Ramon è un famigerato piromane galiziano che è stato accusato di aver provocato un nuovo incendio. Lois, un giovane vigile del fuoco, esplora le profondità di una foresta in fiamme. I loro destini sono legati dal potere di un fuoco misterioso.
Siamo nelle campagne attorno a Londra. Maggie ha un nipotino gravemente ammalato e in procinto di morire. Solo un’operazione in Australia può salvarlo ma i genitori non hanno il denaro necessario per il viaggio. Maggie va nella capitale a cercare lavoro ma per lei, donna sulla sessantina, non ci sono offerte. Decide allora di tentare con una proposta di assunzione come hostess. La prestazione però non è quello che lei, ingenuamente, crede. Dovrà masturbare i clienti di un locale porno i quali non avranno la possibilità di vederla. La donna, pensando alla salvezza del nipote, accetta nonostante tutto. Affinerà a tal punto la propria abilità nel ‘lavoro’ da diventare la mano più richiesta dai clienti, che faranno la fila per ‘Irina Palm’.
Il film ricostruisce un periodo fondamentale della vita di Hannah Arendt: quello tra il 1960 e il 1964. All’inizio della vicenda, la cinquantenne intellettuale ebrea – tedesca, emigrata negli Stati Uniti nel 1940, vive felicemente a New York con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher. Ha già pubblicato testi fondamentali di teoria filosofica e politica, insegna in una prestigiosa Università e vanta una cerchia di amici intellettuali. Nel 1961, quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, nascosto sotto falsa identità a Buenos Aires, la Arendt si sente obbligata a seguire il successivo storico processo che si tiene a Gerusalemme. Nonostante i dubbi di suo marito, la donna, sostenuta dall’amica scrittrice Mary McCarthy, chiede e ottiene di essere inviata in loco come reporter della prestigiosa rivista ‘New Yorker’. Hannah nota che Eichman, uno dei gerarchi artefice dello sterminio degli ebrei nei lager, è un mediocre burocrate, che si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi e, d’altro canto, si sorprende nell’ascoltare testimonianze di sopravvissuti che mettono in evidenza la condiscendenza dei leader delle comunità ebraiche in Europa, di fronte ai nazisti. Dai suoi resoconti, e in seguito dal suo libro, “La banalità del male: Eichman a Gerusalemme” (1963), emerge la controversa teoria per cui proprio l’assenza di radici e di memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali farebbero sì che esseri spesso banali (non persone) si trasformino in autentici agenti del male. L’ebreo Kurt Blumefeld, uno dei suoi più cari amici, non riesce a perdonarla per quegli scritti, mentre lo scandalo si diffonde in Israele e negli USA. La presidenza della sua Università è fortemente contrariata, la stampa la attacca violentemente, ma il marito, la sua devota allieva tedesca Lotte Köhler e molti studenti approvano e sostengono l’essenza, apparentemente paradossale, del suo pensiero. Già in passato von Trotta ha realizzato film riguardanti donne “eccezionali” e dissidenti: Rosa L., del 1985, ritratto della leader marxista Rosa Luxemburg, interpretata dalla stessa Sukova, e Vision, del 2009, rievocazione di Hildegard von Bingen, mistica cristiana del XII secolo. In questo caso si tratta di un biopic che, delineando il personaggio in termini personali e di teoria filosofica elaborata dallo stesso, intende propriamente (come dichiarato dalla regista) “trasformare il pensiero in un film”. Si tratta di un tentativo solo parzialmente riuscito. In effetti l’approccio, pur serio, documentato e scenograficamente preciso, risulta spesso didattico. Non mancano aspetti flemmatici, dialoghi troppo prolungati, faticosi e pomposi. Tuuttavia, nel complesso, la costruzione drammatica è efficace. La messa in scena non è audace, ma neppure piattamente televisiva. Privilegia le sequenze in interni, con suggestivi colori grigi che evocano bene gli anni ’60, e riesce a creare un’aspettativa non retorica, né artificiosa. Ne emerge l’isolamento della protagonista e la sua peculiare fisicità (nella meditazione, nell’eloquio e nell’assiduità a fumare), ma anche la rivendicazione ostinata della libertà di pensiero e la coerenza logica, non priva di una certa arroganza intellettuale. Da segnalare anche l’uso intelligente di footage, con immagine autentiche del processo ad Eichman.
Dio è un essere volgare che tiranneggia la moglie e i figli e governa il mondo con il computer in base al principio “odia il prossimo tuo”. JC, il figlio maggiore, è fuggito e ha cercato di rimediare agli errori del padre, ma ha fallito. Ci riprova Ea, la figlia di 10 anni, che invia a tutti gli uomini una mail con la loro data di morte. “Fu giudicato da molti il film più delirante presentato quest’anno a Cannes” (Guillaume Gas). Opera d’arte cinematografica totale che fluisce e refluisce continuamente dal comico al tragico, dal dramma alla satira, dall’ironia alla poesia, dall’iperreale al surreale, dal grottesco all’epico, in un fuoco d’artificio di invenzioni narrative, figurative e registiche di altissimo livello che sorprendono e spiazzano fino a rapirti nella visione e a trasportarti nella dimensione della pura fantasia. L’assunto di partenza – l’esistenza di un Dio sadico che si diverte a torturare gli uomini – può sembrare un’idea balzana: si tratta invece di un’eresia gnostica risalente al I secolo a.C., che fu ripresa nel XII dalla chiesa dei catari, poi annientata con una crociata (1208) dalla chiesa cattolica.
Saoirse è una bambina particolare, a 6 anni ancora non riesce a parlare e prova una strana e fortissima attrazione per il mare. Vive nella casa sul faro con il papà e il fratello maggiore Ben, spesso imbronciato e antipatico con la sorellina che ritiene responsabile della scomparsa dell’amata madre.
Senza documenti – tranne quello falso procurato da un russo che la consiglia di usarlo poco – una bielorussa vive in Belgio da 8 anni con un figliolino, senza nome né lingua madre, dopo essersi bruciata i polpastrelli per eliminare le impronte digitali, con l’angoscia continua di essere arrestata. Finisce al Centro 111 bis, fuori Bruxelles, sedicente Centro di accoglienza… L’ideologia e la prassi dei leghisti italiani esistono anche in altri paesi europei, magari poco distanti dalla sede del Parlamento europeo. Il regista sceglie un approccio documentaristico, con una certa vicinanza ai personaggi, specialmente la protagonista (una funzionale Coesens) e le donne che incontra durante la detenzione. È il suo modo di raccontare dal basso una quotidianità impregnata di paura e debolezza “che rende ciascuno ricattabile e facilmente preda dello sfruttamento” (C. Piccino). Finale aperto, ma non consolatorio.
Giunto a un momento cruciale della sua vita e della carriera, Jean-Claude Van Damme è alla disperata ricerca di denaro per pagare l’avvocato che lo minaccia di mollare la causa per la custodia della figlia. Avendo poco tempo a disposizione si reca nell’ufficio postale di una cittadina belga (dove è tornato nel tentativo di ricominciare da capo) per un money transfer, ma rimane invischiato in una rapina a mano armata. A causa di un terribile malinteso la polizia pensa che sia l’attore in persona a tenere in ostaggio dipendenti e clienti. I rapinatori decidono di sfruttare l’errore costringendo Van Damme a occuparsi della negoziazione.
Pascale vive con i due gemelli ventenni, incapaci di fare una vita autonoma, in una casa di campagna. Pur divorziata da molti anni, continua a litigare con il loro padre, pronto soltanto a fornirli di soldi contanti. Di asfittica e quasi morbosa intimità, la situazione precipita quando Pascale, che si è fatta un nuovo compagno, decide di vendere la casa. 3° film, scritto con François Pirot, del belga J. Lafosse che l’ha girato in piani-sequenza fissi (con molte scene a tavola mentre si mangia). “Volevo che ogni personaggio fosse costretto a uscire dall’inquadratura se voleva allontanarsi. L’inquadratura è come la casa che non vogliamo lasciare” (J. Lafosse). Senza cadere nell’antiretorica alla Gide (“Io vi odio, famiglie”), è una storia lucida e crudele sulla vita familiare chiusa al prossimo. Personaggi disegnati bene per attori cui la regia ha lasciato spazio. I. Huppert ottima come il solito; i due J. e Y. Rénier sono fratelli anche nella vita. In concorso a Venezia 2006.
Un vagabondo di nome Jens arriva nei pressi di un villaggio lussemburghese. È di origine tedesca e non parla la lingua del posto, pertanto viene trattato con freddezza, finché non incontra la figlia del sindaco, Lucy, che se lo porta a letto. Il mattino dopo il padre della giovane accompagna Jens in giro per il villaggio, gli trova lavoro presso un fattore e presto lo invita anche a cena. La comunità sembra accoglierlo senza fare domande e fin troppo calorosamente, anche perché Jens trova nel camper dove alloggia oggetti lasciati da qualcuno prima di lui. Si tratta dello scomparso Georges, che viveva in una casa vicina e forse aveva fotografato nude le donne sposate del paese.
Jean-Christophe è una guardia carceraria che conduce una vita priva di sorprese dividendosi tra il lavoro in prigione e la sua abitazione in cui ha come unica compagnia un pesce rosso. Si iscrive ad un corso di tango e lì fa la conoscenza di una giovane donna, Alice, che attrae la sua attenzione. La ritroverà nel parlatorio del penitenziario a colloquio con due detenuti. Uno, Fernand, è suo marito e l’altro, Dominic, è l’amante. Frédéric Fonteyne fin dal suo esordio con Una relazione privata ha mostrato il suo interesse per la complessità delle relazioni amorose che si possono instaurare tra uomini e donne. Il suo pregio più rilevante, oltre a una costante ricerca estetica, era costituito dal ‘non detto’. Il passato dei personaggi e il loro stesso milieu culturale stavano sullo sfondo. Ciò che contava era il loro esserci ‘qui ed ora’ con, in quel caso, una fantasia sessuale da soddisfare della quale lo spettatore non sarebbe mai venuto a conoscenza. È un peccato che dal film successivo La donna di Gilles abbia ceduto alla tendenza del raccontare troppo; difetto presente anche in questo film, in particolare nella parte finale. Perché fino a quel punto si è attratti da come regista e attori riescano a rendere credibile l’intreccio di relazioni che Alice gestisce con una capacità di seduzione che il tango porta all’ennesima potenza. È attraverso le sue figure e la sua conclamata carica erotica che la danza fa breccia nel grigiore dell’esistenza di Jean-Christophe finendo con il fare da ponte tra l’esterno e l’interno delle mura carcerarie. Perché Fernand, accortosi dell’interesse della guardia, vuole continuare ad essere l’uomo di Alice e quindi chiede a un detenuto argentino di insegnargli i passi. L’iniziale dileggio machista degli altri carcerati finisce con il trasformarsi in una condivisione di passi e di regole che invece che costringere lasciano spazio a una forza dirompente e liberatoria. Fonteyne pedina le reazioni, anche violente, dei suoi personaggi ma, ancora una volta, si lascia tentare dal sovraccaricare il soggetto (scritto insieme all’attrice protagonista e basato in parte su dati biografici) inserendo la figura del figlio adolescente di Alice che sarebbe bastata da sola per un intero altro film e che finisce invece per sfiorare la retorica alterando quella che si presentava come l’intrigante ed elegante fluidità di un passo a quattro.
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