Si celebra un processo contro una ragazza, dalla vita molto libera, che ha ucciso l’amante dopo aver scoperto che costui stava per sposare la morigerata sorella. La corte e il pubblico sono prevenuti contro l’accusata per motivi moralistici e la poverina, non sopportando il linciaggio, si suicida prima del verdetto.
La moglie del pittore Gilbert si innamora del mercante d’arte Stanislas Hassler, con cui instaura un rapporto di totale dipendenza sessuale e psicologica. Egli ama fotografare le donne in pose oscene e la giovane si adatta. Il marito è desolato e furioso.
Un film di Gianni Amelio. Con Jacques Gamblin, Catherine Sola, Maya Sansa, Denis Podalydès, Ulla Baugué. Titolo originale Le premier homme. Drammatico, durata 98 min. – Italia, Francia, Algeria 2011. – 01 Distribution uscita venerdì 20aprile 2012. MYMONETRO Il primo uomo valutazione media: 3,87 su 48 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Lo scrittore Jean Cormery torna nella sua patria d’origine, l’Algeria, per perorare la sua idea di un paese in cui musulmani e francesi possano vivere in armonia come nativi della stessa terra. Ma negli anni ’50 la questione algerina però è ben lontana dal risolversi in maniera pacifica. L’uomo approfitta del viaggio per ritrovare sua madre e rivivere la sua giovinezza in un paese difficile ma solare. Insieme a lui lo spettatore ripercorre dunque le vicende dolorose di un bambino il cui padre è morto durante la Prima Guerra Mondiale, la cui famiglia poverissima è retta da una nonna arcigna e dispotica. Gli anni ’20 sono però per il piccolo Jean il momento della formazione, delle scelte più difficili, come quella di voler continuare a studiare nonostante tutte le difficoltà. Tornato a trovare il professor Bernard, l’insegnante che lo ha aiutato e sorretto, il Cormery ormai adulto ascolta ancora una volta la frase che ha segnato la sua vita: “Ogni bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà”. Senza mezzi termini il miglior film di Gianni Amelio almeno dai tempi de Il ladro di bambini. Adattamento del romanzo di Albert Camus, Il primo uomo ripercorre a ritroso le vicende di un personaggio straordinario, silenzioso e deciso, che ricerca nel proprio passato anche doloroso le convinzioni che lo hanno portato ad essere ciò che è nel presente. Lo stile del regista è come sempre asciutto ed elegante, evita inutili infarcimenti estetici e si concentra sulla pulizia e sull’efficacia dell’inquadratura. Ogni primo piano su volti segnati dalla loro vicenda personale è preciso, giustificato, emozionante. In questo lo supporta alla perfezione la fotografia accurata ma mai espressionista di Yves Cape, tornato con questo lungometraggio ai livelli altissimi che gli competono. Anche la sceneggiatura alterna i piani temporali costruendo un equilibrio narrativo basato sulla vita interiore del personaggio principale, un’architettura narrativa complessa e sfaccettata che funziona a meraviglia. Poi ovviamente ci sono gli attori, tutti in stato di grazia. Jacques Gamblin possiede la malinconia e insieme il carisma necessari per sintetizzare al meglio l’anima di una figura complessa come Jean Colmery. Accanto a lui una schiera di volti che regalano dignità e verità a tutte le parti, anche le più piccole: su tutti vale la pena citare una sontuosa Catherine Sola nelle vesti della madre di Jean, interpretata in gioventù dalla brava Maya Sansa. Un’opera raffinata e umanissima, in grado di rivendicare l’importanza della memoria non solo personale ma collettiva, una memoria che deve essere adoperata come strumento d’indagine delle contraddizioni del presente. Sotto questo punto di vista quindi un film che guarda al passato per farsi attuale e necessario. Cinema di qualità estetica elevata e d’importanza civile. Da applauso.
Due pellegrini affamati partono da Roma verso il Nord, attraverso la campagna; lungo la strada altri si aggiungono a loro, ciascuno diverso dall’altro, ma accomunati dal bisogno di cibo. Scritta con Vincenzo Cerami, è una fiaba comico-poetica, dominata dallo sguardo dal basso del suo autore: distaccato, affettuoso, semplice eppur misteriosamente trasfiguratore. È lo sguardo di un anarchico epicureo che guarda il mondo come se per istinto (o antica saggezza?) sapesse già tutto. Qualche squilibrio: il film per le sale è la riduzione di un’edizione per la TV di 3 puntate.
1899: un celebre pistolero, ormai vecchio, decide di lasciare il West e partire per l’Europa. Incontra un giovanotto che lo ammira e gli si mette alle costole, costringendolo a un’ultima, memorabile impresa… È un proseguimento ideale dei Trinità (manca Bud Spencer) e per molti versi è meglio dei suoi “genitori”: la contrapposizione Hill-Fonda è un’invenzione furbesca che tiene in piedi un western allegro e divertente. Ideato e prodotto da Sergio Leone.
Un film destinato al mercato estero e soprattutto americano. Infatti gli italiani sono proprio come ci vedono gli stranieri. Cliché, vedute turistiche. I figli di Matteo Scuro, interpretato da Mastroianni, vivono tutti in grandi città. Non ce n’è uno in provincia o in un paesino. Matteo ha dato i nomi ai figli pensando alle sue opere liriche preferite: Canio, Tosca, Guglielmo, Norma e Alvaro. Vorrebbe unirsi a loro ma sono troppo impegnati, così li cerca a Napoli, Roma, Firenze, Milano e Torino. Non sarà tutto rose e fiori. Qualche rara sequenza divertente c’è, come il bambino che guarda la lavatrice e non la televisione, ma si sente una ricerca presuntuosa delle scene madri e alla fine si rimane orfani ugualmente.
Traffichino dalle scarpe spaiate è incaricato dalla moglie di un operaio dell’Italsider di trovare il marito scomparso. Nella sua traversata del ventre di Napoli lo attendono sorprese. Commedia grottesca in cui la denuncia sociale sul degrado di Napoli ha cadenze di farsa, ma sfora nel fantastico sociale e ricorre alle tecniche dell’investigazione. Scritto da Elvio Porta con il regista. Musiche di Tullio De Piscopo e Pino Daniele.
In Sicilia, pretore si trova in conflitto con un potente latifondista. Lo aiutano, vincendo l’omertà e la paura, la popolazione locale e persino un capomafia. La Sicilia e la mafia (quella di vecchio stampo) raccontata (e mitizzata) dal giovane Germi tenendo d’occhio i western di John Ford. Vigoroso, qua e là affascinante film d’azione anche se sociologicamente poco attendibile. Tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo. Tra gli sceneggiatori Fellini e Monicelli. Neorealista? Sì, forse, comunque romantico e con ambizioni e struttura da romanzo. Anticipa il filone del cinema civile degli anni ’60. Il primo western del cinema italiano postbellico. Nastri d’argento per Girotti e Urzì. Premio speciale per Germi.
Il furto avvenuto in un ricco appartamento e il cadavere trovato in un altro appartamento hanno qualcosa in comune? Ingravallo, commissario della Squadra Mobile di Roma, indaga. Liberamente tratto dal romanzo (1947-57) di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana , fu, quando apparve, il miglior giallo in assoluto del cinema italiano. Preannuncia sia l’imminente commedia all’italiana degli anni ’60 sia le lenti deformanti e impietose con cui Germi racconta la borghesia italiana in Sedotta e abbandonata (1964) e Signori e signore (1965). “La gestione dei due registri (quello comico, quello poliziesco-drammatico) è saldamente nelle mani della sua interpretazione e del modo cui il Germi regista… riesce a tenerli separati senza che si confondano o neghino l’un l’altro” (M. Sesti). Nastro d’argento 1960 per la sceneggiatura di Alfredo Giannetti, Ennio De Concini, Germi.
Storia di Rivka (Abecassis) e Meir (Hattab), marito e moglie. Si amano, si comprendono, ma le condizioni sociali sono tali da non permettere rapporti sereni, di nessun genere. Si confrontano anche personalità femminili, sempre in quel contesto difficile, fatto di paure e di integralismo. La solita lettura intelligente e accorata di Gitai, che ha firmato, a brevissimo intervallo, due efficaci documenti contemporanei come Kadosh e Kippur.
Maggio 1948. Un vecchio cargo, la Kedma, scarica sulle coste della Palestina un gruppo di persone sopravvissute all’Olocausto e provenienti da ogni parte d’Europa. Vengono accolte dall’esercito clandestino israeliano che cerca di portarle verso un kibbutz. Ma bisogna fare i conti con gli Inglesi che ancora occupano il territorio e con i palestinesi che non hanno alcuna intenzione di cedere una terra che ritengono sia la loro. Gitai torna ad affrontare il tema dell’edificazione dello Stato d’Israele dopo la prova, non del tutto riuscita, di Eden. Qui i ritmi sono più personali e l’assunto politico destinato a far discutere perché scontenterà tutti. I tempi del film sono lentissimi nella fase iniziale, con tutta la desolazione di mondi individuali che sono sopravvissuti all’inferno e sono in cerca di un paradiso che non si delinea come tale.
Siamo a Berlino, dopo la fine della prima guerra mondiale. Qui Else, una poetessa ebrea, conosce Tania, una sionista venuta dalla Russia. Tania spiega ad Else il suo proposito di andare in Palestina per partecipare alla nascita di un collettivo agricolo. Arriva il nazismo e dopo essere scappata in Svizzera Else raggiungerà l’amica a Gerusalemme ma vi troverà rovina e distruzione. Un film poetico, in alcuni momenti criptico, ma di forte suggestione. La musica è di Markus Stockhausen.
È la storia dell’incontro casuale di due uomini sui trent’anni (uno ripara proiettori cinematografici, l’altro è uno psicolinguista), del loro viaggio lungo il confine tra le due Germanie, della loro reciproca conoscenza, della loro separazione. A Cannes nel 1976 vinse il premio della Critica internazionale. Film di viaggio (anzi, di erranza) come Alice nelle città (1973) e Falso movimento (1974), è una riflessione sulla Germania prospera, mercantile e americanizzata del miracolo economico, sul malessere della generazione postbellica, sulla dissoluzione del mito dell’uomo forte, sul cinema, rappresentato nel suo versante materiale (la pellicola, la macchina da proiezione, il sonoro). È uno di quei rari film che trasmettono il piacere di andare al cinema, rispettando l’intelligenza dello spettatore e, insieme, sollecitandone i sensi.
Il ventenne Oscar e la sorella minore Linda arrivano a Tokyo. Oscar vende droga per vivere, mentre la diciottenne Linda lavora come spogliarellista in un nightclub. Una notte Oscar si reca in un locale per concludere un affare, ma gli agenti di polizia lo stanno aspettando per arrestarlo e nella colluttazione che ne segue parte accidentalmente un colpo. Oscar muore ma riemergono le memorie del passato, tra queste spiccano la morte dei genitori avvenuta in un incidente d’auto quando aveva solo cinque anni e la promessa fatta alla sorella di non abbandonarla mai. Gaspar Noé ha colpito ancora. Uno dei più supponenti e narcisistici registi del cinema non solo francese ma mondiale, dopo lo scandalo annunciato di Irreversible torna a provocare in maniera totalmente sterile. Non avendo una storia degna di questo nome a cui affidarsi e non essendo uno di quei Maestri del Cinema in grado di trasformare un’assenza di soggetto in un’esperienza artistica di alto livello, il regista francese torna ad applicare le regolette che presiedevano alla realizzazione del suo precedente lungometraggio. Musica pulsante, luci al neon, acrobatici movimenti di macchina e scene che vorrebbero provocare sconcerto e muovono invece solo al riso o allo sbadiglio. Perché la ripetizione del già detto protratta per la durata di 150 minuti si traduce in un’autoreferenzialità iperbolica a cui nulla, neppure alcune inquadrature ad effetto, possono porre rimedio. Noé, pretendendo anche di farci la morale, si ammira nello specchio del suo cinema. Rischia di ritrovarcisi sempre più solo
Un americano reduce dal Vietnam, complessato e pieno di tare psicofisiche, viene sbarcato a Belfast. Per racimolare qualche soldo, decide di derubare certe infermiere che alloggiano in una pensioncina, ma viene colto da raptus e, anziché depredare le fanciulle, le sevizia e le uccide. Una gli sfugge: fornirà un elemento utile alla sua cattura.
Nuova versione della tragedia a cura di Franco Zeffirelli. Il film vincitore di due premi Oscar (Pasquale de Santis per la Miglior fotografia e Danilo Donati per i Migliori costumi) fece conoscere al mondo lo sfarzoso estetismo di Zeffirelli e la sua capacità di tradurre nel linguaggio… del grande schermo il fascisno del grande teatro. Il film venne inoltre valorizzato dalla splendida colonna sonora composta da un Nino Rota. L’intensa passionalità dei due protagonisti, perfetti nei loro ruoli, fece gran scalpore all’epoca per la loro giovanissima età, poco più che adolescenti (15 anni lei, 17 lui). Zeffirelli ha confezionato una miscela indimenticabile di bellezza, eleganza, sensualità, avventura e azione.
Galleria di “mostri” pescati nella realtà quotidiana: dal padre che educa il figlioletto a fregare il prossimo all’avvocato cialtrone, dalla patronessa di premi letterari che mira solo a concupire i giovani letterati al pugile suonato… 20 brevi e brevissimi episodi nei quali si alternano Gassman e Tognazzi per satireggiare i miti e le contraddizioni degli anni ’60. La commedia italiana in pillole, con ferocia “all’insegna della critica più sferzante, della satira più graffiante, senza un filo di forzatura o di compiacimento o di indulgenza o di complicità” (P. D’Agostini). Soggetto e sceneggiatura: Age & Scarpelli, Elio Petri, Dino Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari. Fotografia: Alfio Contini.
Dal romanzo Obsession di Lionel White. Abbandonati moglie e figli e sbarazzatosi di un cadavere, Ferdinand-Pierrot fugge con Marianne, ne viene tradito, la uccide e si fa saltare in aria. La trama poliziesca non è che un pretestuoso supporto in questo film che conclude pirotecnicamente la 1ª fase dell’itinerario di Godard con un’ultima, dolorante affermazione romantica che è anche una disperata dichiarazione di disorientamento. Film d’emozioni e di sentimenti in cui, però, la provocatoria sprezzatura narrativa e il ricorso accanito alle citazioni e ai collage escludono ogni partecipazione simpatetica dello spettatore. Poema cinematografico, grido di rivolta, sostenuto dalla straordinaria fotografia di R. Coutard.
Grande amore tra l’ex pugile Raoul “Spaccaporte” e la campionessa di catch Temporale Rosy. La gelosia di lui e gli intrighi dell’impresario di lei li separano. Scritto da Age & Scarpelli da un romanzo breve di Carlo Brizzolara, ambientato tra i panorami urbani della Francia del nord e del Belgio, fu un fiasco commerciale, ma rimane uno dei più felici film di Monicelli per ricchezza di gag, disegno dei personaggi, finezza di particolari in sagace equilibrio tra comico e patetico.
Poiché von Trier ha tra i suoi modelli Bergman, oltre a Tarkovskij cui dedica il film, diciamo che questo suo Scene da un matrimonio è discutibile sin dal titolo. Diviso in 6 capitoli: “Prologo”, “La paura”, “La pena”, “La disperazione”, “I 3 mendicanti”, “Epilogo”. L’ha ideato, scritto e diretto come terapia per uscire da una grave depressione. 2 personaggi in scena (anzi nel bosco) più 1. Lei è fuori di testa dopo aver visto, durante un coito, il suo piccolo Nic cadere dalla finestra della loro casa in città. Per curarla il marito psichiatra la porta in una capanna in mezzo a una foresta. Oltre a quella del sesso, esistono altre 2 pornografie, fondate sulla violenza e sull’imbecillità. Qui sono caoticamente fuse tutte e 3. Che cosa si proponeva l’autore con questo eurofilm dell’horror genitale, osceno e ossessivo, iperbolico e monocorde: scandalizzare il pubblico borghese? Spacciare il proprio forsennato formalismo per un discorso etico, simbolico, allegorico? Ostentare la propria misoginia? Sadicamente sottoporre a una performance estrema i 2 attori che, d’altronde, gareggiano in ardimento mimico-recitativo? Musica: G.F. Händel. Distribuzione: Lucky Red.
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