Un giovane fugge da un manicomio e sequestra in un casolare due donne parigine, madre e figlia. Figlio di Georges Simenon (l’autore di Maigret), Marc ha dipinto con acume, in questo “giallo sociologico”, la realtà provinciale e gretta di una cittadina francese.
Una caduta da cavallo durante una mascherata storica fa sprofondare nella pazzia per vent’anni un giovane signore. Passano gli anni, il malato rinsavisce ma continua la mascherata. Come se non credesse nel testo di Pirandello, Bellocchio lo smonta, lo sdrammatizza, se ne appropria, lo aggiorna, rendendolo meno pirandelliano. L’operazione non manca d’intelligenza, ma è poco convincente nonostante la bravura di Mastroianni.
Il telefilm è una commedia sui supereroi. La serie è tipica dello stile del produttore Stephen J. Cannell, in cui la trama è secondaria alle relazioni tra i personaggi. Il meccanismo del telefilm è basato sulle difficoltà di un trio di persone comuni nel vivere avventure da supereroe nel mondo reale.
Ralph Henley (e non Hinkley: questo cognome venne scartato in quanto era quello del feritore del presidenteRonald Reagan) è un comune insegnante che riceve dagli extraterrestri un costume speciale dal colore rosso vivo che gli fornisce abilità superumane. Ralph tuttavia, avendo smarrito il manuale di istruzioni fornito con il costume, non riesce ad imparare ad usare il costume correttamente e deve procedere per tentativi, divenendo un supereroe parecchio imbranato. Ad aiutarlo in segreto, nella propria missione al servizio della legge, l’agente dell’FBI Bill Maxwell e la fidanzata, poi moglie, Pam Davidson.
Protagoniste sono due amiche, una bonacciona e sentimentale, l’altra calcolatrice e furbetta. La seconda spesso e volentieri ruba gli uomini alla prima. Un giorno la sentimentale si sposa con un giovane e gentile arredatore…
René Clair si accosta al mito di Faust facendosi riscrivere la storia del commediografo Armand Salacrou. La principale novità è nello scambio delle sembianze fra il vecchio scienziato che fa il patto con il diavolo e il diavolo stesso (Michel Simon impersona Faust prima della cura e, dopo, un furfantesco e gibboso Mefistofele, mentre Gérard Philipe è all’inizio un aitante e spiritoso Maligno e poi lo stupefatto Faust giovinetto). Vediamo Faust, dopo il patto col diavolo, ridiventare giovane, conquistare Margherita, la potenza e la ricchezza. Ma la potenza genera morte e corruzione, Faust vuole abbandonare tutto e Mefistofele lo accontenta. Ma il paese va in rovina e la folla (che incolpa Faust) lo identifica con Mefistofele e così lincia lo sfortunato demonio. Film ambizioso, anche se un tantino retorico specie nel messaggio finale.
Negli anni della depressione una ragazza del Sud fa la civetta con tutti, controllata dall’avida madre che vuole sposarla a un ricco. S’innamora di un agente delle ferrovie. Film alla Kazan, tratto da un atto unico (1941) di Tennessee Williams. Alla sceneggiatura misero mano in 14 tra cui F.F. Coppola. Abbastanza banale la storia, ma non lo stile, che è personale e rivelò in S. Pollack, al suo 2° film, un regista di merito. Magnifica fotografia di J. Wong Howe.
Laureando nero in psicologia che lavora a “Voce amica”, centro psicosociale, riceve la telefonata di una donna disperata che in una stanza d’albergo vuole suicidarsi. Alle prese con una materia a rischio per il suo sentimentalismo, l’esordiente Pollack riesce a conciliare melodramma con scavo psicologico. Impeccabile direzione di attori. Scritta da Stirling Silliphant.
John Milner è impegnato per vincere la “Grande corsa” e, per quanto sia il beniamino del pubblico locale, non avrà la vita facile poiché da solo deve competere contro avversari appoggiati da danarose scuderie. Prima di giungere alla vittoria, diviene amico di Eva, una ragazza islandese che gli viene presentata dall’amica Teensa. John morirà investito da un camionista ubriaco, in una notte di capodanno. 2. Terry Fields, detto “il Rospo”, non è riuscito ad evitare la spedizione in Vietnam. … [continua a leggere]Deciso a farsi rispedire a casa, tenta invano di procurarsi una ferita. Un poco alla volta farà amicizia con il tenente Sinclair e gli salverà la vita. Viceversa, verrà perseguitato dal pazzo maggiore Creech e, prima di involarsi disertando, si vendicherà su di lui e su di un politico altrettanto sciocco. 3. Debbie, già fidanzata del lontano Terry, non è molto più fortunata con Lance che vorrebbe sposare e per il quale guadagna del denaro come ballerina. Decisa a fare assumere Lance nel complesso “Electric Hanze”, segue a lungo gli stravaganti Felix e Newt. Finirà per affermarsi come cantante. 4. Laurie e Steve Bollander sono due giovani coniugi in crisi poiché lei vorrebbe lavorare per cooperare al benessere della famigliola (hanno già due gemelli di 4 anni); ma lui, orgoglioso e agente di una assicuratrice, non vuole. Separatisi per ripicca, finiscono casualmente nel bel mezzo di manifestazioni pacifiste e, una volta arrestati, Steve si dimostrerà un rivoluzionario molto intraprendente: impadronitosi del pullman ove sono imprigionate le ragazze arrestate, le condurrà alla libertà.
Dal romanzo di David Saperstein. In un pensionato per anziani della Florida un gruppo di arzilli vecchietti riacquistano le forze e l’ardore della giovinezza, grazie ai bozzoli extraterrestri piazzati in una piscina. Doppiaggio italiano volgaruccio. Peccato. È una favola crudele sulla vecchiaia e la morte, rovinata solo dall’attuale moda di sbalordire sempre e comunque con qualche trucco da baraccone. Commedia stravagante con scene di grande finezza, specialmente nella prima parte. Oscar per D. Ameche.
Dal racconto Sir Tristam Goes West di Eric Keown. Un miliardario americano acquista un castello scozzese, lo smonta pietra su pietra e lo fa trasportare negli Stati Uniti. Con il castello si trasferisce anche un fantasma, condannato dalla maledizione del padre perché era morto in battaglia da codardo. Per ottenere l’eterno riposo ha bisogno di riscattarsi. 1° film in inglese del francese Clair, è anche il suo 1° film in cui il dialogo _ scritto insieme con il commediografo Robert Sherwood _ ha un posto importante, rallentandone il ritmo. Ottenne il Gran Premio del Film Britannico. Ottimo Donat.
Un cantante di strada arrestato per sbaglio fa a pugni con il suo migliore amico che gli ha rubato la donna; poi, vedendo ch’ella lo ama, gliela lascia. Sequenze celebri: la carrellata iniziale, la gazzarra notturna. È il 1° film sonoro di R. Clair, ancora intriso dell’aria del cinema muto, con pochi dialoghi spesso sostituiti da canzoni o cori. Deliziosa storia d’amore e amicizia ambientata in una Parigi da cartolina, tutta ricostruita. Primo esempio di cinema populista poetico: l’umorismo crudele degli anni ’20 diventa tenero. In un primo tempo ebbe più successo a Berlino che a Parigi. Nemo propheta in patria . Tra gli aiutoregisti figurano G. Lacombe e M. Carné.
La banda musicale della polizia di Alessandria d’Egitto viene invitata a suonare all’inaugurazione del centro culturale arabo di una cittadina israeliana. All’aeroporto di Tel Aviv non c’è nessuno ad attendere il gruppo di musicisti, così il pragmatico direttore d’orchestra e colonnello Tewfiq decide di raggiungere il luogo con un autobus locale. Arrivato nella remota e desertica cittadina (una sorta di Las Vegas spoglia di luci scintillanti, giochi e schiamazzi) capisce che, per un difetto di pronuncia, ha sbagliato destinazione. Non si trova nella moderna Petah Tikva, bensì nell’arida Bet Hatikva. Poiché non c’è modo di andarsene da lì (c’è una sola corriera che passa una volta al giorno) gli otto egiziani sono costretti ad accettare l’ospitalità di Dina, la bella proprietaria dell’unico ristorante del posto. Al suo esordio in lungo l’israeliano Eran Kolirin realizza una piccola opera cinematografica, densa di valore, trovando il modo per fotografare e raccontare il suo paese con umorismo, sentimento e nostalgia, utilizzando un linguaggio (e lanciando un messaggio) universale. La banda è una brillante commedia dal retrogusto amaro che parla innanzitutto dell’essere umano. Le inamidate uniformi azzurre della banda celano i disagi esistenziali dei componenti. L’unica voce fuori dal coro è quella di Haled, dongiovanni nell’anima che seduce le fanciulle sussurrando i versi romantici di Chet Baker. La musica fa da collante tra lo sgangherato gruppo in terra straniera e i loro ospiti. È una canzone jazz israeliana che Dina sceglie per trasmettere a Tewfiq – il suo personale Omar Sharif – il desiderio di dirgli “tante cose”. È la danza delle mani del colonnello, che muove sinuosamente nell’aria per mostrare alla locandiera come si dirige un’orchestra, a creare un momento d’intesa tra l’uomo e la donna. E, infine, intorno alla tavola apparecchiata a festa, nel silenzio imbarazzante e un tantino ostile, basta intonare un’approssimativa “Summertime” per comunicare e azzerare la distanza di due paesi avversi. Al di là delle divergenze culturali e delle barriere linguistiche c’è la musica, ma c’è anche l’amore. Quello agognato da una giovane che vede la sua vita come un (melodrammatico) film arabo, quello perduto a causa del proprio rigore, quello cercato tra le braccia di uno sconosciuto. Il finale de La banda è preannunciato da una frase di Itzik. È “come un concerto che finisce di colpo, né triste, né allegro”. Un concerto, aggiungiamo noi, da godere fino all’ultima nota.
Il detective in pensione Harry Kilmer viene chiamato da un suo vecchio amico, George Tanner. Tanner ha affari con la mafia giapponese, gli yakuza, e soprattutto con uno di essi: Tono. Tono prende in ostaggio la figlia di Tanner e il suo ragazzo per esercitare delle pressioni per garantirsi un buon proseguimento degli affari che coinvolgono la vendita di armi. Tanner spera in Kilmer, in quanto lo reputa in grado di trovare e salvare la ragazza grazie alle sue conoscenze del mondo giapponese.
È, nella struttura di un puzzle, un ballo di ladri, un girotondo di destini in cui volteggiano i sentimenti e gli oggetti, rubati e rivenduti, che buone o cattive azioni fanno passare di mano in mano. E una folla di personaggi: mercanti d’armi, bionde ricche d’energia e di amanti, scassinatori romantici, battone dal cuore d’argento, anarchici della terza età, un barbone filosofo, un genio della meccanica, camerieri, manicure, bambini, poliziotte. E un ritratto di una dama dell’Ottocento che diventa a rasoiate sempre più piccolo. 1° film occidentale di un regista georgiano, anarchico sorridente che ha il genio di un’insopportabile leggerezza.
Israele. Zaza, ebreo di origine georgiana, ha 32 anni e non è ancora sposato. Questo è un problema per la sua famiglia che vorrebbe per lui una fanciulla vergine, di buona famiglia e ricca. I suoi genitori non smettono di proporgli ragazze da marito ma l’uomo trova sempre una scusa per sottrarsi. Perché lui una compagna ce l’ha già: Judith, divorziata e con una figlia di sei anni. Ma il momento della scelta non può essere ulteriormente procrastinato. Opera prima di un regista anche lui ‘scapolo’ e che ne ammette la ‘semiautobiografia’ Matrimonio tardivo è una commedia che rischia di apparire ‘già vista’ dopo Jalla!Jalla! o Sognando Beckham. Il problema nasce da una distribuzione che si è accorta solo nel gennaio 2003 di un film presentato a Cannes 2001. Il film si segnala per la più lunga e più giocosa scena di sesso vista al cinema che nella copia italiana sembra più corta dell’originale.
Nel corso dei secoli Israele ebbe una serie di uomini dalla forte personalità, capaci di ricondurre il proprio popolo lontano dai culti idolatrici nei quali ricadevano continuamente. Il più noto è senza dubbio Sansone, uomo dalla forza leggendaria che fu tradito dalla moglie Dalila. Sansone le aveva rivelato che il segreto della sua potenza risiedeva nella folta capigliatura. Dalila tagliò le sue sette trecce, rendendolo inerme e facendolo imprigionare e accecare. Legato alle colonne del tempio, durante una festa idolatrica, Sansone pregò Dio di restituirgli l’antico potere e “uno solo dei suoi due occhi” per castigare e avere vendetta sui Filistei. Ripercorrendo le gesta di uno dei “giudici” di Israele, morto suicida uccidendo i Filistei, il documentarista Avi Mograbi riflette sulla cultura della morte nell’Islam, assimilabile e per nulla estranea a quella dei miti ebraici. Storia, mito e attualità si intrecciano e si fondono sullo sfondo della realtà palestinese, occupata e bloccata ai check-point dall’esercito israeliano. Il dramma palestinese è una realtà innegabile per il documentarista israeliano, che al suo debutto in lungo (ma lo aveva fatto anche “in corto”) affronta la crisi tra Israele e Palestina, rilegge in modo critico il mito di Sansone e di Massada e prova ad aprire una breccia nel muro segregazionista che si sta erigendo.
L’articolazione narrativa, ovvero la modalità prescelta di esporre il racconto dei testimoni (israeliani e palestinesi), non ha in apparenza un disegno cronologico né tematico, somiglia piuttosto a un flusso che amplifica l’impatto emotivo sullo spettatore. Pur dichiarando una posizione critica verso la politica dello Stato d’Israele, che si trasforma nell’epilogo in un atteggiamento addirittura e giustamente sprezzante, lo sguardo di Mograbi contempla con rispetto gli israeliani che incontra nelle scuole o nelle gite culturali e i palestinesi che cercano di arare le terre occupate o di raggiungere l’ospedale o il posto di lavoro. Il benessere di un popolo coincide con la condanna di un altro, la costruzione di uno Stato con la distruzione di un altro e ciascuno si adegua a questo stato di cose con un dolore di vivere straziante. Non ci sono aperture fra loro, che si muovono come monadi in una realtà priva di compromessi. Ciascuno nella sua via, solo, alla ricerca di un senso al caos in cui si è perduto. Il documentario di Avi Mograbi riflette al telefono (con un amico palestinese) sulle ragioni mitologiche (la morte di Sansone e l’assedio di Massada) e su quelle storiche che hanno condotto ai drammatici fatti che accadono oggi in Palestina: il fallimento degli accordi di Oslo e della mediazione statunitense, l’esplosione della nuova Intifada, la devastazione di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme (est) dopo quarantun’anni di occupazione militare, lo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese e, sopra tutto, la strage di ebrei e palestinesi innocenti. Capire cosa sta accadendo in Palestina non è facile e la televisione e i giornali non ci aiutano. Ignorano o rimuovono. Proviamo col cinema.
Storia d’amore tra un uomo, Sonny Steel, una donna, Hallie, e un cavallo bianco, Rising Star. Quando Sonny si accorge che il cavallo viene drogato per le esibizioni pubblicitarie, lo porta in una valle remota per dargli la libertà. Western moderno con struggente nostalgia del passato. È un tenero racconto in cui fa spicco la concretezza dell’azione e l’attenta psicologia dei personaggi. I due protagonisti servono il film come meglio non si potrebbe.
Regia di Sydney Pollack. Un film con Wilford Brimley, John Archie, Ilse Earl, Clardy Malugen, Joe Petrullo, Shawn McAllister, Shelley Spurlock, Anna Marie Napoles, Arnie Ross, Sharon Anderson, Jody Wilson, Alfredo Alvarez Colderon, Melinda Dillon. Cast completo Titolo originale: Absence of Malice. Genere Drammatico – USA, 1981, durata 116 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +16 – MYmonetro 3,00 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari.
Puntigliosa giornalista di un quotidiano si accanisce in buona fede, ispirata dall’FBI, su un innocente (con parenti mafiosi), sospettandolo di essere responsabile della morte di un sindacalista. Pur sviluppandolo in modi romanzeschi troppo convenzionali, il film affronta con onestà il problema complesso dell’informazione che è di attualità anche in Italia. La Field è brava come Newman, ma i due non legano. Scritto da Kurt Luedtke, ex giornalista premiato col Pulitzer. Girato a Miami.
Per la prima volta alle prese con la comicità realistica del vaudeville omonimo (1851) di Eugène Labiche e Marc Michel, R. Clair ne sposta l’azione al 1895, la serra dentro una giornata di festa per la celebrazione di un matrimonio, scandita dalle tappe dell’affannosa ricerca di un cappello di paglia, la limita nello spazio mobile di cinque ambienti, annullandone la staticità teatrale originaria secondo l’effetto dinamico “a palla di neve”, come lo chiama H. Bergson (nel saggio Il riso ). L’azione – danza di oggetti e di personaggi ridotti a marionette – si svolge al ritmo frenetico di un indemoniato balletto. È la punta alta nel cinema muto di Clair, sostenuta da un impeccabile senso dell’organizzazione farsesca, dalle invenzioni scenografiche di Lazare Meerson e dalla leggerezza di tocco con cui il regista governa un gruppo eterogeneo di attori europei e di immigrati russi. Non a caso il vaudeville di Labiche-Michel ispirò alcuni tra i più importanti musicisti del ‘900 tra cui Jacques Ibert (1929) e Nino Rota che ne compose una felice trasposizione teatrale, messa in scena nel 1955 a Palermo e poi per tre stagioni di seguito al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler. Le sue musiche, trasposte per pianoforte e eseguite da Angela Annese, accompagnarono la ripresa del film alle Giornate del Muto 2007 a Pordenone. Ebbe altre 3 versioni filmiche in Germania (1939), Francia (1940-44) e Argentina (1946).
Protagonista di Ammutta Muddica è la vita di tutti i giorni, ricca di personaggi strampalati e situazioni comiche, il tutto, come sempre, ingrandito e deformato dalla lente stravagante e surreale del trio delle meraviglie e dalla regia teatrale di Arturo Brachetti. “Oggi il cinema non è più un luogo dove si proiettano esclusivamente eventi cinematografici – dichiara il trio – ma un luogo dove si propongono eventi legati alla musica, alla danza, al teatro. Siamo stati i primi a portare uno spettacolo teatrale nelle sale cinematografiche nel 2006 con Anplagghed al cinema e ci è sembrato giusto farlo anche adesso con Ammutta Muddica, per riproporre al nostro pubblico sul grande schermo non solo il meglio dello show teatrale ma anche alcuni sketch inediti girati durante le repliche al Teatro degli Arcimboldi di Milano”.
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