Ronda di personaggi sfasati e alla deriva sullo sfondo di una Roma notturna, disordinata e allucinata subito dopo la liberazione, ancora dominata dalla presenza delle truppe alleate. È uno dei film italiani più eccentrici e “maledetti” del dopoguerra, frutto di una bizzarra contaminazione tra neorealismo e influenze della cultura francese. Nonostante le firme di molti sceneggiatori tra cui Zavattini, è un tipico frutto dell’ingegno originale e eterodosso di Ennio Flaiano, autore del soggetto, che si meritò un Nastro d’argento 1947-48 e che vi compare nel piccolo ruolo di un questurino. Girato quasi per intero in esterni con la fotografia di Aldo Tonti. Fra i personaggi principali spicca uno straordinario V. De Sica come ministro smemorato. Ebbe un’effimera uscita in sala soltanto nel 1948 e un successo di prestigio nel 1949 al Festival dei film maledetti di Biarritz.
Tratto da The Canterbury Tales, l’opera maggiore e incompiuta del poeta inglese Geoffrey Chaucer (1343-1400). In cammino verso Canterbury per onorare le spoglie dell’arcivescovo Thomas Beckett, Chaucer (Pasolini) e altri pellegrini raccontano storie e aneddoti. Tra i 24 che compongono la raccolta, il regista ne ha scelti 8, talvolta liberamente rielaborandoli o inventando. Tra Il Decameron (1971) e Il fiore delle Mille e una notte (1974), è il 2° film della cosiddetta “trilogia della vita”, e il meno riuscito. Chaucer è un grande umorista; Pasolini è talvolta ilare, ma quasi privo di umorismo. Nell’uno c’è gaiezza in penombra, nell’altro tetraggine. Il primo è licenzioso, il secondo scurrile con una programmata provocazione in cui entrano, forse, anche il calcolo e un esibizionismo quasi infantile. A livello figurativo sono innegabili l’occhio e il gusto di Pasolini, ma non c’è più l’orecchio, almeno nell’edizione italiana. Non mancano le figure azzeccate (L. Betti, F. Citti) né gli episodi riusciti, ma l’amalgama non convince. Orso d’oro a Berlino. In Italia V.M. 18.
Bella italiana sposa ricco dei Caraibi, diventa amica di un’indigena e si fa affascinare da riti magici, culto del dio serpente incluso. Sullo sfondo di immagini folcloristiche, una commedia imperniata su erotismo e magia insulsa. Involontariamente ridicola. Nella colonna musicale di Augusto Martelli Djamballà ebbe un certo successo discografico.
Nella Firenze umbertina Metello, giovane muratore, ama Viola, sposa Ersilia, la tradisce con Idina, partecipa alle lotte sindacali e politiche con anarchici e socialisti. Dal romanzo (1955) di Vasco Pratolini Bolognini, raffinato illustratore, ha cavato un film prezioso nella rievocazione di un’epoca, attento alle psicologie dei personaggi, un po’ debole sul versante sociale e politico. La fotografia di E. Guarnieri si rifà scrupolosamente alle foto Alinari dell’epoca.
Nicola passa il tempo bevendo e fingendo che sta smettendo di bere. Questa è la storia sua e di tanti altri personaggi che incontra per un destino o per caso come in un road movie. Perciò è anche la storia di Sabatino che truffa le assicurazioni. Pure il Concellino vive truffando le assicurazioni, ma vuole fare carriera. È la storia di Salvatore, figlio di Anna e forse anche di Nicola, ma Anna è una prostituta e non lo sa chi è il padre di suo figlio. È la storia di Sofia che dice che scappa in Spagna con l’amica. Lo dice, ma poi resta a Cinecittà. È la storia dell’Abruzzese che fa il carrozziere, ma anche il parcheggiatore notturno. È la storia di Sasà che una notte finirà peggio di tutti nella stanza di una questura di periferia. E in mezzo a tutte queste storie c’è quella dell’americana che gira l’Italia vestita da sposa. Quella di cui sopra è la sintesi della trama che si può trovare sul catalogo delle “Giornate degli Autori” del Festival di Venezia 2015 ed espone con precisione tutte le vicende che percorrono il film di Celestini. A fare da fondamentale trait d’union è appunto Nicola ma si potrebbe chiamare anche Ascanio perché lo sguardo di comprensione con cui l’attore/regista si rivolge all’umanità dolente (ma non del tutto vinta) che popola il film è il suo. A fare da bussola e da chiave di lettura è la battuta pronunciata da Nicola/Ascanio in apertura e che ribalta il finale del Pinocchio collodiano. L’essere umano è buffo, meglio il burattino. Perché l’essere umano celestiniano è fragile e contraddittorio. Cerca il prossimo ma al contempo lo teme. Fa propositi che poi non mantiene e cerca di sopravvivere ai margini del luogo dove la finzione si fa arte (Cinecittà). Anche vivendo al limite della legalità o addirittura superandolo cercando una bellezza che è negata sia dagli esterni che dagli interni, siano essi un’abitazione/ricovero degradata o un bar di periferia ultimo approdo di chi vorrebbe raggiungere un porto sicuro. Magari con in mano una bottiglia di vino con un fiocco rosso
Dal romanzo omonimo di Elvira Dones, l’interessante e difficile esordio della Bispuri sulla storia di Hana, nata in una regione montana dell’Albania, dove le donne non hanno alcun diritto e mille proibizioni. Seguendo il codice Kanun, Hana fa voto di castità e sceglie di essere uomo, con il nome di Mark. Va in città dalla sorellastra Lila che vive con la figlia adolescente Jonida e si confronta con realtà femminili molto diverse dalla sua, ma pur sempre di vittime di costrizioni sociali. La storia di una donna in cerca di libertà, apparentemente molto lontana dalla nostra realtà culturale, pone vari spunti di riflessione sul ruolo della donna nella società di oggi. E la Rohrwacher – brava e intensa – recitando in albanese riesce a rendere in modo particolarmente efficace il disegno di un personaggio dall’identità incompleta, rimasta in bilico. Unica presenza italiana alla Berlinale 2015.
Agente speciale va in caccia del ladro di una partita di diamanti trafugata tra Beirut e Amsterdam. Convenzionale, priva di interesse, mordente e ritmo. Fa pensare a uno spumante fatto col succo di mele.
Un nuovo virus tiene in scacco l’Europa. Decisamente peggiore dell’influenza aviaria e di tutte le altre pandemie che hanno allarmato le organizzazioni sanitarie mondiali, il morbo di Gerber è una malattia a metà tra un’influenza e l’Aids. Scoperto in Germania nel 2008 e ormai diffuso in tutto il mondo, si contrae entrando in contatto con sangue o saliva infetti e si manifesta con una febbre molto alta e aggressiva. Ma ben presto la sindrome di Gerber rende gli esseri umani simili a zombie. Il virus si sta diffondendo a macchia d’olio, perché gli infetti perdono il controllo e tendono a essere violenti, attaccando chiunque capiti loro a tiro. Una volta contagiati, non c’è scampo. Il terzo stadio della malattia conduce, infatti, alla morte. Ecco perché è stato istituito un centro sanitario dedicato, il CS, in cui i malati vengono messi in quarantena e allontanati definitivamente dalla società. Una troupe televisiva decide di realizzare un documentario su questo nuovo e temibile virus, seguendo il lavoro di Luigi, un ventitreenne addetto alla sicurezza, incaricato di intercettare gli infetti segnalati e portarli al CS, e quello di un medico in prima linea, il dottor Ricardi, che si sta occupando del difficile caso di Melissa, una ragazza contagiata accidentalmente. Non è certo nuova la trovata di delineare una vicenda di finzione come se si trattasse di un evento reale. Girato nel 1965, The war game di Peter Watkins ha fatto scuola, raccontando in stile documentaristico un attacco nucleare alla Gran Bretagna. Da quel momento i mockumentary, o falsi documentari, hanno preso piede nel cinema mondiale, soprattutto statunitense, ma con esempi anche in casa nostra, basti pensare a Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Nel tempo, questo genere così ibrido si è sempre più legato all’horror, come mostra il caso del film The Blair Witch Project o il rilancio recente del mockumentary a opera di Rec, che è servito da spunto a tutta una serie di saghe dell’orrore basate sull’espediente del found footage, come Paranormal Activity. Proprio a Rec si richiama da vicino The Gerber Syndrome: Il contagio, un esperimento a metà tra un falso documentario e uno zombie movie. Niente di innovativo, quindi, se non per il fatto che a cimentarsi con questo cinema di genere sia una produzione italiana low budget, che ha avuto l’intelligenza di sfruttare le ristrettezze produttive a proprio favore. Il risultato dell’esperimento è un film dalle fattezze artigianali, girato come se si trattasse del documentario di una troupe televisiva, a cui generalmente si perdonano ingenuità e difetti di stile, fotografia, regia e montaggio, per concentrarsi piuttosto sull’impatto del racconto della realtà in presa diretta. Il regista Maxi Dejoie, al suo esordio nel lungometraggio, gioca con questi limiti, seppur vistosi e a tratti grossolani, e si assicura così la presa e il coinvolgimento emotivo dello spettatore, che non può fare a meno di chiedersi cosa accadrebbe se il morbo di Gerber fosse reale e colpisse le persone a noi care, precipitando in un’autentica spirale di angoscia di fronte alla terribile vicenda di una famiglia come tante, nella cui vita ordinaria irrompe una malattia straordinaria, con tutta la serie di decisioni dolorose che questa comporta. Tanto più che il Dejoie sceneggiatore chiama in causa dilemmi etici di difficile risoluzione, come quelli legati alla necessità di limitare la libertà personale per tutelare la salute collettiva. Il regista ha gioco facile nel fare leva sulle paure più irrazionali che albergano nel nostro animo, anche grazie all’interpretazione naturale degli attori, che rendono credibili e verosimili situazioni che si spera di non vivere mai. Interessanti appaiono poi le reazioni di alcuni gruppi, che rispondono alla totale mancanza di controllo provocata dal virus con feroci tentativi di farsi giustizia da soli, lanciandosi in azioni di “pulizia” che rendono sempre più labili i confini tra l’essere umano e la bestia.
Quattro marinai di un cacciatorpediniere italiano, in libera uscita a Barcellona, si mettono nei guai in cerca di sottane. È il peggiore dei 4 film interpretati da U. Tognazzi nel 1958: una commediola militar-musicale che sfrutta fino all’inverosimile l’impianto rivistaiolo.
Gabriele torna a Manduria (TA) per l’estremo saluto al padre. Flashback lungo nel 1967 quando era il figlio birichino di Ernesto, capostazione, e di Franca, insegnante, che in Pinuccio ha un fratello più giovane, vitellone malizioso, zio adorato. Ernesto ha l’hobby della pittura e una passione per Cézanne di cui copia, anzi rifà, l’autoritratto. Gli dedica una mostra che un critico locale sbriga come frutto di un dilettante velleitario. Colpo di scena finale. Scritto con D. Starnone e C. Cavalluzzi, è il 2° film consecutivo di Rubini con Scamarcio con cui, affrontando i rapporti conflittuali tra arte figurativa e critica, si regolano obliquamente i conti con i cinerecensori. Meno esagerato e più squilibrato, ma come sempre ridondante, affidato ai chiassosi stereotipi della commedia mediterranea, ai soprassalti fantastici del ragazzino e a un’accentuata dimensione di inverosimiglianza narrativa. I suoi veri protagonisti sono Rubini e il piccolo Gabriele. Fotografia di Fabio Cianchetti che filma i treni a vapore e i paesaggi pugliesi come se appartenessero a un western di Ford. Musiche: Nicola Piovani.
Tratto dal celebre romanzo di Oscar Wilde con un pizzico di erotismo. Dorian possiede un quadro che lo ritrae giovane e bello. Stipula col quadro uno strano patto: dovrà invecchiare il ritratto e non la persona umana. Dorian rimane sempre stupendamente giovane sino a quando la sua coscienza non gli consiglia il suicidio.
Durante una festa il bandito Maldonado deruba gli scozzesi del loro oro. Veloce riscossa, ma Gregor, il maggiore dei sette, e la fidanzata sono catturati. Meno riuscito e originale dei precedenti Sette pistole per i McGregor e di Sugar Colt, anche a causa di un copione piuttosto sgangherato, è un western arioso, colorito, violento senza brutalità. F. Prestand è lo pseudonimo dell’egregio Franco Giraldi che si era firmato Frank Grafield nel 1° degli altri 2 e col proprio nome nel secondo.
Nel III secolo a.C. l’ateniese Dario è in vacanza a Rodi dove cresce il malcontento popolare contro re Serse, costruttore del famoso colosso. Aiutati da un traditore, i Fenici invadono la città, ma scoppia un terremoto. 1° film di S. Leone, indeciso se prendere sul serio la storia o puntare sull’ironia. Le briscole sono giocate nel 2° tempo: la grossa macchina del colosso e il terremoto conclusivo. Forte senso dello spettacolo.
Un gruppo di balordi passa una “notte brava” con il ricavato di un furto. Alla fine, dopo che il denaro è stato perso e rubato di nuovo, uno dei giovani resta solo e, in compagnia di una ragazza, vaga da un locale all’altro. All’alba, gli sono rimaste in tasca soltanto mille lire.
Nicola ha trentacinque anni e vive rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove lo hanno dimenticato una mamma impazzita, una nonna “ovarola”, un padre prepotente e due zii inadeguati. Le sue giornate sono scandite dalla spesa e accompagnate da una suora che prega e paga il conto e da un amico immaginario che conta le puzze della sorella e sogna di riviste per uomini senza parole. Al supermercato c’è Marinella, il suo amore infantile che offre caffè in cialde a clienti svogliati e ride ascoltando le sue cronache marziane. Nicola è un “povero scemo” che la guerra non l’ha mai fatta, che mangia ragni e beve l’acqua di mare, che crede ai santi ma non in dio, che distribuisce pasticche e torna sempre indietro al novantanovesimo cancello perché è stanco, perché il mondo fuori è come dentro, soltanto più ordinato. Nicola è la pecora nera, il diverso che diventa poesia da declamare, storia da raccontare, canzone da cantare, pio pio pio. Dopo il teatro (tanto teatro) e due documentari per la Fandango, Ascanio Celestini gira il suo primo film di finzione, che affonda il dito nella ferita più dolorosa del corpo sociale: la malattia mentale. La pecora nera, già realizzato per il palcoscenico e già pubblicato nella forma del libro, non compie un’indagine sulla situazione della salute mentale in Italia, piuttosto parte da un’indagine condotta negli ospedali psichiatrici per approdare a un film lirico su una biografia disgraziata e un’emarginazione inespressa. Le “parole sante” dei santi matti da (s)legare le trova e le incarna il Nicola di Ascanio Celestini, personaggio di sconcertante bellezza dimenticato sotto le macerie della struttura familiare, esempio di coscienza nella parabola di un rifiuto. Sensibile e in ascolto degli umori della natura umana (e sociale), l’autore e attore romano svolge il racconto del suo “scemo di guerra” in tempo di pace sul volto innocente del suo personaggio, specchio di pensieri poveri e puri ma vertiginosamente profondi. Nicola è nato nei “favolosi anni Sessanta”, quelli che avevano il sapore del sale ed erano ancora troppo lontani dalla riforma di Franco Basaglia, psichiatra illuminato che promosse la progressiva eliminazione del sistema manicomiale e il reinserimento nel corpo della società dei pazienti con disturbi mentali. Nicola è uno dei tanti, troppi bambini che ha visto confluire il suo disagio in un istituto religioso per persone definite “subnormali”, un luogo dove ha comunque continuato a sognare, incapace di entrare in rapporto attivo col mondo al di là del muro, inesplicabile e terrorizzante orizzonte di non-senso accomodato ordinatamente lungo le corsie di un supermercato. È importante sottolineare la forte originalità di Ascanio Celestini nel panorama italiano, per la scelta di storie e temi di urgente attualità, capaci di non sovrapporsi al messaggio semplicistico offerto dalla cronaca, per la volontà di lavorare con volti e corpi attoriali inediti o poco impiegati sul grande schermo. Si innalza al di sopra di tutti la performance di Giorgio Tirabassi, volto fragile e proiezione dolorosa della “follia” di Nicola. Un bambino solo sul cuore della terra, un uomo mai conciliato, mai integrato.
Andrea Artusi (Tognazzi), dopo aver sperimentato con un’amante la facilità con cui una moglie può tradire il marito, comincia ad essere assillato dal fatto che anche sua moglie Maria Grazia (Cardinale) possa essergli infedele. La sua ossessione esaspera la donna a tal punto che, pur essendo fedele, rivela al marito il nome del presunto amante. Andrea, furioso, si precipita alla ricerca dell’adultero e rimane ferito in un incidente d’auto. Ricondotto a casa, l’uomo avrà superato la sua ossessione, ma proprio allora la moglie inizierà a tradirlo, intrecciando una relazione con il medico.
S’alternano, in montaggio parallelo con convergenza finale, 2 storie, l’una a far da specchio all’altra: l'”apocalittica” o arcaica e la “tedesca” o moderna. In una un giovane (P. Clementi), disperato divoratore di farfalle, serpenti e carne umana che vaga per i campi desolati di un vulcano (l’Etna) è gettato dalla società in pasto alle belve; nell’altra il malinconico erede (J.-P. Léaud) di una dinastia industriale che non vuole obbedire, ma non sa disobbedire, è divorato dai porci per i quali prova un’attrazione fisica. La 1ª ha il cupo e chiuso orrore di una saga di tensione epico-lirica; la 2ª è in chiave ironico-satirica con cadenze di operetta morale. L’una è consegnata a un violento silenzio, rotto da grida, lamenti, rumori; l’altra s’affida alla parola in un fitto e caustico dialogo, persino in couplets dalle rime baciate. Morale della favola: la società organizzata è un porcile in cui si ripete storicamente la tendenza (necessità) a distruggere i propri figli ribelli o indifferenti che si rifiutano di accettare l’ordine costituito.
Con base a Roma, la CIA sta per compiere un attentato politico in un paese africano. Qualcuno si è intanto asserragliato in una terrazza dell’Hilton con l’ambasciatore USA e un fucile di precisione. Senza troppe pretese, un film italiano sulla CIA che tende più al thriller che al film-denuncia. Tratto da un Segretissimo Mondadori (Sulla pelle di lui, di Francis Clifford). Il migliore del gruppo è J. Steiner.
In una chiesa sconsacrata si tiene una prova d’orchestra che non va bene. Il direttore strapazza gli orchestrali. Pausa. Quando il maestro torna in sala, è scoppiato il Sessantotto: urla, berci, slogan contro il potere e le istituzioni, scritte eversive finché un’enorme palla d’acciaio sfonda un muro tra polvere e detriti. Laceri e impauriti, gli orchestrali ricominciano la prova, guidati dal direttore che ora parla in tedesco. Apologo estetico? Parabola etica e civile? Allegoria politica sulla società italiana? Il filmetto (Fellini dixit) si prestò a queste e ad altre interpretazioni. Forse sarebbe meglio abbandonarsi al piacere del testo. Nastro d’argento alla musica (Nino Rota, alla memoria). Ispirò l’opera omonima di Giorgio Battistelli (prima mondiale a Strasburgo il 25.11.1995, prima italiana al Teatro dell’Opera di Roma nel marzo 2001).
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