rosi non fa un ‘film di denuncia’, va oltre. Sceglie un taglio da “cinema verité” quando riprende le sedute del Consiglio comunale offrendoci dei totali di un’aula in cui ci si prepara a una lotta di tutti contro tutti. Da questo magma fa emergere delle figure che sono rappresentative di posizioni e di interessi diversi che finiscono con il ruotare attorno a Nottola (interpretato da un Rod Steiger che domina l’inquadratura). Sarebbe facile definire ‘profetico’ un film in cui si agitano ‘mani pulite’ o in cui il conflitto di interessi diviene tanto palese quanto socialmente metabolizzato. Le mani sulla città è qualcosa di più e di diverso. È un film che va alle radici di uno dei cancri che hanno corroso e continuano a corrodere la nostra società e ne mette spietatamente in luce le metastasi. Divenendo un paradigma (anche se non del tutto compreso, al di là delle polemiche sul suo contenuto, al momento dell’uscita). Tanto che anche il cinema successivo gli ha reso omaggio in più occasioni. Due esempi per tutti. La voga da fermo di Nanni Moretti, protagonista de La seconda volta di Mimmo Calopresti, che richiama l’entrata in scena di Maglione e il politico non vedente in Baarìa che, dinanzi a un plastico di un nuovo complesso edilizio, mette, letteralmente, ‘le mani sulla città’.
La tratta delle bianche in Israele. Trasportate specialmente dai paesi dell’Est già socialista, le donne entrano in Israele attraverso il deserto del Sinai e sono smistate in varie città, persino nei Territori palestinesi. Teso da sempre a scandagliare le gravi contraddizioni del suo paese sul piano storico, religioso, sociale, esistenziale, Gitai non era mai stato, forse, così duro e crudo, così violento e pessimista sul legno storto dell’umanità. Così indignato e scomodo. Il calvario di queste donne, ridotte a merce con la violenza, è raccontato – specialmente nell’impietosa, centrale sequenza notturna – con un’immediatezza da cinema diretto. Non a caso dalla Mostra di Venezia 2004 dove Gitai era in concorso, il critico Marco Bertolino lo accostò al Salò di Pasolini. Il linguaggio registico è gelidamente furioso: cinepresa a mano, inquadrature sbilenche, montaggio stretto, luci livide, colore compresso sullo spettro dei grigi. Scritto da Gitai con Marie-Jose Sanselme. Anche fotografia e montaggio sono di donne: Caroline Champetier e Isabelle Ingold. Non può essere una scelta casuale. Musiche di Ärvo Part e Simon Stockhausen.
Una giovane giornalista, Yael, si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono. Ha sentito parlare di una donna ebrea che, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva sposato un arabo ed era andata a vivere lì. Yael, nella sua visita ascolta ciò che Il marito Youssef ha da raccontarle e raccoglie anche le testimonianze di parenti e conoscenti. Amos Gitai venne a conoscenza grazie alla stampa della storia di una donna nata ad Auschwitz e poi sposatasi, nonostante molteplici ostilità, con un arabo da cui ebbe cinque figli e 25 nipoti. Si tratta di una vicenda che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista israeliano da sempre attento ad indagare i perché di una rivalità (che spesso si trasforma in odio) tra due popoli che hanno saputo convivere nel passato e potrebbero tornare a farlo. Bisognava però decidere con quale taglio raccontarla e Gitai ha deciso di portare all’estremo quello che per lui si è spesso configurato come un codice linguistico particolarmente interessante.
Gli spettatori più attenti al suo cinema ricorderanno sicuramente l’episodio del film collettivo 11 settembre 2001 in cui descriveva la concitazione presente sul teatro di un attentato e l’assoluta incapacità della giornalista inviata sul posto a comprendere cosa accadeva grazie a un piano sequenza di 11 minuti. Altri faranno invece riferimento alla lunghissima e tesissima sequenza in apertura di Free Zone tutta incentrata sulle reazioni emotive del volto di Natalie Portman. Questa volta il piano sequenza ha la durata dell’intero film che si svolge quindi in tempo reale. Sul piano simbolico la scelta estetico-narrativa è di grande valore perché avvolge ed unisce due mondi, due culture e due memorie che si vorrebbero opposte realizzando un film ‘senza stacchi’, senza separazioni, neppure di montaggio. Non ci sono, in questo microcosmo, quei muri che altrove istituzionalizzano la separazione. Si tratta però di una formula punitiva per il pubblico non israelo-palestinese sotto un duplice aspetto. Sul piano storico perché nei dialoghi e nelle memorie dei personaggi emergono innumerevoli elementi che fanno parte della storia socio-culturale di quei popoli ma che non tutti nel mondo hanno presenti. C’è poi la fatica del seguire (e talvolta subire) gli inevitabili tempi morti che fanno parte della quotidianità di ognuno ma che sullo schermo e in una sala bui sembrano espandersi all’ennesima potenza. Gitai è sempre stato un regista ‘in ricerca’, sia sul piano storico che su quello formale. Una ricerca che, in questo caso, rischia di rivolgersi a un pubblico molto ristretto.
Liberamente ispirato da CRIME AND PUNISHMENT di Dostoevskij, ‘DISSOLUTION’ combina un’energia da favola quasi surreale con un brutale realismo in bianco e nero per esplorare la condizione di violenza che permea la società israeliana contemporanea. Girato a Jaffa, l’area prevalentemente araba di Tel Aviv, il film segue il crollo morale e il primo barlume di redenzione di un giovane ebreo israeliano, interpretato brillantemente dal non attore Didi Fire. Questo è un lavoro profondamente personale sul viaggio interiore di un uomo, ma può anche essere letto come un’allegoria sulla responsabilità morale di Israele… così come un ritratto della violenza maschile nei confronti di un femminile svalutato
A Gerusalemme il giovane Assaf deve trovare il proprietario di un labrador abbandonato. È Tamar, sua coetanea, che sta cercando il fratello tossico Shai, preda di Pesach, capo di una banda criminale che traffica droga e recluta ragazzi sbandati, costringendoli a mendicare e a suonare per strada. Anche lei catturata da Pesach, Tamar cerca di convincere Shai a fuggire. Da un romanzo (2005) di David Grossman, fedelmente adattato da Noah Stollman, il 2° film del giovane Davidoff è incerto tra la fedeltà illustrativa e lo sforzo del regista di imporre una diversa e più personale scrittura a questa storia di emarginazione e disagio sociale: cinepresa a spalla, squarci dall’alto di una Gerusalemme insolita, montaggio un po’ frenetico, virtuosismi di ripresa, interessante colonna musicale originale. “Sembra di assistere a una specie di finto neorealismo, combinato con una dimensione a tratti favolistica” (S. Emiliani). Nell’assillo di rinnovare la sua fonte letteraria, rischia di perderne l’anima. Bar Belfer è un volto intenso che non si dimentica. Distribuito da Medusa.
Nella Roma imperiale viene misteriosamente assassinato un senatore. Fabiola, sua figlia, crede, come tutti, che i colpevoli siano i cristiani ma in seguito, imparando a conoscerli, si persuade della loro innocenza. Le persecuzioni fanno strage delle innocenti vittime; intanto Costantino, con l’armata cristiana, si sta avvicinando.
Ray Peterson si reca a trascorrere un periodo di vacanze in solitudine nell’abitazione che possiede alla periferia della città. Il giovane ambisce alla pace e alla tranquillità, ma ben presto si accorge di strani eventi che avvengono nella casa dei vicini.
Dal libro Lost Moon (1992) di Jim Lovell e Jeffrey Kluger. L’11-4-1970, lanciata dal razzo Saturno V, la navicella Apollo 13 con tre astronauti americani a bordo si dirige verso la Luna, ma un guasto tecnico costringe i tecnici della NASA a Houston a improvvisare un piano d’emergenza per fare rientrare Jim Lovell, Fred Haise e Jack Swigert. La miscela dell’avventura reale con l’immaginario della SF innesca un corto circuito di memorie, di film e di storia in cadenze di thriller spaziale, impregnato di orgoglio yankee (“Non abbiamo mai perso un americano nello spazio, non cominceremo adesso.”) 2 Oscar per il montaggio e per il sonoro.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.