Per la Sicilia del ’53 con un autocarro, un tendone e una cinepresa Joe Morelli (Castellitto), sedicente inviato di una casa cinematografica romana, va in giro a fare provini (falsi) a pagamento, promettere fama e denaro,spacciare illusioni, alimentare speranze. Verrà duramente castigato. Nonostante le debolezze di sceneggiatura (scritta con Fabio Rinaudo), sono apprezzabili la direzione degli attori, il disegno dei personaggi minori (Trieste, Gullotta, Sperandeo), la sapienza concisa del narrare, le luci e il colore di Dante Spinotti, la forte sequenza dell’occupazione delle terre. Premio speciale della giuria a Venezia 1995 ex aequo con La commedia di Dio di Monteiro.
Sostituita versione con una che ho rippato direttamente da dvd originale
Regista alla ricerca di un personaggio femminile e di una storia ha due rapporti successivi con due giovani donne, l’aristocratica Mavi e la borghese Ida. Ne esce due volte sconfitto. Più che crisi esistenziale, si hanno qui conflitti di sentimenti che hanno radici concrete: differenze di età, di classe, di educazione. È il più concreto film di Antonioni, quello in cui c’è maggiore spazio alle emozioni, al comportamento, alla fisicità. Il più parlato anche (Gérard Brach in sceneggiatura con l’apporto di Tonino Guerra), il più ironico e il più sereno anche se di una contristata serenità, puntato sui personaggi più che sul loro rapporto con l’ambiente e il paesaggio.
Si intreccia alla rievocazione di un tragico episodio storico, l’eccidio alle Fosse Ardeatine, una vicenda di fantasia imperniata sul furto di un prezioso quadro del Masaccio.
Lorenzo, gay spavaldo, Blu, disinibita provocatrice, e il bel tenebroso Antonio sono i 3 diversamente diversi di una III liceo di Udine. Bollati dai compagni come “il frocio”, “la troia” e “il ritardato”, fanno comunella e gli rendono pan per focaccia. Ma Lorenzo s’innamora di Antonio, che invece ama Blu, che però è fidanzata con un universitario. Cotroneo ha messo in immagini il suo romanzo omonimo del 2010, modificandolo nella sceneggiatura con l’aiuto di Monica Rametta. Ne è sortito un teen movie musicale e grottesco che ha il pregio di documentare e denunciare l’omofobia, il sessismo e il bullismo che allignano nelle scuole italiane, ma il difetto di abbandonarsi a un estetismo eclettico che accumula, senza amalgamarli, generi, riferimenti e stili eterogenei. La gagliarda e onnipresente colonna sonora include i Blondie, i New Order, Lady Gaga, Mika. Originali coreografie di Luca Tommassini, fotografia impeccabile di Luca Bigazzi.
Stanco della moglie e invaghito di una cugina sedicenne, barone siculo induce la consorte al tradimento e poi la uccide. È condannato a una pena minima per “delitto d’onore” e può sposare la cugina. Si può fare una commedia intelligente, lesta, graffiante anche illustrando un articolo (il 587) del Codice Penale. Se c’è un’arte che nasce dall’indignazione, questo film le appartiene. Oscar per la sceneggiatura a Ennio De Concini, Alfredo Giannetti e Germi e il premio della migliore commedia a Cannes. Rita Savagnone ha dato la voce sia a D. Rocca sia a S. Sandrelli.
Dal racconto La settima vittima (1954) di Robert Sheckley: nel Duemila s’è costituito su scala mondiale un club privato i cui iscritti, accoppiati da un computer, si impegnano in una caccia mortale, alternativamente come cacciatori o vittime. A Roma una maliarda superorganizzata bracca la sua decima vittima. Tolto il debole finale, imposto dal produttore Carlo Ponti, Petri ha vinto la rischiosa scommessa, grazie anche all’apporto di Ennio Flaiano in sceneggiatura, con un curioso e affascinante film dove la SF si mescola al western, al cinema di spionaggio, alla commedia romanesca.
Nel 1929 Célestine, cameriera parigina, è assunta in casa di un ricco borghese di provincia: il padrone è feticista, la padrona frigida e avara e i servi non valgono più di loro. Dal romanzo (1900) di Octave Mirbeau, già filmato da Renoir nel ’46 a Hollywood. Su sceneggiatura di J.-C. Carrière, un livido e caustico film antiborghese e antifascista sulla provincia francese torbida e arida, ammirevole per l’avaro rigore della sua drammaturgia. Premio a J. Moreau al Festival di Karlovy Vary.
Un settentrionale per motivi di lavoro si trasferisce al sud lasciando una fidanzata al paese. La lontananza lo costringe a rivedere i propri sentimenti.
Dal romanzo Il postino suona sempre due volte (1934) di James Cain: malmaritata a un uomo più vecchio di lei, una donna induce un giovane vagabondo di cui è diventata l’amante a uccidere il consorte in un incidente automobilistico truccato. Qualcosa di più di un film: una bandiera, un manifesto, un simbolo. Memorabile esordio di Visconti, aprì la strada al neorealismo postbellico, agganciò il cinema italiano alla cultura europea della crisi, fu la scoperta di un’Italia amara, fatta con violento pessimismo, tramite il filtro del romanzo nordamericano e del realismo francese di J. Renoir. Nonostante difetti, eccessi, compiacimenti estetizzanti, un ammirevole esempio di fusione tra realismo e decadentismo. Scritto da Visconti, G. De Santis, M. Alicata, M. Puccini e, non accreditati, R. Assunto e S. Grieco. Fotografia: Aldo Tonti, Domenico Scala. Musica: Giuseppe Rosati. Marcuzzo (nel film lo Spagnolo) fu impiccato per errore con il fratello Armando (e seppelliti vivi) nell’aprile 1945 da una banda di partigiani, comandata dal sanguinario Gino Simionato detto il Falco che, con altri 3, fu indagato e prosciolto nel ’54 per amnistia. Il romanzo di Cain fu filmato dal francese P. Chenal (1939) e dagli americani T. Garnett (1946) e B. Rafelson (1981).
Gelsomina è un’adolescente introversa che vive nella campagna umbra con i genitori e le sorelline. Primogenita tutelare e solerte nelle faccende familiari, Gelsomina è inquieta e vorrebbe andare via, scoprire il mondo che comincia dopo il suo casale. A trattenerla è un padre esclusivo e operaio, alla maniera delle sue api, che guarda a lei ancora come a una bambina. La loro routine, scandita dalle stagioni e dall’impollinazione delle api mellifere, è interrotta dalla presenza di una troupe televisiva e dall’arrivo di Martin, un ragazzino con precedenti penali che deve seguire un programma di reinserimento. L’esoticità di una conduttrice tv e di un adolescente senza parole impatteranno la vita di Gelsomina e della sua famiglia, promettendo ciascuno a suo modo ‘meraviglie’.
Uccidono una mondana in riva al Tevere. La polizia comincia a tartassare le persone (ruffiani, ladri, ragazzi di vita) viste sul luogo nelle ore dell’omicidio. Accusati da un vagabondo, due minorenni sono presi dal panico e scappano. Nella fuga uno muore. Il vero colpevole verrà scoperto solo alla fine. Esordio del ventitreenne Bertolucci, sotto l’ala di Pasolini.
A Torino all’inizio del secolo gli operai di una fabbrica sono in urto con i padroni. Ci vuole uno sciopero ad oltranza, e per organizzarlo arriva da Roma il socialista professor Sinigaglia. Lo sciopero è spento nel sangue. Ma intanto i lavoratori hanno imparato a battersi per i loro diritti. La nascita del sindacalismo è raccontata da Monicelli nei modi che gli sono propri, quelli della commedia all’italiana.
1897-98 nelle campagne della Bassa bergamasca: la vicenda corale di alcune famiglie contadine che lavorano la terra a mezzadria tra duri sacrifici, ma con grande dignità. Solenne e sereno, grave e pur lieve come le musiche di Bach che l’accompagnano, il 9° di Olmi è _ con Novecento (1976) di B. Bertolucci che è il suo opposto _ il più grande film italiano degli anni ’70, e l’unico, forse, in cui si ritrovano i grandi temi virgiliani: labor, pietas, fatum. Gli sono stati rimproverati una rappresentazione idealizzata, troppo lirica, del mondo contadino, la cancellazione della lotta di classe, la rarefazione spiritualistica del contesto sociale.È indubbio che al versante in ombra (grettezza, avidità, violenza, odi feroci) del mondo contadino Olmi ha fatto soltanto qualche accenno, e in cadenze bonarie, ma anche in quest’occultamento è stato fedele a sé stesso e alla sua pietas. Il sonoro originale fu doppiato dagli stessi attori non professionisti in un dialetto italianizzante. Alcune copie circolarono con sottotitoli in italiano nei dialoghi più ostici. Venduto in un’ottantina di nazioni. Palma d’oro e Premio Ecumenico a Cannes. César per il film straniero in Francia.
Nell’ottobre 1957, mentre i paracadutisti del colonnello Mathieu rastrellano la Casbah, Ali La Pointe, uno dei capi della guerriglia algerina, rievoca il passato, l’organizzazione dell’FLN (Fronte di Liberazione Nazionale), gli attentati, gli scioperi, le delazioni. Ali La Pointe è ucciso, ma tre anni dopo, in dicembre, il popolo algerino scende in piazza, proclamando la propria volontà di indipendenza. Sobria rievocazione di taglio documentaristico sulla base di una solida sceneggiatura di Franco Solinas che, con forte coralità e qualche dilatazione nelle fasi degli attentati, mostra una guerra di popolo, spiegando anche le ragioni del “nemico”, i francesi. Leone d’oro a Venezia, il film ebbe vasta risonanza internazionale, soprattutto sui mercati di lingua inglese, diventando, fra l’altro, un film di studio per le Black Panthers. Musica di E. Morricone e splendido bianconero scope di Marcello Gatti.
Film impossibile da recensire, in chiave “normale”. Perché non si può non partire da due pregiudizi, quello del credente o quello del non credente. Critici e commentatori normalmente equidistanti e distaccati, molto accreditati, non hanno resistito al sentimento, al coinvolgimento, sì, al pregiudizio. La Passione è stato definito pulp, horror, e via dicendo. Vanno rilevati, prima di tutto, l’attesa e il marketing. In tutta la storia del cinema mai un film ha generato tanta attesa, da Via col vento a Ben Hur, da Otto e mezzo a Schindler’s List. Un’attesa certamente buona e benemerita, al di là di tutto. Lo si deve a Gesù, personaggio eccezionale, magari divino. Guardato al microscopio della filologia, dei vangeli, della Storia eccetera il film presenta… solo errori: il linguaggio, le omissioni, questi troppo cattivi, quelli troppo buoni, l’eccesso di violenza, i pesi del racconto, la parte di croce orizzontale, la croce intera, i buchi prefabbricati, l’invenzione del diavolo. Trattasi di un vero manifesto di tutte le licenze che può permettersi il cinema. E non vale neppure la (più o meno grande) consapevolezza di Gibson, che è comunque autore tenace e capillare e certamente ha molto ragionato su ciò che doveva fare. Il film va dunque inteso come eccesso di cinema e magari di licenze, e come iperbole generale. Col paradosso degli opposti: troppa filologia di linguaggio – aramaico e latino – troppa semplicità e sproporzione di caratteri – le facce da bestie dei torturatori, di Barabba, la crudeltà di Caifa eccetera -, 90 minuti di torture, 2 minuti di resurrezione.
E poi quel simbolo grottesco del tavolino costruito dal falegname Gesù, di perfetto design, che mette in difficoltà anche la Madonna. Dunque iperbole e eccesso di espressione. Però, rispetto all’iconografia tradizionale certamente Caviezel si avvicina molto a quell’immagine. La scena iniziale nel Getsemani, la sagoma di Gesù, il buio, gli ulivi neri, la paura del destino che si compirà, davvero commuove. Chi crede è tenuto a ritenere che quella rappresentazione sia vicina alla verità. Così come cerca di essere verità il linguaggio, l’aramaico e il latino tradotti dai sottotitoli. E i sottotitoli sono, questa volta, una mediazione particolare, sono la metafora di sé stessi. Certo, è sentimento, è suggestione. Non è fede, che deve giungere da altri luoghi, non dalla corteccia, ma dalla profondità cerebrale. E poi il cinema, si sa, non ha lo stomaco per i grandi pronunciamenti. Puoi entrare in sala dubbioso ed uscire credente, magari per un’ora, o per un giorno. Nessuno si convertirà assistendo alla Passione, perché il cinema non converte nessuno. Il film potrà essere acquisito come moda o suggestione però il primo risultato c’è stato, quello dell’attesa, dell’evento e, appunto, del promemoria. La violenza, la sofferenza, il sangue, iperrealisti, esasperati, ne sono il valore aggiunto. In venti secoli di tradizione, di memorie, di omelie reiterate, forse l’istantanea della sofferenza di Gesù è diventata abitudine, è stata dimenticata e azzerata. Gibson ce la ripropone con un supplemento di shock. Un promemoria che può servire. In questo momento storico, dove la nostra cultura occidentale, e la nostra religione, sono taciturne, sconcertate e aggredite, è bene ricordare che anche dalle nostre parti c’è una mistica forte e c’è la fede, se vuoi interessarti a lei.
Che ci crediate o meno questo film è scioccante, la violenza è tanta. Sconsigliato alle persone più sensibili.
Un cacciatore di taglie è deciso a mettere le mani su un desperado messicano. Capita però in una famiglia dove il ricercato è ritenuto un bravo figliolo. Ma questi si rivela ben presto una belva assetata di sangue, cosicché i suoi amici, dopo averlo sulle prime aiutato, gli si rivolteranno contro decretando la sua fine.
Anni Quaranta. Attilio è un attore che ha aderito alla Repubblica di Salò ed ora, nel dopoguerra, non ha più nessuna scrittura. Insieme ad altri tre disadattati tenta una rapina in banca che riesce anche se un componente della banda muore. I sopravvissuti tentano la fuga nell’Appennino parmense approdando a una cascina isolata nella campagna in cui vivono 4 donne che accettano di ospitarli dietro compenso. Ciò che li attende va molto al di là delle loro aspettative. La casa nel vento dei morti è uno di quei film che, probabilmente per eccesso di sicurezza nei propri mezzi, non è quello che avrebbe potuto essere. Avrebbe potuto diventare un cult dell’horror trash e ne aveva a disposizione i mezzi e, soprattutto, gli attori. Perché esattamente dopo 45 minuti (e cioè quando si raggiunge la casa del titolo) si percepisce che il trio di interpreti maschili, le attrici che gli si contrappongono e la stessa ambientazione possono portare ad un crescendo in cui la dimensione rurale assume un valore specifico. Quei muri scrostati, quel tavolo ingombro di stoviglie, il clima stesso che si respira a tavola preludono al dispiegarsi di una brutalità quasi da rito pagano. È quanto accade. Solo che prima si è dovuto sopportare un ‘viaggio’ nella Natura che avrebbe dovuto servire a delineare le caratteristiche dei personaggi e che si rivela invece come carico di psicologismi di maniera (così come di maniera e di autocelebrazione grondano i titoli di testa). Unica ‘perla’ la breve sequenza che ricostruisce con attenzione filologica un film come quelli che Valenti e Ferida giravano negli stabilimenti situati alla Giudecca. Capita così che regista e sceneggiatore (che qui è anche protagonista) fatichino a rendersi conto della loro reale vocazione e pretendano di muoversi su territori che non gli appartengono. Un conto è scrivere nella presentazione del film “Abbiamo inserito quegli elementi thriller e horror che porteranno la storia ad un cambiamento radicale nella seconda parte” e un altro conto (per il thriller) è riuscirci.
La vita e l’opera del famoso attore raccontata da voci celebri e narratori d’eccezione (da Ben Gazzarra e F.Murray Abraham a Liliana de Curtis). Un racconto appassionato e appassionante dei suoi incredibili successi ma anche delle inattese tragedie, come la cecità che lo colpì senza interrompere la sua brillante carriera.
Attraverso materiale inedito, composto da manoscritti, lettere d’amore, fotografie, poesie e canzoni mai pubblicate, sono raccontati al pubblico gli aspetti più segreti e privati dell’uomo Antonio de Curtis.
Un reduce della seconda guerra mondiale, disoccupato, ruba delle pecore a un malvagio profittatore bellico per vendicarsi d’un furto che l’altro aveva compiuto ai suoi danni, ma il potente riesce a far condannare il poveretto. Non soddisfatto, il ricco insidia la fidanzata del carcerato che, evaso, cerca di vendicarsi. Il malvagio, sconvolto dalla paura, uccide la ragazza e perisce in un incidente. L’eroe si costituisce certo che un’altra donna, anch’essa vittima del profittatore, rimarrà ad aspettarlo.
Mentre lavora per un amico regista (Fantastichini) a un film su Teresa d’Avila (1515-1582, mistica, scrittrice e santa spagnola), il vedovo Ernesto (Herlitzka), sceneggiatore misantropo, malato di cuore e voyeur, si prende a servizio Luana (Ponzo), disinibita cameriera per la quale nutre una folle e pur controllata passione erotica. Lei lo ricambia con tradimenti bisessuali e con un affetto sincero e disinteressato. Seguito dalla voce off del protagonista con un effetto di straniamento brechtiano, è un melodramma amoroso raffreddato e razionalizzato che evita, anche nell’imprevedibile epilogo, tutti gli stereotipi del genere. Radicale nel rigore stilistico, nell’analisi psicologica, nella struttura orizzontale della narrazione, lo è anche nelle contrapposizioni: scene di sesso spinte al limite del porno e colte disquisizioni verbali e visive (Bernini, Borromini) sull’autrice del Libro delle dimore ; perversioni erotiche e generosa onestà dei comportamenti; recitazione calibratissima di un teatrante provetto (Herlitzka) e straordinaria naturalezza di una esordiente (Ponzo) nuda in una scena su due. Uno dei rari film italiani della stagione 1998-99 vietati ai minori di 18 anni e uno dei meno capiti. Segna il ritorno alla regia dopo 7 anni del napoletano Piscicelli che l’ha scritto con Franca Apuzzo, ne ha curato il montaggio e scelto le musiche: Mozart, Brahms, Chopin, Bizet, Satie, Debussy, Carlo Gesualdo, Ravel.
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