Sulle rive del Po giace stecchito il corpo di un operaio. Ma non è morto. È bloccato da Omicron, messaggero invisibile del pianeta Ultra. Rianimato, ne combina di grosse. Lo spunto fantascientifico è un pretesto per una satira di costume che parte con allegra grinta e poi perde colpi e scende di livello.
Leonardo è un poliziotto in prima linea con una fidanzata che non si decide a sposare. Durante una rapina a una banca e nel tentativo di fermare i banditi di turno colpisce e uccide accidentalmente una giovane donna. In preda al rimorso attacca al chiodo la pistola e sceglie una vita riparata dietro una scrivania. A ‘stanarlo’ ci penserà Sandrine, ragazza bionda e suadente con un segreto, un piano e l’intenzione di innamorarlo. Nel conflitto ‘a fuoco’ questa volta è Leonardo a cadere, compromettendo la sua vita privata e quella pubblica. Invaghitosi senza ritorno di Sandrine ne seguirà sedotto e dominato i movimenti del cuore, perdendosi e perdendola.
Il film di Toni Trupia ci riporta indietro alla fredda Germania industriale degli anni ’60, e ai suoi lavoratori multietnici: italiani soprattutto, “Itaker” in tono dispregiativo, turchi e altri disperati. La fotografia dai toni decolorati tinge l’ambiente dell’immigrazione di quei tempi, non molto distante da quella di oggi.
Primo inverno. 1999. Camilla lascia il paese d’origine e si trasferisce a Venezia per frequentare l’università. Sul vaporetto incontra Silvestro: il sorriso chiaro, le idee molto meno. Un po’ per fato e un po’ per intenzione, il ragazzo perde l’ultima corsa della sera e passa la notte insieme a lei. È l’inizio di un amore che chiederà dieci anni per riconoscersi come tale. In mezzo scorrono l’amicizia, la paura, il dubbio, le impennate di orgoglio, l’incredulità.
Innamoratosi di una fotomodella, un disegnatore vorrebbe sbarazzarsi della ricca moglie. Conosce un conte che gli fa una proposta: io ammazzo tua moglie se tu ammazzi mio fratello. Il disegnatore rifiuta, ma il conte elimina ugualmente la donna. Sospettato del delitto, il disegnatore è costretto, per scagionarsi, a ricambiare il “favore” al conte.
La banda di Trevor Northon fa un colpo grosso in una banca di Abilene. Sulle sue tracce si mette Django, spietato bounty killer, ma altri puntano al malloppo. Entra in scena un sedicente fratello di Northon, padre della bella Sally. Russo di origine, argentino di nascita, L. Klimovsky (alias Henry Mankiewicz) lavora dal 1958 in Spagna da regista buono per tutti i generi dell’azione violenta. Western andaluso-ciociaro fortemente contaminato dal poliziesco.
A Tombstone il famigerato Sartana è incolpato di crimini che non ha commesso. Lo crede anche il pistolero Django che lo sfida. 2° film, dopo Io e Dio, di Pasquale Squitieri (1938) che si firma William Redford. Dopo aver raggiunto il picco produttivo nel ’68 (72 film), lo “spaghetti-western” era in declino: nel ’70 ne furono realizzati 31. Questo è piuttosto scotto con molta salsa.
Django smaschera un disonesto banchiere che era socio di suo padre e ne ha provocato la morte, dimostrando l’innocenza del defunto e potendo poi riscuotere l’eredità. 6 sceneggiatori per questo “spaghetti-western” in salsa andalusa, uno dei 46 prodotti nel 1966, lo stesso anno di Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone.
Django, unico superstite di un reparto massacrato dai nordisti, decide di vendicare gli amici morti. Uno degli 8 “spaghetti-western” all’insegna di Django. Anche nel teatro elisabettiano c’erano i drammi di vendetta, ma allora si sapevano fare variazioni sul tema più vivaci.
Django compare a piedi _ occhi azzurri, passo pesante, cappellone sugli occhi _ con la sella in spalla, trascinando una bara. Dopo 3 minuti ci sono 9 morti ammazzati. Allo scoccare della mezz’ora, siamo a quota 48. Il regista non si fa più passare per Sidney Corbett e, col nome vero, firma anche soggetto e sceneggiatura. L’inverosimiglianza della vicenda, le psicologie, i dialoghi, l’umor nero, sfiorano il delirio. Il film ebbe tanto successo che in Germania furono distribuiti altri 27 “spaghetti-western” il cui titolo comincia con Django.
Una giovane, che il nobile seduttore ha mandato in manicomio, ne esce per un periodo di prova. Unitasi ad un bracconiere, passa da un’avventura all’altra e finisce in prigione; fugge, ma…. Film interessante anche se abbastanza complesso.
All’inizio della seconda guerra mondiale Walter Schellenberg, giovane generale delle SS, ha l’idea di trasformare il “salon” (bordello di lusso) gestito a Berlino da Kitty Schmidt, in una centrale d’ascolto e di sorveglianza, sostituendo le professioniste del sesso con dilettanti scrupolosamente selezionate, di sicura fede nazional-socialista. Da questo fatto vero di cronaca il poliedrico sceneggiatore Ennio De Concini sviluppa una fiction dove nel lupanare nazificato del potere nasce l’amore con l’iniziale maiuscola e si diffondono idee di libertà e ribellione. Da questo cocktail di sesso, nazismo, svastica e perversioni erotiche (di moda sullo schermo negli anni ’70 dopo il successo di Portiere di notte ) T. Brass cava un film per uomini soli con un apporto figurativo di prim’ordine dove bisogna continuamente levarsi il cappello per salutare il passaggio di Visconti, Bertolucci, Cavani, Chaplin, Barbarella, l’ Histoire d’O , Arancia meccanica , Cabaret , persino Freaks e la commedia all’italiana. Bocciato dalla censura amministrativa, ottenne il visto di circolazione dopo aver subito 16 tagli concordati tra i censori e il produttore Giulio Sbragia. Inutilmente Brass cercò per vie legali di far togliere il suo nome dai titoli.
Avventurose peregrinazioni di una ragazza che respinge il fidanzato borghese e il mondo che rappresenta, fuggendo, prima delle nozze, per un viaggio stravagante attraverso le istituzioni della società. Ovvero quando Brass faceva ancora della sana sperimentazione, sconvolgendo la struttura narrativa e del linguaggio cinematografico, con gusto acceso della provocazione, estro satirico, aggressività orgiastica. È un film del ’68 (dissequestrato nel ’74). La voce di T. Aumont è quella di Mariangela Melato.
1° film di Giovanni Brass, in arte Tinto (1933). Bonifacio, giovane veneziano disoccupato e anarchico, fa una serie di strani incontri. Sullo sfondo di una Venezia inedita, è un film impregnato di veneta bizzarria libertaria che, tra scompensi e cadute di gusto, ha scatto, estro e qualche pagina di forza sconsolata, a mezza strada tra Rossellini e Godard. La censura impose tagli, modifiche e il cambio del titolo con In capo al mondo .
Nel 1998 Van Sant fece il clone di Psycho (1960) di Hitchcock con qualche variante. L’operazione di Haneke è diversa, meno gratuita. Ha accettato la proposta del produttore britannico Chris Coen di rifare il preciso remake di Funny Games in lingua inglese (“La lingua franca della violenza”) e in ambienti USA. Come un autore/regista teatrale, rimette in scena un suo testo con una nuova compagnia di attori e con mezzi meno artigianali. Inquadratura per inquadratura, dicono: dovremmo rivedere oggi il 1° film (in DVD si può) per stabilire quanto sia vero. Alcune differenze si sono già notate, ma conta poco. Importa che siano già passati 10 anni. Il suo è uno psicodramma da camera, adeguato al suo titolo (giochi ma perfidi), fondato su contrasti estremi. Decostruisce e dissacra la violenza audiovisiva, spiazza e mette sotto accusa gli spettatori assuefatti ai canoni di quella hollywoodiana e televisiva. In questi 10 anni la sua dose è molto aumentata, obbligando le censure a spostare in avanti i paletti del filmabile. Perciò questo rifacimento è probabilmente più riuscito del primo e, comunque, più significativo, efficace ed emozionante. Al risultato hanno contribuito gli interpreti anglosassoni, prima fra tutti la Watts. In Italia coproduce e distribuisce Lucky Red. V.M. 16 anni.
Giovane ammalata di leucemia e abbandonata dai genitori in un ospedale di Mont St. Michel in Francia conosce un pianista semifallito che decide di aiutarla. Lacrimoso-sentimentale-melodrammatico di basso profilo.
Strano oggetto cinematografico The Wholly Family. L’ultima fatica di Terry Gilliam- breve ma intensa, 5 giorni di set- è un cortometraggio prodotto da Pasta Garofalo, già molto attiva nel product placement e con all’attivo opere brevi di Edo Tagliavini, Pappi Corsicato e Valeria Golino, il cui Armandino e il MADRE ha anche portato a casa un Nastro d’Argento. Pur essendo un’azienda nota per la sua ottima pasta a finanziare il progetto, però, il lavoro dell’ex Monty Python risulta incompleto e farraginoso, cucinato male nonostante tutti gli ingredienti siano giusti. Risulta evidente da due-tre momenti niente male, come l’assalto dei Pulcinella al bambino (Nicolas Connolly) o il finale apparentemente pacificato e in verità perfido. Anche perché è proprio in quei fotogrammi che si vede e si sente tutto l’autore di Brazil e Parnassus.
Ogni tanto il cinema si assume il compito di ricordarci che ci sono genocidi per cui i “difensori della liberta e della democrazia” si indignano e dispiegano le loro forze ed altri in cui lasciano fare voltandosi dall’altra parte. Perche’? Ognuno puo’ trovare da se’ la risposta. Il fatto pero’ resta. Incontrovertibile. In Ruanda,all’inizio degli anni ’90, un milione di Tutsi e’ stato letteralmente massacrato dai rivali Hutu senza che la comunita’ internazionale facesse nulla, se non lasciare a poche forze dell’Onu il compito di un’interdizione di scarsa efficacia. Questa co-produzione anglo/italo/sudafricana (tra gli interpreti il nostro Citran, Nick Nolte e un non accreditato Jean Reno) ce lo ricorda con le forme proprie del cinema spettacolare. Non si fa polemica in “Hotel Rwanda” ma si parla alla coscienza degli spettatori grazie alle vicende di uno ‘Schindler’ africano. Paul Rusebagina, un africano direttore di un Hotel della catena Sabena, riusci’ a salvare piu’ di 1200 persone grazie al coraggio personale e a un altruismo che gli impediva di veder morire la gente senza far nulla. Il film non edulcora la situazione ne’ fa del protagonista un santo. Ci racconta, molto semplicemente, una storia che la nostra coscienza e i nostri media hanno cancellato probabilmente perche’ “non interessante”. Gia’ questo dovrebbe fornirci materia di riflessione sulla cosiddetta “informazione”.
Film d’autore a costo più che basso, autobiografico, distribuito solo in DVD, opera 1ª, è la storia di una ragazza borghese che, entrata in un gruppo di amici punk e diventata morosa del tossico perso Zanna, limita il suo disagio ribelle e trasgressivo senza farsi di droghe e frequenta una scuola di cinema per riuscire ad esprimersi: “un viaggio nel mondo dei punk e dei tossici milanesi, dei ravers bolognesi … compiuto dall’interno, senza luoghi comuni o compiacimenti, ma piuttosto con ironia e tenerezza” (A. Di Martino). V.M. 14 anni.
Dopo la caduta del muro (1989), comincia nei Paesi dell’Est postsocialista la corsa all’oro di disinvolti imprenditori dell’Ovest capitalista, attirati dal basso costo della manodopera. In un paese ungherese arrivano su un’Alfetta rossa due italiani che si inventano una fabbrica di scarpe a sfruttamento intensivo e precario nel tempo: Gerardo è il tipico italiano all’estero che tra carinerie e canzoni di Celentano (“Azzurro” a tutto spiano) seduce gli indigeni; di Mario, il vero padrone, s’innamora la passionale Veronica. Scritta con Máargit Halász da Almási, rinomato documentarista, la commedia inclina al bozzetto con vivacità garbata e piccole gag quasi surreali, mescolando con leggerezza la serietà sociologica del contesto con la pittoresca descrizione delle figurine.
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