Non è una biografia di Luisa Ferida (1914) e Osvaldo Valenti (1906), uccisi a Milano da partigiani nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, ma una fiction liberamente ispirata alle loro vicende. Sintomatico il personaggio di Golfiero/Taylor (Boni), il 3° per importanza nel cast: inventato, ma ispirato a Luchino Visconti. Prodotto da Angelo Barbagallo, è il caso insolito di un film dove i due sceneggiatori che hanno lavorato con il regista sono morti da molti anni: Enzo Ungari nel 1985 e Leone Colonna nel 1998. Non è facile capire perché Giordana l’abbia fatto: separare il vero dal falso nell’adesione di Valenti (lei ne fu probabilmente succuba per amore) alla repubblica di Salò? Sollevare dubbi sulla loro esecuzione? Rievocare con un’angolazione inusuale un decennio di storia italiana? Suggerire che anche durante la guerra civile 1943-45 fu forte il distacco tra la realtà e il modo con cui era percepita? Dar ragione a chi, come noi, detesta l’uso delle parole giustiziere e giustiziare perché associano l’idea di ius alla morte violenta? Difficile dare un giudizio univoco su questo compassionevole e diseguale melodramma. Zingaretti compone Valenti con un istrionismo da mattatore.
Milano, 12 dicembre 1969. Un’esplosione alla Banca Nazionale dell’Agricoltura fa 17 morti (a loro è dedicato il film) e 88 feriti. Le indagini della Questura – il commissario Luigi Calabresi e i suoi superiori – sono orientate sulla pista anarchica. Tra i fermati c’è Giuseppe Pinelli che, dopo 72 ore di digiuno e insonnia, nella notte del 15 precipita dalla finestra di Calabresi, in quel momento assente. Intanto a Treviso 2 giudici scoprono un gruppo di giovani neonazisti, coperti e infiltrati dai servizi segreti che, guidati da Giovanni Ventura e Franco Freda, sono gli autori della strage. Indicato da membri di Lotta Continua come responsabile della morte di Pinelli, il 17 maggio 1972 Calabresi è ucciso sotto casa. Dal 1979 Giordana continua a fare film ispirati alla cronaca. Questo è il capitolo mancante di La meglio gioventù (2003), pure scritto con Petraglia e Rulli, attingendo al controverso librone di Paolo Cucchiarelli Il segreto di piazza Fontana (2009). Per capire la difficoltà dell’impresa 3 sono i fatti: a) i personaggi “storici”, a diverso livello di peso; b) a sinistra, e non solo estrema, era diffusa la denominazione di “strage di Stato”; c) i materiali sulla strage, anche quelli giudiziari, erano intricati e spesso contradditori. Nel lancio del film c’è l’abuso della parola “verità”: quale? Il livello medio della recitazione è alto, a partire dall’ottimo Favino (Pinelli), il coerente Mastandrea (Calabresi), la sobria Cescon (Licia Pinelli). Personaggio non approfondito e scritto male è la signora Calabresi della Chiatti, ma in compenso c’è uno straordinario Gifuni (Aldo Moro un po’ troppo oracolare). Il film tende a discolpare Calabresi, ma la sua corresponsabilità oggettiva nelle 72 ore dell’interrogatorio di Pinelli è occultata. Distribuisce 01. 3 David di Donatello: attrice (Cescon) e attore non protagonista (Favino), effetti speciali visivi (Stefano Marinoni, Paolo Trifoglio).
Siciliano erotomane fa un triste bilancio di una vita consumata nell’egoismo. Tratto dall’ultimo romanzo di Vitaliano Brancati, pubblicato postumo (1954) e incompiuto, il film non rende giustizia a un’opera difficile e da leggere in controluce, estraendone gli aneddoti e privandoli di spessore.
Assai diverse tra loro, Beatrice, Bianca e Billie hanno una cosa in comune: i loro mariti lavorano nella stessa banca (direttore, cassiere, guardia) e s’involano verso l’Argentina con un bottino di nove miliardi. Le tre partono per Buenos Aires alla loro ricerca e durante un viaggio in tre tappe verso la Patagonia imparano a conoscersi, a conoscerli e a fare a meno di loro. Scritta da Silvia Napolitano e riveduta dal regista, anche produttore, è un’ingegnosa e spiritosa commedia di viaggio al femminile che pecca di ridondanza nel sottolineare i temi del discorso e nel non fermarsi al finale giusto: “15 000 km per tornare a lavorare in banca!”. Nel trio perfettamente affiatato delle 3 protagoniste, spicca il brio di I. Forte.
Un anno di servizio militare in una caserma del Friuli. Tra le varie vicende che s’intrecciano spicca il rapporto conflittuale tra il soldato Scanna (C. Amendola) e il tenente Fili (M. Dapporto). Sorpresa finale. Prima di Mery per sempre (1989) Risi junior aveva mostrato le sue qualità con questo film corale dolceamaro, erede della migliore tradizione della commedia italiana. Attori affiatati. Qualche sbandamento per eccesso di ambizioni.
Ricostruzione, in forma di docudrama con la mescolanza di immagini “finte” e di materiale di repertorio in bianconero, del processo contro Pino Pelosi per la morte di Pier Paolo Pasolini, ucciso nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 sul lido di Ostia. Giordana e i suoi sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia non pretendono di raccontare la verità su quella morte, ma di spiegare perché quella verità non s’è mai saputa e perché la prima sentenza che condannò Pelosi per omicidio “con il concorso di ignoti” sia stata cassata nelle sentenze successive, rimossa dall’opinione pubblica, dimenticata. Nel film, montato con accorta efficacia da Cecilia Zanuso, di Pasolini si vede il volto, e si ascolta la voce, soltanto nei frammenti di repertorio. Qualcuno gli ha prestato un corpo, ma non il viso, nelle convulse e notturne sequenze dell’omicidio. Si risolve in un atto di accusa contro la putrefazione, l’indegnità, le pesanti responsabilità di una classe dirigente contro la quale in vita Pasolini s’era scagliato nei suoi scritti corsari.
Anni Cinquanta. Domenico ha 14 anni e vive da solo con il padre Pietro da quando la madre è morta in circostanze misteriose. Pietro, uscito di galera, è il bersaglio della piccola comunità montana che lo considera “una bestia”. Quando in paese si ripresenta el Diàol, il diavolo, un orso che ha già mietuto vittime in passato, Pietro intuisce la possibilità del suo riscatto: dunque scommette con il padrone della cava di pietra locale, Crepaz, che ucciderà l’orso. Se riuscirà nell’impresa guadagnerà una somma enorme per l’epoca e la zona. Se invece fallirà, regalerà un anno del suo lavoro di spaccapietre a Crepaz. Anche per Domenico la caccia all’orso è un’occasione: per riavvicinarsi al padre, mettere alla prova la propria abilità con il fucile, e dimostrare che non è un bocia, ma un giovane uomo pronto ad affacciarsi alla vita adulta.
Dodicenne figlio unico di una famiglia bresciana di imprenditori metallurgici, Sandro va in crociera nel Mediterraneo col padre sullo yacht di un amico. Di notte cade in mare. All’alba è salvato da un giovane rumeno che, con la sorella, viaggia su un barcone di emigranti clandestini. Con loro sbarca in Italia, entra in un centro di accoglienza e riabbraccia i genitori. Qualcosa in lui è cambiato. Scritto, come La meglio gioventù , con Rulli e Petraglia (da un romanzo, 2003, di Maria Pace Ottieri), il film c’è. M.T. Giordana è un agguerrito story teller , ha la bêtise di un narratore di razza che non sacrifica la comunicazione allo stile. La struttura è solida e coerente, frutto di una scelta precisa: racconta la storia esclusivamente con gli occhi del ragazzino che cresce a duro contatto con la realtà, scoprendone la complessa ambiguità. A confronto con uno dei problemi centrali – l’immigrazione – dell’Italia nel 2000, parla di una catena di solitudini parallele. Tutti sono soli: i genitori, i due fratelli (o amanti?), il prete che li assiste, lo stesso Sandro. È solitario, nella sua tristezza, anche il finale aperto in cui non c’è più un bambino. Girato in formato anamorfico per schermo orizzontale con Roberto Forza alla cinepresa. 3 Globi d’oro: film, A. Boni, M. Gadola.
È il primo film scritto, diretto ed interpretato da Aldo Fabrizi. Il lungometraggio narra la storia di una famiglia che si trasferisce in Argentina, si prodiga per migliorare la vita degli emigranti e mette le radici della stirpe futura.
In Russia, nel Medioevo, i tartari litigano con i vichinghi. Entrambe le fazioni hanno in ostaggio una principessa dell’altra, ma un bieco capo mongolo violenta la donna che ha in suo potere che, disonorata, si suicida. I normanni vorrebbero restituire la pariglia, ma non possono perché un loro capo è innamorato della ragazza. La battaglia finale si risolve in un massacro da cui si salvano solo i due innamorati.
Lezione di storia del cinema raccontata dalla parte dello spettatore, della sala: una lezione sul cinema che non c’è più. Sciamannata più che accademica, ravvivata da paradossi e freddure, ma anche astratta, torbida, funebre. L’autore voleva intitolarlo La casa dei poveri , perché ci andavano soprattutto loro: per divertirsi, evadere, sognare, ma anche per vivere, stare insieme, parlare, pomiciare o imparare l’inglese come gli immigrati europei negli Stati Uniti. È un viaggio in un mondo perduto dove si parlano molte lingue, persino l’ungherese, perché Ferreri lo girò gran parte in Ungheria dove le comparse costano meno e si trovano ancora le faraoniche sale del tempo che fu. Stracolmo di citazioni eterogenee dove sono stati impiegati 240 attori (nel senso che dicono almeno una battuta, ma al cinema I. Forte partorisce, scompisciandosi dalle risate per Charlot) e 12 000 comparse. Molti riferimenti alla storia e ai suoi orrori: guerre, dittature, nazionalismi, censure, lotta di classe, scioperi. È il 27° e ultimo film del milanese Ferreri (1928-97). Con una “fascinosa mescolanza di aristocratico e volgare” (T. Masoni) ha evocato un fantasma. Il titolo non è esatto: nelle vecchie pellicole in bianconero c’erano o nitrato di cellulosa o bromuro d’argento.
Biografia di Diego Armando Maradona (1960), calciatore argentino, uno dei più grandi n. 10 del mondo, forse il più famoso. Infanzia, a 16 anni già in 1ª squadra al Boca Juniors, al Barcellona (1982), al Napoli (1984), con cui vinse 2 scudetti (1987 e 1990) e 1 coppa UEFA (1989); porta alla vittoria la nazionale argentina nei Mondiali 1986, lo squalificano in quelli del 1994 per uso di sostanze illecite. Nel 2004 è a Buenos Aires in sovrappeso, in depressione, in lotta con l’uso e l’abuso di cocaina. Scritto da Manuel Valdiva, César Vidal e Manuel Rìos, il 12° film di M. Risi ha una 1ª parte migliore della 2ª dove eccede in ridondanza. Il Leitmotiv della caduta nel pozzo nero è una metafora così artificiosa che stucca tra passato e presente. All’attivo anche Leonardi, e non soltanto per la somiglianza fisica. Veri gol di Maradona a josa. Prodotto da Elide Melli. Distribuisce 01.
La parola anoressia (dal greco órexis = appetito) non si pronuncia mai nel 2° film di Pozzi, ritratto di Sara, figlia della borghesia medio-alta nella Milano di oggi, adolescente anoressica. Un lungo avvio muto la mostra mentre, sola in casa, ingoia freneticamente biscotti e latte e, invisibile allo spettatore, li vomita. Sara ha una specie di doppia vita: in una è brava, intelligente e studiosa; nell’altra, segreta a tutti, si occupa del suo peso che oscilla tra i 46/47 e i 50/51 chili. Lei punta sui 38, peso perfetto. Più dimagrisce, più si sente potente, invincibile. Corteggia la morte, cerca l’assoluto, rifiuta la realtà del prossimo. Elitario nelle immagini, ellittico nel racconto, Pozzi non spiega: suggerisce, insinua, allude. Per alleggerire svicola nel surreale e innesta ricordi d’infanzia, ma complica: risultano incongrui (la morte della nonna per esempio). Visto il film, è difficile dimenticare gli occhi grigioverdazzurri della Gargari, scelta dopo centinaia di provini. Distribuito da Movimento Film-Lo scrittoio. Gargari premiata al festival di Annecy 2011.
Il 27 giugno 1980 un aereo DC-9 precipita nel cielo di Ustica. Un giovane e bravo giornalista di un quotidiano milanese fa l’ipotesi di un missile, sdegnosamente smentita dalla autorità militari. Nove anni dopo sono tutti sotto inchiesta. Scritto dal giornalista Andrea Purgatori del Corriere della Sera con Rulli & Petraglia, è un buon esempio di cinema giornalistico e civile: ogni sequenza dà una notizia, la ricostruzione di un fatto di cronaca diventa un apologo forte sul potere politico-militare e le sue vergogne.
Il prof. Rossini (Merli), giovane docente antifascista, finisce al confino nell’isola di Ventotene e dialoga con un colto esponente del fascismo in camicia bianca. Duello di idee. Intanto, però, a contatto dei proletari comunisti suoi compagni di confino, Rossini colora di marxismo le sue idee liberali. Scritto con Lino Del Fra e Cecilia Mangini, qua e là irrigidito da schematismo ideologico e didattico, è uno dei più notevoli film politici degli anni ’70. Memorabile interpretazione di Celi nella parte del commissario di polizia, presumibilmente ispirato al padre del regista. Rossini è personaggio immaginario, ma rappresenta i 13 docenti universitari (su 2989) che rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista e furono esonerati dall’incarico.
Giancarlo Siani è un giovane praticante, impiegato “abusivo” per il Mattino col sogno di un contratto giornalistico e di un’inchiesta incriminante contro i boss camorristi e i politici collusi. Lucido e consapevole, Siani si muove tra Napoli e Torre Annunziata, un avamposto abbattuto dal terremoto e frequentato dagli scagnozzi armati di Valentino Gionta. Indaga, si informa, verifica i fatti e poi scrive pagine appassionate e impetuose sui clan camorristi e sulla filosofia camorristica. Era il 1985 quando Vasco Rossi cantava “ogni volta che viene giorno” e un giornalista di ventisei anni moriva assassinato per “ogni volta che era stato coerente”. Gli ingredienti per realizzare l’ennesima agiografia di una vittima (dimenticata) della camorra c’erano tutti. C’era la vicenda personale di Giancarlo Siani, c’erano gli Ottanta, quelli dei tangentisti e dei faccendieri, delle commesse e della corruzione, delle spese inutili e della burocrazia gonfiata, degli omicidi del generale Dalla Chiesa, c’era un Paese sordo alle idee di Siani che scriveva (e lavorava) per un’Italia migliore, c’era l’inevitabile sacrificio finale. Ma Marco Risi non ha realizzato un altro film sulla camorra, concentrandosi esclusivamente sulle tappe di avvicinamento di Siani prima a una consapevolezza di sé e della lotta politica, poi a una strategia letteraria e provocatoria. La camorra è in ogni gesto di chi si oppone a Siani, in ogni silenzio indifferente, nelle grottesche indagini dei carabinieri, nella “clemenza” della magistratura, nelle assurde pratiche rituali di “guappi” spietati e armati, che intendono porre la corruzione e la violenza come norma fondamentale di convivenza sociale. Risi, all’interno del medesimo spazio (Torre Annunziata), distingue due campi contrapposti, determinando il fronteggiarsi delle due parti: i villains che utilizzano la forza della pistola per ascendere l’empireo della carriera camorristica, l’eroe che avvia la sua opera di progressiva e inarrestabile bonifica dell’illegalità con la macchina da scrivere, puntando sul valore della persuasione. Sullo sfondo c’è Napoli e l’isteria collettiva che circondava nel 1985 Maradona, involontario capopopolo, occasione di riscatto, speranza di rivalsa calcistica e sociale, sul ricco Nord da parte del garzone del macellaio e di una città pronta ad osannare e a stritolare. Napoli come corpo corruttore e Napoli generatrice di “antidoti” capaci di riequilibrare moralmente l’ordine esistente. Napoli, ancora, sede del “Mattino”, che invia in un polveroso avamposto battuto dai fuorilegge un giornalista eroico, immagine della possibilità di progresso e fertilità contro l’aridità e l’improduttività dell’arroganza. Dopo il vuoto e la degradazione giovanile dei suoi ragazzi fuori, che hanno la Lazio come sommo ideale, che alimentano la loro forza con un linguaggio osceno, che scelgono la via dell’omologazione passiva e che hanno bisogno del branco per riconoscersi, il regista milanese si concentra su un ragazzo solare senza lati oscuri, isolato dai politici di palazzo in un non luogo sventrato e svuotato per essere riempito dall’eccitazione del business e poi affondato nei liquami chimici. Se il Maradona di Risi (Maradona – La mano de Dios) non ha mai smesso di cercare il suo pallone, Siani non ha mai smesso di cercare la verità e di morire per questo giovanissimo dentro la sua Citroën Mehari e sotto il cielo di Napoli. Risi coglie l’importanza della solitudine in cui viene abbandonato Siani e la spirale dentro cui viene fatto scivolare lentamente fino al massacro del settembre ’85. Con la linearità di un cinema che non ha tesi da dimostrare ma una bruciante urgenza di raccontare, Fortapàsc mette in piazza una classe politica che mira alla propria autoconservazione, una società incivile che chiede la legittimazione di essere incivile e un giornalismo (impiegatizio) che continua a ignorare le proprie responsabilità nel degrado sociale, etico, linguistico e culturale del Paese.
Una delegazione del cinema italiano giunge a Buenos Aires per partecipare al Festival di Mar del Plata. Traffici, maneggi, intrighi. Commedia spesso sopra le righe, bruciata alla brava per offrire pretesti agli attori che ne profittano fin troppo, ma con due o tre scene azzeccate. “Soffrì molto di essere girato in un paese assai disorganizzato. Le cose non funzionavano, andavamo tutti un po’ in fretta… a rivederlo guadagna… aveva una carica di volgarità e di cattiveria umoristica genuina… Avevamo un po’ perso la misura. Ma il film non era stupido” (V. Gassman).
Architetto ipocondriaco si rinchiude in un bungalow a copulare con Francesca che gli procura un’erezione permanente. Quando lei sta per andarsene, la uccide e la mangia a fettine. Pur con estri e sprazzi, è un film di riporto con le polveri bagnate, una provocazione un po’ futile e meccanica. F. Dellera non recita, esiste, corpo d’amore spinto all’eccesso, all’artificio.
Cresciuta in una famiglia di Testimoni di Geova, Giulia crede in quello che fa, studia, predica. È vergine per scelta fino a quando incontra Libero, un coatto sregolato ma pieno di vita. Contro ogni aspettativa, se ne innamora e trova la forza di fuggire da un ambiente che di colpo vede represso e reprimente. Ma la scoperta della libertà e del mondo, la porteranno a fuggire anche da Libero. Per la sua strada. La Serraiocco è brava e rende reale e credibile il personaggio. Danieli (David di Donatello come miglior esordiente) sa di che cosa parla ed espone con onestà i temi della religione e dell’esclusione. Il finale è positivo e forse un po’ troppo ottimista.
Commedia, durata 102 min. – Italia 2006. – 01 Distribution uscitamercoledì 14febbraio 2007. MYMONETRO Notte prima degli esami – Oggi valutazione media: 2,46 su 348 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Per Luca Molinari c’è una nuova notte da far passare prima dell’esame di maturità. È l’estate del 2006: le Vibrazioni hanno preso il posto di Raf, l’i-pod quello del walkman, la nazionale di Lippi quella di Vicini. Luca è innamorato di Azzurra, una fanciulla estroversa ed emancipata che sogna di diventare biologa marina lontano da Roma. Nella Capitale, dove Luca vive coi genitori e i suoi inseparabili amici Alice, Massi, Simona e Riccardo, fervono i preparativi per la finale dei mondiali di calcio. In quel clima di attesa sportiva, Luca strappa una notte d’amore ad Azzurra, Alice si fa amare una notte sola da Luca, Massi si fa piantare da Simona, Riccardo si fa prendere a pugni da Massi per Simona. Gli adulti intorno a loro fanno falli da espulsione ma poi Fabio Grosso segna il rigore e tutti diventiamo, almeno un po’, campioni del mondo. Era il 1923 quando il filosofo Giovanni Gentile introdusse l’esame di maturità, croce e delizia degli studenti italiani. Era invece il 1984 quando Venditti scrisse “Notte prima degli esami”, fissando per sempre tensioni e pensieri intorno alla “maturità”. L’opera prima di Fausto Brizzi passava dunque per questa canzone e per le canzoni, quelle dei quieti anni ’80, messe in scena insieme a un liceo romano, a un gruppo di amici e a un ragazzo con poca voglia di studiare e tanta di innamorarsi. L’investimento produttivo fu contenuto, il successo commerciale, quasi 12 milioni di euro, straordinario. Brizzi aveva saputo inventare e gestire un mondo narrativo solido accompagnato da un immaginario musicale e simbolico condiviso dagli over 30 ma “riconoscibile” dai nuovi maturandi. Squadra vincente non si cambia ma si replica, inventando la formula “oggi” e trasferendo, proprio come si farebbe coi personaggi dei fumetti, i protagonisti avanti nel tempo. Cambia l’anno di maturità e cambia pure il risultato, perché la magia della versione “1989” sembra esaurita. Eppure i personaggi sono gli stessi, portatori ancora una volta di situazioni familiari e spunti narrativi che generano conflittualità, poi appianate. Stesso lo scioglimento, l’esame superato e l’oggetto del desiderio fuggito, svanito come il sogno di Zidane di essere campione del mondo e di savoir fare. A mancare è il professor Martinelli di Giorgio Faletti, capace di sviluppare un carattere e di metterlo in relazione dialettica coi suoi studenti: lui è l’istituzione della maturità, il dinosauro da abbattere per maturare, l’adulto che educa e non da educare, come il Paolo di Panariello. Manca l’obiettivo di gruppo, la solidarietà “carpe diem” dell’epilogo non è affine alla storia raccontata fino a quel momento. Manca l’ensamble, il gruppo di studio e quello ludico, e prevale il percorso individuale, nella piscina festosa dei Wild Boys rimane soltanto Luca e il suo sentimento per Azzurra. La retorica fornita dalla musica è sostituita da quella calcistica, più facile, ruffiana e ammiccante. Fischio di ammonizione e una stella in meno.
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