Il giovane favoloso inizia con la visione di tre bambini che giocano dietro una siepe, nel giardino di una casa austera. Sono i fratelli Leopardi, e la siepe è una di quelle oltre le quali Giacomo cercherà di gettare lo sguardo, trattenuto nel suo anelito di vita e di poesia da un padre severo e convinto che il destino dei figli fosse quello di dedicarsi allo “studio matto e disperatissimo” nella biblioteca di famiglia, senza mai confrontarsi con il mondo esterno.
Figlio trentacinquenne timido del sarto pontificio (Giannini) e ignaro di donne, Nello Balocchi (Marcorè) è mandato dal padre a insegnare latino e greco nella carnale Bologna dove s’innamora di Angela (Incontrada), ricca, bella, incostante e non vedente che, pur col cuore altrove, gli corrisponde. Epilogo malinconico. Tentativo soltanto in parte riuscito di coniugare la vena elegiaca con quella romanzesca, il 28° film di P. Avati ridonda: nella timidezza di Nello; nel macchiettismo romanesco di Giannini; in inverosimiglianze di sceneggiatura; nell’idealizzazione; nell’amore per la Bologna del tempo che fu. Il nostalgico Avati ha dimenticato che “la nostalgia spesso si alimenta, più che dei ricordi, di amnesie” (G. Pontiggia). Del nucleo della storia rimangono la notte d’amore e l’incontro finale, ma non mancano invenzioni bizzarre e notazioni curiose. Fotografia del fido Pasquale Rachini, musiche di Riz Ortolani. Premio Donatello per la regia. Nastro d’argento a Marcorè.
Con partenza da Firenze il 26 agosto 1944, dopo l’arrivo degli Alleati, un anziano ex pugile mette insieme un quartetto di giovanotti affamati allo sbando, portandoli a tirar pugni nelle sagre di paese. Film corale picaresco di svelta protervia e apparente futilità in una miscela di disincanto e buffoneria, pathos e ironia, crudeltà e tenerezze di contrabbando. Soggetto di Rodolfo Angelico, sceneggiato da L. Benvenuti, P. De Bernardi, S. Cecchi D’Amico, M. Monicelli.
La società vista e raccontata da Gene Gnocchi non può che essere assurda, quasi surreale, e indubbiamente senza senso. Nel suo ultimo spettacolo, “Cose che mi sono capitate a mia insaputa”, il comico originario di Fidenza racconta con graffiante ironia una realtà che oggi sfugge alla comprensione. Lo fa portando in teatro un personaggio cinico e flemmatico, quasi distaccato da ciò che lo colpisce e che si ritrova, a sua insaputa, ad affrontare una serie di situazioni impossibili. Questo il contesto per portare in scena un monologo composto da graffianti ragionamenti sulla società. I problemi sono gli stessi di sempre: la disoccupazione, la carenza di lavoro, la classe politica, il dibattito sull’energia…il protagonista, in cerca di un’occupazione, si vede a malincuore costretto a comprare la tessera della loggia P3 per coronare il suo sogno di esibirsi sul palco di qualche prestigioso teatro. Questo il motivo per cui, ad esempio, dal 18 al 20 Marzo è presente al Teatro Parioli di Roma, a raccontare al suo pubblico tutto quello che gli è capitato, a sua insaputa appunto, intermezzandolo con stacchetti promozionali che la sua condizione di lavoratore precario lo obbliga a fare. “Cose che mi sono capitate a mia insaputa” è stato scritto dal comico con la collaborazione di Ugo Cornia, SimoneBedetti e Maurizio Giambroni e sta avendo forte successo in numerosi teatri italiani. Gene Gnocchi, all’anagrafe Eugenio Ghozzi, ha sulle spalle oltre trenta anni di carriera ma la sua graffiante ironia è rimasta sempre la stessa. Una satira che racconta la realtà e le sue mille contraddizioni, cercando di trovare un appiglio per comprendere quello che accade e che di solito sfugge ai più.
Alla vigilia delle nozze, Marisa (T. Aumont) va a farsi predire l’avvenire da Maria delle Rose Tarantino (L. Bosé), cartomante lucana immigrata a Milano, il cui figlio, apprendista stregone, la violenta. Scritto dal regista con Kim Arcalli e prodotto a basso costo, è un film rituale ed eccentrico sul disordine metropolitano e i suoi misteri, difficile da catalogare e da decifrare perché conduce il suo discorso per linee interne con accostamenti e contrapposizioni di carattere poetico più che prosastico, in continua oscillazione tra antropologia e psicanalisi, normale e paranormale, realistico e fantastico, magia e rivolta sociale. Eastmancolor di Dario De Palma. Insolita colonna musicale di Romolo Grano e Berto Pisano con un ossessivo brano di violino che fa da Leitmotiv, trascrizione di un brano popolare macedone. Una memorabile Bosé.
Superstiti di una misteriosa “peste”, Cino (Margine) e Dora (Wiazemsky) si rifugiano in una casa in riva al mare. Lui raccoglie i residui della civiltà distrutta; lei si occupa della sopravvivenza. Lui vorrebbe dei figli: l’umanità deve continuare. Lei si rifiuta. Scritta con Luigi Bazzini, questa favola apocalittica che invoca il dissolvimento dell’umanità aberrante è messa in immagini nella spoglia messinscena di un dramma beckettiano. La pochezza dei mezzi diventa stile. Lo scheletro candido della balena, bello come una scultura di Henry Moore, è l’unico lusso scenografico. Il nichilismo di M. Ferreri tocca qui uno dei suoi vertici.
Sulla scia di Oggetti smarriti , nasce a pochi mesi di distanza questo documentario sulla popolazione notturna della Stazione Centrale di Milano, prodotto da Unitelefilm con RAI 2 e l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma. Fa parte di una serie di film-inchiesta sulle grandi città italiane rette da giunte rosse: Torino ( Vorrei che volo di E. Scola), Roma ( Comunisti quotidiani di U. Gregoretti), Napoli ( Napoli, due città di A. Vergine), in funzione della propaganda elettorale del PCI. Suddiviso in 33 capitoletti in ordine alfabetico, è un film d’autore che mette in immagini la Milano sommersa, con la gente che in stazione abita e dorme: drogati, barboni, puttane, pugili suonati, vagabondi, alcolizzati, barflies . La Stazione Centrale come ventre di Milano, metropoli europea. Contaminazione di documentario, tecniche di cinema diretto, e ambizioni di fiction nel tentativo di dare agli intervistati statuto e statura di personaggi, qua e là risente di rigidità nell’impostazione tematica populista e, insieme, intellettualistica, ma ha un’ammirevole equilibrio tra lucidità di sguardo e partecipazione emotiva senza concessioni al sentimentalismo né alla demagogia. L’etichetta di documentario gli sta stretta e quella d’inchiesta è poco pertinente. Fu poco usato come propaganda elettorale perché utilizzabile non era. A Milano – dove non c’era una giunta rossa – la proiezione, seguita da dibattito, avvenne per iniziativa personale di Pietro Ingrao. 1° premio ex aequo al Festival dei Popoli di Firenze.
Pergine, piccolo paese del Trentino ai piedi della Val de Mocheni. E’ lì che è arrivato Dani, fuggito dal Togo e poi nuovamente costretto a fuggire dalla Libia in fiamme. Dani ha una figlia piccola (che gli ricorda troppo la moglie morta per volerle davvero bene) e una meta: Parigi. In montagna, dove ha trovato lavoro presso un anziano apicoltore, fa la conoscenza di Michele, un bambino che soffre ancora per la perdita improvvisa del padre. Andrea Segre prosegue con questo suo secondo film di finzione dopo Io sono Li la personale ricerca del rapporto tra gli esseri umani e i luoghi che ne ospitano le vicende sia che vi appartengano dalla nascita sia che vi siano giunti per i rovesci della sorte. Come Shun Li Dani è arrivato in un’Italia di cui non conosce le tradizioni ma, a differenza della donna cinese, non subisce le offese del razzismo strisciante. Perché questo film di Segre non vuole ripercorrere le orme dell’opera precedente. Dani l’emarginazione ce l’ha dentro come il piccolo Michele ed è data dal dolore profondissimo di una perdita, di un lutto che sembra impossibile elaborare. Hanno a fianco persone che vorrebbero aiutarli (l’anziano apicoltore per l’uno,la madre per l’altro) ma è come se avessero eretto un muro a difesa della loro sofferenza. Il bosco finisce così per diventare non il luogo fiabesco dove incontrare pericolosi lupi (qui semmai a fare danni è un orso) ma lo spazio, tra luci ed ombre, dove trovare una solitudine che può farsi cammino comune. “Le cose che hanno lo stesso odore debbono stare insieme” dice il vecchio a proposito di legno e miele. Dani e Michele sono impregnati dello stesso odore della deprivazione che li porta a pensare di non essere più capaci di amare coloro che hanno invece più bisogno di loro. Potrebbero avere entrambi bisogno di quella prima neve che offra una nuova visione del mondo, esteriore ed interiore. Massimo Troisi, dopo il successo di Ricomincio da tre affermava, con la saggezza che lo contraddistingueva, di non voler fare il secondo film ma di voler passare direttamente al terzo. Perché una regola non scritta del cinema di finzione dice che se la prima opera è venuta bene la seconda non sarà altrettanto valida. La prima neve costituisce una delle rare eccezioni alla regola.
Festival è un film del 1996 diretto da Pupi Avati. Si tratta finora dell’unico film che vede protagonista in un ruolo drammatico l’attore Massimo Boldi.
Franco Melis è un attore comico, reduce da grandi successi con film trash a partire dai tardi anni settanta, ma che negli anni ha sperperato i suoi guadagni. In solitudine e senza denaro, Melis trova la forza di reagire alla sua depressione: attraverso il suo manager, Renzo Polpo, trova una parte in un film molto lontano dalle sue precedenti prestazioni, che viene presentato a una rassegna cinematografica di alto profilo culturale e che sembra godere legittime chance di vittoria.
Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978, nonché l’atmosfera cupa e tesa di quegli anni, sono rappresentati nel film con rigore formale e senza alcun compiacimento. Ne esce un robusto film-cronaca, costruito con lucidità e fermezza, degno di attenzione e di riflessione. Nel ruolo principale Volonté è encomiabile per misura e aderenza al personaggio dello statista.
Chi ama l’umorismo di situazione di Tati e la comicità impassibile di Keaton, non perda questo film del palestinese Suleiman. Dai racconti del padre e dalle lettere della madre l’autore ha allineato 4 episodi familiari, situati a Nazareth nel 1948, nel 1970, nel 1980 e a Ramallah oggi. Ha un sottotitolo: Arab-Israelis , il termine ufficiale con cui gli israeliani indicano i palestinesi rimasti sulla loro terra. Tolto l’episodio del ’48, esplicitamente realistico e antisraeliano, è una commedia dove la violenza non è quasi mai esibita, ma una presenza costante con una catena di gag che spesso trovano nella ripetizione la fonte della loro buffoneria. È il ritorno di Suleiman, dopo anni di esilio, nella parte di sé stesso che continua a tacere perché, spiega da regista, il silenzio è molto cinegenico, un’arma di resistenza che destabilizza e fa impazzire i potenti.
Alcuni tra i maggiori autori e filosofi dell’antica Grecia – da Socrate ad Aristofane, da Febo a Pausania – disquisiscono sul dio Amore. Il film è ispirato al Simposio di Platone. Un film misconosciuto di Marco Ferreri, prodotto da France 3.
L’emancipata Margherita riunisce in una villa a Dubrovnik un harem alla rovescia: tre amanti e un amico omosessuale con le mansioni di eunuco. Ma i maschietti si alleano, la riducono al ruolo di casalinga finché la precipitano in mare. 1° film a colori di Ferreri, segna una svolta nel suo itinerario: si passa dalla commedia di costume al grottesco quasi metafisico. Girato contro la sceneggiatura (scritta con Raphael Azcona) e montato contro il modo con cui era stato girato. Diseguale, dissonante esempio di cinema della crudeltà. La Baker, spaesata, rivela i suoi limiti interpretativi. Titoli disegnati da Mario Schifano, breve apparizione di Tognazzi nel ruolo di sé stesso.
Assalito da incubi e allucinazioni, tormentato dai fantasmi delle sue numerose vittime che vengono a visitarlo, il vecchio re Ferdinando, soprannominato il “re nasone”, ma anche il “re mascalzone”, cerca di cancellare quelle spiacevoli presenze evocando i suoi ricordi più belli, quelli legati alla giovinezza. Cresciuto come uno scugnizzo, in nome della ragion di Stato Ferdinando si ritrova sposato alla bella Maria Carolina d’Austria dopo due matrimoni combinati e mancati con le figlie di Maria … [continua a leggere]Teresa d’Austria, morte entrambe di vaiolo.
Palermo, 15 settembre 1993: un colpo di pistola lascia agonizzante, nel giorno del suo 56° compleanno, il siciliano don Pino Puglisi, parroco di san Gaetano, che guardando negli occhi il suo assassino mafioso gli dice: “Vi aspettavo”. Con una sceneggiatura, firmata, oltre al suo, da 5 nomi (G. Arduini, G. Maia, D. Gentili, F. Gentili, C. Del Bello), sintomo di una preparazione tormentata, dopo Marianna Ucrìa Faenza torna in Sicilia, non più terra di bellezza ma di criminalità organizzata che compenetra una società rassegnata, in bilico tra complicità, paura e disperazione. Film disadorno che lascia parlare i fatti, cronaca di una morte annunciata, quella di un prete che toglie i bambini dalla strada affinché non diventino i futuri manovali al servizio di padroni mafiosi. Aiutata dalla presenza di un attore come Zingaretti, la cinepresa spia la coscienza intrepida e presaga di un sacerdote abbandonato anche dai suoi superiori. Qui, però, Faenza si fa un po’ troppo reticente. È una morte che non lascia segni visibili. Se esistono sono sotterranei, in attesa di emergere, anche nella realtà, alla luce del sole. 49° Premio S. Fedele 2005.
Dal romanzo (1967) di Ercole Patti: irrequieto e incompreso adolescente s’innamora focosamente della zia, sposata e senza figli, che lo contraccambia distrattamente per combattere la noia. Turco si barcamena non male, la zia sgarzolina-Lollobrigida porta in giro una faccia, la fotografia di Nannuzzi è bellissima, Ferzetti si fa notare, ma il film è inamidato.
Giovane compositore di provincia evade dalla triste realtà quotidiana viaggiando in sogno attraverso i secoli e trovandovi belle donne innamorate finché si accorge che la felicità è a portata di mano. Clair voleva soltanto “divertire e far sorridere”. Ci riesce. Non è il suo film migliore, ma il più paradigmatico. E c’è Philipe, fulgido emblema di giovinezza.
Una ragazza si allontana dalla famiglia che l’opprime. Gli impieghi che trova non fanno che peggiorare la sua situazione; ben che vada il suo titolare vuol portarsela a letto. La conoscenza di un ragazzo tetro e insoddisfatto le crea altri problemi. I due predispongono addirittura un suicidio, che poi non realizzano perché tutto sommato è meglio restar vivi e volersi bene.
Film di attori: Manfredi è bravo e non strafà; Tiffin è carina e ben doppiata; Tognazzi, che ricorda Harpo Marx, ha la modestia di rinunciare alla parola. La dolorosa istoria della contrastata passione tra Marino, barbiere di Alatri, e la sventurata Marisa. Dopo tante sciagure e tentati suicidi, coronano il loro sogno d’amore. Scritto da Age & Scarpelli, con dialoghi ricalcati sulla lingua della subcultura popolare (fotoromanzi, canzoni, ecc.).
Provincia toscana, anni ’30. Giovanni (Stefano Accorsi), impiegato di banca e padre di famiglia, ritrova Maria (Maya Sansa), suo vecchio amore: tra i due rinasce la passione. Sull’esile traccia di un triste romanzo di Carlo Cassola (Una relazione, 1969), Carlo Mazzacurati tira fuori senza troppi sforzi un film altrettanto esile e triste. Se gia’ il romanzo appariva ai suoi tempi nostalgico e datato, il film arriva sicuramente fuori tempo massimo, con una forza comunicativa prossima allo zero. In teoria, si potrebbe fare grande cinema anche narrando piccole vicende, mettendo in scena personaggi poveri, rievocando ambienti lontani nel tempo. Tuttavia Mazzacurati adegua anche la sua regia al minimalismo della storia, si affida ai bei paesaggi tirrenici, spreca il talento di due tra i nostri migliori attori, che ci fissano dallo schermo con espressioni sorprendentemente piatte e intorpidite, quasi a disagio.
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