Durante l’ultimo conflitto mondiale, i tedeschi custodiscono, in una villa nel sud dell’Italia, un progetto militare che, una volta attuato, potrebbe annientare intere formazioni alleate. Un ufficiale americano, con l’aiuto di un ladro, un acrobata, un dinamitardo e una ragazza, riesce a introdursi nella villa e ad impadronirsi del progetto. L’impresa costa la vita a quasi tutti i partecipanti: soltanto l’ufficiale americano e l’italiano esperto in esplosivi porteranno a termine la missione.
La mafia italo americana vuole mettere le mani sulla macchina del tempo di un geniale inventore! I 3 fantastici Supermen si confronteranno, tra i vicoli e i minareti dell’esotica Istanbul, con pericolosi gangsters per vanificare il criminale piano dei cattivi e portare a termine la missione.
Dopo l’evacuazione dei tedeschi da Atene, un ufficiale inglese rimane alle prese con le bande partigiane rivali tra loro. Assediato in un albergo, riesce a mettere in salvo se stesso e un gruppo di persone che erano rimaste con lui, prima che l’edificio salti in aria.
Dall’omonima raccolta di novelle arabe, sistemata in forma canonica intorno al 1400: nella storia di Nur-er-Din che cerca Zumurrud, l’amata rapita, e la ritrova sotto le spoglie maschili del re Sair sono contenute, come in una scatola cinese, le altre quattro. “La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni” è la citazione che fa da filo conduttore all’ultima parte della cosiddetta “trilogia della vita”, tutta sotto il segno dell’esaltazione del sesso e della morte incombente. Dei 3 film appare come il più sereno e risolto, probabilmente perché la natura stessa della raccolta araba aveva esentato l’autore da ogni obbligo di fare i conti con la storia e il potere, qui sostituiti dalla forza trascinatrice della fatalità e dei sentimenti assoluti. Incassò la metà di I racconti di Canterbury (1972) e meno di un quarto di Il Decamerone (1971). Presentato (e premiato) a Cannes 1974 in una versione di 155 minuti, poi ridotta dall’autore alla durata attuale. Una denuncia per oscenità è archiviata dalla Procura di Milano.
A New York nel 2095 una misteriosa piramide appare nel cielo di Manhattan. La città è abitata da una comunità multiforme in cui convivono umani, mutanti e divinità extraterrestri. Horus, divinità egizia dalla testa di falco, sta perdendo l’immortalità e ha solo sette giorni per trovare e sedurre una splendida donna predestinata e continuare la sua stirpe divina. Per fare tutto ciò deve incarnarsi nel corpo di un uomo. Sarà Nicopol, un prigioniero politico fuggito dal carcere dopo trent’anni di ibernazione, a ospitare Horus.
Don Raffaele, professore di mandolino costretto a guadagnarsi da vivere sui marciapiedi, è incastrato in una serie di misteriosi omicidi che hanno per posta un bel gruzzolo di milioni. Corbucci e i suoi sceneggiatori si devono essere assai divertiti a scrivere e dirigere questo canovaccio macchinoso di sgangherata efficacia. Mastroianni si esibisce in un esercizio di alto macchiettismo buffonesco. Ultimo film di P. De Filippo.
1421. Ogotai, violento e sanguinario figlio di Gengis Khan, sobillato dall’avida Huluna, non intende rispettare gli accordi con i principi polacchi che hanno concesso ai mongoli i territori invasi, a patto che non si spingano oltre.
Una prostituta, la moglie di un disoccupato, l’amica ricca di un pittore squattrinato, una ragazza incinta, una servetta e altre venti donne, richiamate da un annuncio che promette un lavoro, s’affollano su una scala che crolla. Forse il miglior film del diseguale e ambizioso De Santis e un’opera chiave dell’ultimo neorealismo. Da un fatto di cronaca nasce una ricca galleria di personaggi femminili in fertile equilibrio tra passione e ideologia. Sostenuto da una sapiente sceneggiatura cui collaborarono, tra gli altri, Zavattini e Sonego. Nastro d’argento per le musiche (M. Nascimbene). Allo stesso fatto di cronaca è ispirato Tre storie proibite.
Dal romanzo (1956) di Junichiro Tanizaki, già portato sullo schermo nel 1959 da Kon Ichikawa. T. Brass ha conservato l’impianto (la morbosa e funesta passione di un anziano per la moglie più giovane), la struttura a quartetto (marito, moglie, figlia e il di lei ganzo), la trovata centrale (i diari che marito e moglie scrivono, consapevoli che l’altro leggerà), il motivo della gelosia come corroborante erotico, trasferendo l’azione a Venezia all’inizio del 1940. Con dolosa premeditazione il regista ha ingaglioffito storia e personaggi, non intendendo che, trascinandoli nel grottesco, li svuota. I 2 giovani recitano ignominiosamente; pur con la voce inadatta di Paolo Bonacelli, Finlay se la cava, mentre, quando non deretaneggia e sta zitta, S. Sandrelli ha qualche momento intenso.
Il tema del 4° film di Crialese è l’immigrazione come nel suo eccellente Nuovomondo (2006), ma nell’Italia di oggi. A un livello più profondo emergono altri temi complementari: il mare e la sua legge; il movimento come evoluzione; il diritto-bisogno di andare per cambiare. In una piccola isola del Canale di Sicilia (girato a Linosa), il vecchio Ernesto si rifiuta di rottamare il suo peschereccio e insegna il mestiere al nipote 20enne Filippo. La nuora vedova Giulietta non vede per sé e il figlio Filippo un futuro nell’isola. Vorrebbe andarsene. Quando Ernesto e suo nipote raccolgono in mare alcuni stremati naufraghi africani, la Guardia di Finanza sequestra il peschereccio per aver favorito l’immigrazione clandestina, mentre Giulietta aiuta l’eritrea Sara a partorire in casa sua. Sarebbe un bel dramma neorealista di 60 anni fa, se non fosse impreziosito da una cura formale, qua e là formalistica, e da un nuovo uso degli interpreti. Con D. Finocchiaro, professionista capace con lo stesso brio di impersonare donne borghesi o proletarie, sono “perfetti” l’anziano Ernesto, il giovane Filippo (il vero protagonista) e Timnit T. che ha dignità di una regina. Il rapporto Finocchiaro-Timnit T. e la sorellanza che ne nasce sono memorabili. Premio speciale della giuria a Venezia 2011 e premio Pasinetti (giornalisti italiani).
Esordio nel lungometraggio del siciliano Crialese, con la coproduzione di una piccola società indipendente USA, ambientata a New York, affidata a 2 storie: il cuoco siciliano Antonio, con un permesso di soggiorno scaduto, s’innamora di una ragazza USA che sta per andare a Parigi; il suo amico indiano Apu, sposato da poco, ha una moglie che non riesce ad ambientarsi e vorrebbe rimpatriare. Con accorta vivacità e uso spinto dei campi lunghi in movimento (spiritoso l’inseguimento di Amato al taxi in bicicletta), è un bizzarro film frammentario e bozzettistico, non privo di facili espedienti narrativi, molto sottotitolato. In Italia passato solo in TV. Recuperato nel 2011.
Nella copia di Venezia – dove per premiarlo la giuria divisa s’inventò un Leone d’argento rivelazione – il sottotitolo era Golden Door . La porta d’oro è Ellis Island, al largo di New York, primo centro di accoglienza ma anche di quarantena e di selezione eugenetica per i nuovi arrivati che la chiamavano l’Isola delle lacrime. Tra il 1894 e il 1927 ci passarono in 20 milioni di cui 3 erano italiani. È il 3° capitolo di una storia che comincia in una Sicilia arcaica e petrosa e prosegue con la penosa traversata dell’Atlantico. È la storia di un viaggio che trasforma gli uomini da antichi in moderni con terrificante rapidità. Frutto di una documentazione, raccolta nel museo di Ellis Island e dalle lettere scritte o dettate dagli esuli analfabeti, è un film epico-critico che ricostruisce una memoria collettiva con sobbalzi di un ingenuo surrealismo onirico, non privo di ironia. Passati gli anni della formazione negli USA, Crialese conosce bene il mestiere e le astuzie del narratore. Lo dimostra l’enigmatica Lucy che s’aggrega alla famiglia di Salvatore, catturando l’attenzione e l’attesa dello spettatore. E pensa in grande nelle immagini: l’avvio dell’arrampicata sulle Madonìe; la nave che si stacca dalla banchina, spaccando in due la folla (un grande momento di cinema); la burrasca sull’oceano, girata in studio in piani ravvicinati col fragore delle ondate; l’arrivo nella nebbia; il finale lento nel latte. Ineccepibile la scelta delle facce e la direzione degli attori. Musiche: Antonio Castrignanò. 3 David: scene (C. Conti), costumi (M. Tufano), effetti speciali visivi (L’Étude et la Supervision des Trucages).
Un uomo è sospettato di complicità nel rapimento della moglie di un mafioso e da questi condannato a morte. L’uomo allora tenta di accordarsi col killer, ma lo ferisce involontariamente a morte durante una colluttazione.
Di Irena non si sa molto, solo che è arrivata in Italia dall’Ucraina. O forse è tornata, dopo alcuni anni, per chiudere un conto. Con l’aiuto di un portinaio interessato (Haber), trova lavoro presso la famiglia Adacher, una coppia di orafi con una figlia affetta da una cronica incapacità di difendersi. Irena si occupa della piccola, la conquista e le insegna a reagire. Sembra cominciare a trovar pace, ma ecco che si ripresenta il male che ha deciso del suo passato e che ha le sembianze dell’aguzzino Muffa (Placido). La Sconosciuta di Giuseppe Tornatore arriva a quasi sei anni di distanza da Malena. Il regista di Bagheria ha avvolto il tournage nel mistero, assicurandosi che nessuno parlasse o sapesse nulla del film che preparava. Scopriamo ora che questo mistero prosegue e oltre, svelandosi solo poco alla volta, in un racconto che interseca piani temporali diversi, come avveniva in uno dei suoi precedenti e migliori lavori, Una pura formalità, col quale condivide anche un ribaltamento finale d’effetto. Meno enigmatico, più chabroliano nel suo inserire la protagonista come un detonatore d’esplosivo all’interno di una famiglia borghese, il film ha il grande pregio di presentarsi più secco e nudo degli altri, spoglio d’enfasi espressive e non costruttive. Un cast di attori noti -Favino, Gerini, Degli Esposti, Buy, Molina- vortica senza protagonismi attorno alla “sconosciuta” Xenia Rappoport, interprete russa di scuola teatrale, cuore e corpo del film, che sulla sua figura si regge senza barcollare. La schiavitù sessuale delle ragazze che entrano nel nostro paese dalla frontiera orientale non è qui materia da denuncia sociale ma sfondo di un incalzante thriller psicologico macchiato di orrore che ci aggancia fino agli ultimi minuti, quando fa capolino qualche inquadratura troppo lunga, sussulti di sentimentalismo che, in coda, non inquinano ormai più. Certo l’immaginario di Tornatore circa le compravendite sessuali, le scale a chiocciola e i soldi sporchi non è estraneo all’influsso delle immagini di altri maestri, ma tuttavia il film trova una sua identità precisa e incisiva e un’atmosfera che deve tanto alla luce mitteleuropea di Trieste. L’emozione nasce dalla centralità di Xenia/Irena, dalla forza di un personaggio femminile che cerca di riconquistare un pezzo della sua vita e della sua femminilità che le è stato rubato con il ricatto e la violenza. Nell’inquadrarla, nel seguirla, nel calibrare il proprio ritmo sul suo respiro sospeso dalla paura, Tornatore dà prova di riuscire a nascondere, per una volta, i virtuosismi della macchina da presa e a farli sparire dentro la storia che racconta, a tutto vantaggio del godimento dello spettatore.
3 episodi: innocuo pugliese scambiato per bandito; laureato disoccupato si traveste da donna e trova lavoro; tassista milanese complessato sposa bella sicula. Sceneggiato da Castellano & Pipolo, è un tipico esempio del basso livello del cinema comico italiano degli anni ’80.
Un reduce della guerra di Secessione che non ricorda nulla del suo passato scopre di essere ricercato come disertore dell’esercito nordista. Fa delle indagini e riesce a stabilire la propria innocenza e a riconquistare la moglie, nel frattempo risposatasi con un bandito.
Mio and Mao, conosciuta anche come Mio Mao, è una serie televisiva in animazione stop motion per bambini ideata negli anni settanta da Francesco Misseri. La prima serie di Mio Mao venne prodotta nel 1974 a Firenze dalla società PMBB di cui Francesco Misseri era tra i soci fondatori. Venne realizzata con la tecnica dell’animazione stop motion della plastilina in 26 episodi da 5 minuti ciascuno e aveva come protagonisti due gattini curiosi, uno rosso e uno bianco, che giocando in giardino incontravano ogni volta animali diversi con i quali fare amicizia. Caratteristica di questa serie, così come di altre create da Francesco Misseri, era l’uso di suoni onomatopeici invece che veri e propri dialoghi, scelta che rendeva il programma immediatamente comprensibile al di là di qualsiasi barriera linguistica.
Per interesse e per i begli occhi di una ragazza, il pistolero Spirito Santo aiuta un presidente messicano deposto da un bieco generale a tornare al potere.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.