Galleria di 8 episodi boccacceschi con altrettanti ritratti femminili, ha per filo conduttore il camaleontico pluriprotagonista: “A tutto Gassman” diceva la frase di lancio. Esordio nella regia dello sceneggiatore campano Scola che lo scrisse con Ruggero Maccari. Diseguale, di comicità irresistibile almeno in due episodi (il penultimo con E. Rossi Drago e l’ultimo con J. Valérie), parolacciaro e scurrile, “di una volgarità efferata, ma divertente” (Gassman), ebbe un largo successo di pubblico e severe accoglienze di critica. Il problema che il senno di poi propone è: quella volgarità era nella realtà o nella rappresentazione che ne davano Scola e C.? “L’insistere su quelle ‘virtù’ degli italiani non corrispondeva a un aprire – e far aprire – gli occhi sull’Italia del boom?” (R. Ellero).
Itinerario nei problemi dell’immigrazione di Fortunato Santospirito, giovane meridionale che da Trevico, in provincia di Avellino, sbarca a Torino per andare a lavorare alla Fiat. Nella città piemontese l’immigrato si scontra con tutti i problemi e le difficoltà della sua condizione e si convince infine che la “questione meridionale” non potrà trovare una soluzione che all’interno del Mezzogiorno stesso.
Commissario in una imprecisata città veneta, Antonio Pepe è uomo posato e di cultura, comprensivo e efficiente nel proprio lavoro, ha un buon rapporto con i colleghi e una storia d’amore che preferisce tenere nascosta. Quando riceve l’ordine di indagare sui reati di carattere sessuale che si consumano nella sua area di competenza scoprirà l’insospettabile faccia nascosta di un luogo in cui sono all’ordine del giorno prostituzione minorile e orge altolocate, suore lesbiche e medici innamorati di giovani calciatori. Dopo Signore e signori di Pietro Germi, la commedia all’italiana torna a indagare su quell’apparente perbenismo del Nord Est sotto al quale brulicano insopportabili ipocrisie e sempiterne storie di corna. Sono bastati pochi anni, però, per inasprire il tono così che dalla satira di un certo modo di intendere e condurre la vita si è arrivati ad una critica sociale molto più amara. Alla quinta regia di un lungometraggio, Ettore Scola dimostra di saper andare a fondo in una materia di difficile gestione, tenendosi a distanza dall’ansia della predica e senza la pretesa di voler redimere nessuno. Qualche macchietta di troppo, il vecchio ubriacone o l’appuntato, tra gli altri, appesantiscono la prima parte di un lavoro che può essere considerato, insieme al precedente Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, come lo spartiacque verso la maturità dell’autore. Forse Antonio Pepe, interpretato da un Ugo Tognazzi straordinariamente in parte, morbido e sottile, è il primo grande personaggio dello Scola regista, una di quelle figure indignate e perdenti tipiche di un certo cinema, un uomo capace di fare scelte etiche importanti, lontano dalla collusione con quei meccanismi del potere che finiscono col far pagare agli umili le colpe dei potenti. Su sceneggiatura dell’autore e di Ruggero Maccari, ispirata al romanzo omonimo del veneto Ugo Facco De Lagarda, Il commissario Pepe è anche un film volutamente impregnato degli umori del tempo: ci sono diretti riferimenti alle lotte sessantottesche come alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam o alla Primavera di Praga con l’immagine – in primo piano – dello studente Jan Palach, morto nel gennaio di quello stesso 1969. A livello stilistico, non risultano sempre omogenei al racconto i momenti in cui il commissario immagina/sogna le proprie possibili reazioni davanti ad alcune situazioni che si trova a vivere. Molto tipica la colonna sonora di Armando Trovajoli.
Ad Arpino (Frosinone) un vecchio esercente idealista resiste alla cessione, e chiusura, del suo cinema Splendor. Sono con lui una matronale collaboratrice e un proiezionista che coltiva l’amore per il cinema come surrogato della realtà. Con Nuovo cinema Paradiso di Tornatore e Via Paradiso di Odorisio, uno dei 3 film italiani del 1988 che lamentano la morte del cinema in sala. Fiacco come amarcord, inattendibile sul piano rievocativo, moscio nell’intreccio degli affetti privati, lamentoso e contraddittorio.
Divertenti episodi in cui vizi e virtù dell’Italia in rovina sono messi in berlina. Un lettore di telegiornale (Mastroianni) piuttosto candido e distratto fa da filo conduttore ai vari episodi, presentati come servizi speciali di un allora inesistente TG3
Tornato a Napoli 40 anni dopo esserci stato come soldato, dirigente USA scopre che tutti si ricordano di lui. Per 40 anni Antonio, napoletano verace, ha continuato a scrivere, a suo nome, lettere da tutto il mondo. Nella sua gradevolezza consolatoria, è una commedia fiacca, flebile, di scarso spessore, specialmente nell’edizione parlata in italiano, e non bilingue. Qualche invenzione brillante e finale a sorpresa. Duetto di bravura.
Patriarca pugliese immigrato in borgata romana, per far dispetto alla sua tribù, si porta a casa puttanona dal cuore di miele; gli altri cercano di avvelenarlo nella speranza di mettere le mani su un milione che lui ha ottenuto come indennizzo per un occhio perso. Farsa tragicomica antipopulista con ambizioni di libello satirico in cadenze crudelmente grottesche. Un Manfredi in gran forma carognesca e una colorata folla di caratteristi.
1983. Donne ed uomini entrano separatamente in una sala da ballo della periferia parigina. Hanno inizio le danze precedute dalla ricerca dei partner. Con un flashback si passa al 1936 e nello stesso locale si succederanno persone e situazioni scandite dagli anni (1940/1945/1956/1968) per poi tornare al presente. Scola gira un film che per voglia di sperimentare potrebbe essere paragonato al suo Trevico-Torino … Viaggio nel Fiat-Nam di dieci anni antecedente. Non perché i temi siano gli stessi, ovviamente, ma perché identica è la spinta di ricerca verso un modo di fare cinema che sia innovativo ma non sterile.
Cronaca di una giornata nella vita di un avvocato romano sessantenne in compagnia del figlio che fa il servizio militare a Civitavecchia. Affidato, più che a un intreccio, a una situazione, il film ha un andamento ondivago e un ritmo lasco, nonostante la ricchezza di spunti, sottofondi, scatti d’umore. Sul tema della difficoltà di comunicazione tra due generazioni è un veicolo per 2 prove di attore a confronto, indebolito da un improbabile M. Troisi, troppo anziano e troppo napoletano per la parte. Coppa Volpi ex aequo a Venezia 1989.
Film diviso in tre episodi intitolati rispettivamente: Il vittimista, Sadik e L’autostrada del sole. Nel primo Manfredi interpreta un insegnante di latino che va dallo psicanalista perché convinto che la moglie voglia ucciderlo; il luminare gli consiglia d’abbandonare l’amante ma sarà lei ad eliminarlo. Nel secondo, Chiari è costretto dalla moglie a fingersi un eroe dei fumetti neri. Nel terzo, Sordi è un automobilista con l’auto in panne, costretto a trascorrere la notte in una locanda gestita da violenti maniaci.
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Nel 1791 re Luigi XVI e Maria Antonietta fuggono verso Metz per sottrarsi all’imminente giudizio dell’Assemblea Nazionale. Su un’altra diligenza il cronista Restif de la Bretonne viaggia con Tom Paine, americano liberale, e poi con il vecchio Giacomo Casanova. Raggiungono il re a Varennes: è la notte tra il 20 e il 21 giugno. Film Gaumont di alto costo, esempio di cinema europeo di qualità: tema importante, compagnia internazionale di attori famosi, grande spettacolo, messinscena di accademica eleganza, troppa didattica nei dialoghi (Sergio Amidei), un’apprezzabile distanza dalla materia storica e dai personaggi. Forse Scola s’identifica con Casanova, con il suo sguardo lucido e disincantato.
6 maggio del 1938, giorno della visita di Hitler a Roma. In un comprensorio popolare, Antonietta, moglie di un usciere e madre di sei figli, prepara la colazione, sveglia la famiglia, aiuta nei preparativi per la parata. Una volta sola, inavvertitamente, apre la gabbietta del merlo che va a posarsi sul davanzale di una appartamento difronte al suo. Bussa alla porta, ad aprirle è Gabriele, ex annunciatore dell’EIAR che sta preparando la valigia in attesa di andare al confino perché omosessuale. Mentre la radio continua a trasmettere la radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini, Antonietta e Gabriele si rispecchieranno l’una nell’altro. Dramma psicologico di finissima fattura e eccezionale presa emotiva, Una giornata particolare è una delle vette dell’opera di Ettore Scola, autore anche della sceneggiatura scritta con Ruggero Maccari e la collaborazione di Maurizio Costanzo. Aperto da sei minuti di cinegiornali a contestualizzare il momento storico, questo indiscutibile capolavoro del cinema italiano degli anni Settanta avvolge con i movimenti di una macchina da presa mobilissima, con la fotografia color seppia di Pasqualino De Santis, con un’atmosfera ovattata che, meglio di qualunque altra, comunica una dolorosa sensazione d’attesa. Pur muovendosi soltanto tra due appartamenti, una rampa di scale e una terrazza, il regista riesce a svelare la complessità della congiuntura storico-sociale e quindi di un mondo intero, fatto di rinunce e infelicità, asciugando l’enfasi, ma senza respingere, tuttavia, un continuo e quasi incombente stato di commozione. O meglio di compartecipazione. I punti di vista di Antonietta e Gabriele sembrano, inizialmente, inconciliabili, ma finiscono con l’avvicinarsi. Alla fine della giornata addirittura coincidono perché c’è una sola e giusta direzione di sguardo, un’equivalenza di solitudine capace di colmare le differenze tra due diverse eppure uguali vittime del regime mussoliniano, la prima incosciente e la seconda fin troppo consapevole: «Io non credo che l’inquilino del sesto piano sia antifascista. Se mai il fascismo è anti-inquilino del sesto piano» dirà Gabriele, riassumendo l’orrore della dittatura. Come ogni grande film, è anche una potente riflessione sul tempo, inteso in senso strettamente filmico quanto filosofico, la narrazione si chiude del resto con Antonietta che spegne l’abat-jour dopo il risveglio della propria coscienza: «Una giornata, nulla di più. Di quelle che cambiano la vita. Una manciata di ore che arriva dentro un’esistenza cambiandola. Dopo, tutto sembra diverso. Tutto quello che era accettabile non lo è più, tutto quello che appariva normale non lo è più» (Walter Veltroni, Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1988). Una curiosità: diciotto anni dopo, Ettore Scola girerà nello stesso stabile romano di Via XXI Aprile Romanzo di un giovane povero. Fu candidato all’Oscar nelle categorie Miglior film straniero e Miglior attore, ma l’Academy preferì premiare La vita davanti a sé di Moshé Mizrahi e il Richard Dreyfuss di Goodbye amore mio!. Maiuscola la prova di Marcello Mastroianni e Sophia Loren, per la dodicesima volta insieme.
Protagonista è Inuk, un esquimese. Si sposa, ha un figlio e un giorno uccide un bianco che ha rifiutato l’offerta della moglie da parte sua, secondo un’usanza degli esquimesi. Dovrebbe essere arrestato e due poliziotti lo trovano. Uno muore di freddo, l’altro viene salvato da Inuk. Il poliziotto dirà che l’assassino è morto e l’esquimese potrà continuare a vivere la sua difficile esistenza, sempre in lotta con la natura.
La giovane danzatrice americana Susie Bannion arriva nel 1977 a Berlino per un’audizione presso la compagnia di danza Helena Markos nota in tutto il mondo. Riesce così ad attrarre l’attenzione della famosa coreografa Madame Blanc grazie al suo talento. Quando conquista il ruolo di prima ballerina Olga, che lo era stata fino a quel momento, accusa le dirigenti di essere delle streghe. Man mano che le prove si intensificano per l’avvicinarsi della rappresentazione, Susie e Madame Blanc sviluppano un legame sempre più stretto che va al di là della danza. Nel frattempo un anziano psicoterapeuta cerca di scoprire i lati oscuri della compagnia.
La vita di Gesù, tratta dal Vangelo e da alcuni racconti apocrifi. Questo film è stato realizzato per la televisione italiana (diviso in 6 puntate) ed è stato un avvenimento d’eccezione, seguito contemporaneamente in quasi tutto il mondo.
In un paesino del sud, un giornalista milanese in vacanza scopre l’efferato uccisore di tre bambini. I produttori riuscirono a montare una efficace trovata pubblicitaria: il fim fu sequestrato perché in una lunga sequenza la Bouchet appare nuda in compagnia d’un bambino, cosa proibita dalla censura, ma, al processo, si poté dimostrare che il bambino era in realtà un nano maggiorenne e ciò valse l’assoluzione della pellicola.
Antonio (Lo Verso), giovane carabiniere calabrese, ha il compito di accompagnare l’undicenne Rosetta (Scalici), prostituita dalla madre, e il fratellino Luciano (Ieracitano) in un orfanotrofio di Civitavecchia che, però, si rifiuta di accoglierli. Il viaggio prosegue per un istituto in Sicilia. Il cuore di questo film bellissimo e importante _ scritto dal regista con Sandro Petraglia e Stefano Rulli _ è nel rapporto tra carabiniere e bambini: lenta conquista, avvicinamento, osmosi. Grazie ad Antonio i due bambini _ che nei film di Amelio sono sempre una maschera dell’adulto non cresciuto _ imparano per pochi giorni a ridiventare bambini. Pur nella fedeltà a un’alta idea di cinema che dice attraverso il non detto e tende a esprimere l’inesprimibile, Amelio ha fatto un film emozionante anche nella sua durezza e nel rifiuto di ogni consolazione. La sua concretezza disadorna si può cogliere nel modo, sommesso e lucido, con cui si dà testimonianza dell’Italia sia nel paesaggio (la mescolanza di sfascio e benessere) sia nell’acquiescenza tranquilla della piccola gente di Calabria e Sicilia. Almeno due sequenze memorabili: il pranzo in Calabria e il bagno in mare. Gran Premio della Giuria a Cannes e il Felix per il miglior film europeo. 2 Nastri d’argento (regia, sceneggiatura).
Afflitto da un tormentoso rapporto edipico con una madre megera e possessiva, Mario Cioni cerca inutilmente di liberarsene, affidandosi alle speranze di una rivoluzione guidata dal segretario del PCI Enrico Berlinguer. Libera rielaborazione di un monologo teatrale (Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, 1975), è il duplice esordio nel cinema di Bertolucci Jr. e Benigni. Casto nelle immagini e di torrentizia scurrilità genitale nei dialoghi, è un film anomalo fondato su diverse contraddizioni: stridente coabitazione di comico e drammatico; enormità delle provocazioni verbali e tenerezza delicata a livello figurativo; un protagonista che è, insieme, moderno e arcaico; miscuglio di intelligenza campagnola e estri surrealisti. Uscì troppo presto e fu un insuccesso.
Una mattina del marzo 1937 a Palermo un uomo commette tre delitti. Freddamente uccide il superiore che lo ha licenziato, il sostituto e per finire sua moglie. Si fa trovare a casa e si farebbe tranquillamente condannare a morte, siamo in pieno fascismo, se non fosse che il giudice Vito Di Francesco decide di scavare a fondo nella vicenda per trovare attenuanti. Dal romanzo di Leonardo Sciascia, il film è un lucido resoconto sul potere, sulla giustizia e sulla passione. Ha vinto il David di Donatello, la Grolla d’Oro per la regia, l’Oscar europeo e una candidatura a quello hollywoodiano. Superba l’interpretazione di Volonté e ottima quella dell’emergente Fantastichini.
Azur ha gli occhi azzurri, Asmar ce li ha neri come la notte. Il primo è figlio di un nobile gelido, il secondo di un’amorevole balia, che cresce i pargoli come fratelli, raccontando a entrambi, ogni sera, alle porte del sonno, la leggenda della fata dei Jinns, che attende, da una prigione nascosta, il giovane che la libererà. Ma un giorno il padre di Azur lo manda lontano da casa per studiare e scaccia dalla sua dimora francese la nutrice e il piccolo Asmar. Solo una volta adulto, Azur si imbarcherà in direzione dell’Oriente per ritrovare i suoi cari e liberare la fata dei Jinns.
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