Ritratto di un giovane fascista che s’arruola nella X Mas della Repubblica di Salò e della sua tormentata presa di coscienza. Opera prima di G. Montaldo, è il migliore dei rari film italiani sul periodo 1943-45 visto dalla parte dei fascisti repubblichini. La sincerità di fondo riscatta qualche ingenuità e lo schematismo didattico dell’impianto: Montaldo è così preoccupato di spiegare l’epoca che si è dimenticato di raccontarla. Direzione di attori insufficiente. Da un romanzo (1956) di Giose Rimanelli, liberamente rimaneggiato.
Seconda guerra mondiale: un ufficiale della marina porta a termine pericolose e importanti missioni belliche offensive servendosi dei famosi “maiali”. Nel corso di un’azione, in cui rischia la vita, viene preso prigioniero ma si salva. A guerra terminata gli verrà conferita la medaglia d’oro.
Un gruppo di banditi si impossessa con la violenza di alcune proprietà nel West. Due killer, attratti dalle ingenti taglie, scoprono il capo dei fuorilegge e…
Ai fratelli Perez, che spadroneggiano su un intero paese, si oppone Johnny Oro, famoso pistolero che intende intascare la taglia posta sulle loro teste. Ci riuscirà dopo una lunga lotta, con l’aiuto di uno sceriffo coraggioso, di una donna e di qualche tubo di dinamite.
A. (Keitel), regista greco, torna in patria per la prima di un suo film e per cercare tre bobine di un negativo ( Le tessitrici ) impressionato nel 1905 dai fratelli Maniakas, pionieri del cinema, girovaghi nei Balcani. Il suo viaggio di ricerca attraversa Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania e approda alla straziata Sarajevo dove l’attende un anziano cinetecario (Josephson). (La parte era destinata a Gian Maria Volonté, morto dopo pochi giorni di riprese.) Capolavoro imperfetto? Nella malinconica liturgia solenne del suo cinema di riflessione sulla Storia le pagine opache non mancano, ma le pagine riuscite sono di alto livello, e più numerose. Scritto con Tonino Guerra e Petros Markartis, il 10° film di T. Anghelopulos conferma che questo regista isolato, peculiare e inimitabile è uno dei pochi cui si può attribuire la qualifica di “europeo”: il suo è “un invito alla ragione (non alla ragion di Stato), di cui abbiamo bisogno perché il relativo sonno non generi altri goyeschi mostri” (L. Pellizzari). Non c’è ritorno a Itaca per il suo Ulisse: l’epica sfocia in tragedia. Lo sguardo innocente dei pionieri del cinema è perduto per sempre. Gran Premio della Giuria a Cannes 1995 quando la Palma d’oro toccò a Underground di Kusturica, come dire l’Odissea e l’Iliade di questa fine di secolo.
La battaglia di El Alamein (23-10/1-11-1942), 100 km a ovest di Alessandria d’Egitto dove le forze armate italo-tedesche del generale Rommel furono sconfitte dalla soverchiante ottava armata britannica del generale Montgomery, raccontata dal basso, dal punto di vista di una compagnia della divisione Pavia, inchiodata alla sabbia del deserto in un caposaldo isolato nel settore sud. Quasi tutto funziona in questo film bellico che è anche una storia di formazione, leggibile a diversi livelli. L’ha scritto un regista che sa dosare dramma e commedia, azione e riflessione, disegno di personaggi (tutti con le “facce giuste”) e cinema di denuncia nel raccontare la dolorosa crescita e presa di coscienza del V.U. (Volontario Universitario) Serra (Briguglia) anche se il sergente Rizzo (Favino) è “la figura sulla quale si gioca il delicato equilibrio del film” (A. Crespi). Perché “quasi tutto”? La disuguale tenuta espositiva alterna parti felici (la prima mezz’ora) ad altre meno riuscite (il notturno attacco britannico). Inoltre, come spesso succede ai registi italiani, Monteleone non ha abbastanza fiducia in sé stesso e si preoccupa troppo di spiegare, di ribadire nei dialoghi quel che era già stato detto nelle immagini. Fotografia: Daniele Nannuzzi, figlio di Armando. Montaggio: Cecilia Zanuso. Girato in Marocco.
Ardenne 1944: soldati americani distruggono senza volerlo squadra USA incaricata di pericolosa missione, si affiancano ai partigiani francesi e si lanciano in un’avventurosa impresa. Quasi geniale per la faccia di bronzo con cui i 5 sceneggiatori e il regista (E. Girolami alias Castellari) tirano la corda dell’improbabile, per il gusto inventivo delle gag d’azione, per l’abilità dei cascatori e degli effetti speciali. Distribuito in mezzo mondo, USA compresi, dove è piaciuto assai a Q. Tarantino.
Su un soggetto di Alberto Arbasino che lo sviluppò poi in un romanzo (1972): storia d’amore tra una ricca, energica agraria del Lodigiano e una lenza di meccanico cremonese; prima se lo porta a letto, poi lo manda in carcere per furto e, infine, lo sposa, pronta a investire nel ramo industriale. Unico film del regista teatrale M. Missiroli, affidato a una sceneggiatura nervosamente frantumata e a un montaggio raccorciato, tira al bersaglio sull’Italia provvisoria, sbracata ed efficiente del boom economico, ma lo colpisce raramente. Gli mancano le immagini pregnanti, le scene conclusive, i momenti folgoranti. Bravina la Sandrelli, doppiata benissimo da Adriana Asti.
Sasà, finto avvocato napoletano, ha l’incarico di trovare la figlia di un industriale scomparsa. Il compenso sarà una “mazzetta” di banconote. La mazzetta si ingrossa col procedere delle indagini (e proporzionalmente al “marcio” che Sasà si trova a scoprire). Saltano fuori importanti connivenze e una corruzione che ha le sue radici molto in alto.
Capitan Miki è un personaggio immaginario protagonista di un’omonima serie a fumetti ideata e realizzata dalla Essegesse[1][2] e pubblicata per la prima volta in formato a striscia dal 1951 dall’Editoriale Dardo[3][4]. Raggiunse un grande successo di vendite con tirature di circa 200.000 copie[5]arrivando a toccare nella seconda metà degli anni cinquanta le 250.000 copie settimanali[6][7]. Ha avuto negli anni numerose ristampe[1][7]. Fa parte di una serie di personaggi di giovane età protagonisti di avventure western inaugurata nel 1948 dal Piccolo Sceriffo e che ebbe numerosi epigoni quali Il piccolo Ranger e Un ragazzo nel Far West;[8] all’interno di questo sottogenere western, Capitan Miki esordì nel 1951 ed ebbe una lunga vita editoriale venendo pubblicato fino all’ottobre 1967 oltre a essere ristampato più volte in vari formati editoriali.[7][1] Il fumetto nacque su iniziativa del gruppo di autori conto come EsseGesse e composto dai disegnatori Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris e lo realizzarono fino al 1965 quando conclusero il loro contratto con la Dardo. La serie venne continuata fino al 1967 per opera di altri autori come Eugenio Tonino Benni, Nestore Del Boccio, Bertrand Charlas, Pierre Mouchot e Franco Bignotti[9] sempre edita dalla stesso editore. Negli anni novanta vi fu una breve produzione di nuove storie su soggetto e supervisione del solo Dario Guzzon, ultimo sopravvissuto del trio, e realizzate da Alberto Arato per i testi e disegnati da Birago Balzano e Paolo Ongaro. L’ultima storia inedita apparve sulla VII serie.
La domenica del diavolo (Midnight Blue nell’edizione straniera) è un film del 1979, diretto da Raimondo Del Balzo.
Tre giovani e attraenti atlete invitano tre uomini a trascorrere la notte con loro, pensando a un occasionale flirt estivo. Ma molto presto l’avventura diventa un incubo violento.
La morte è la protagonista dei tre episodi che compongono il film e che tendono a dimostrare l’assoluta e crudele inutilità della guerra. Dal primo conflitto mondiale in poi, la morte miete vittime spesso senza alcuna giustificazione, finché, dopo un’immaginaria guerra atomica che ha reso la terra un immenso deserto, non sarà a sua volta eliminata da una delle ultime macchine costruite dall’uomo.
Non è soltanto la cornice – periferia ed entroterra di Napoli – che lega i 5 episodi (“Sofialorèn”, “La stirpe di Iana”, “Maruzzella”, “Il diavolo nella bottiglia”, “La salita”). C’è lo sguardo dei registi, amici e collaboratori tra loro; c’è la visione alterata della realtà, deformata con scatti fantastici e invenzioni barocche; c’è lo spazio dato a una sessualità trasversale, polimorfica, trasgressiva. Nessuna delle 5 novelle è completamente risolta, ma in varia misura tutte spiazzano, incuriosiscono, divertono o magari irritano. Sono 5 film di corpi, ossia di attori. Persino “La salita” di Martone, l’episodio più austero e civilmente impegnato (con Servillo con la fascia tricolore del sindaco che, salendo sul Vesuvio, si interroga sulla crisi della sinistra), è un apologo in cadenze di favola ironica dove si recupera il pasoliniano corvo parlante di Uccellacci e uccellini .
Un pentito racconta al giudice che lo sta interrogando la storia della famiglia Cammarano. Profondamente radicata nei sentimenti camorristi fin dai primi anni Settanta espande il proprio potere. Determinazione, violenza e coesione di gruppo ne costituiscono la forza. L’ordine interno viene garantito grazie a una gerarchia rigida. I più giovani però a un certo punto non credono più a questa struttura e il gesto di Oreste insinua una crepa che porterà tutti alla distruzione. I riferimenti al teatro greco classico sono espliciti e gli attori sono bravi per virtù propria. Ma il gioco non riesce così come non era riuscito nel precedente Polvere di Napoli.
Mario è un bambino di nove anni che il Tribunale dei Minori ha sottratto alla famiglia perché considerato un bambino difficile. Giulia e Sandro sono una coppia di quarantenni che convivono da due anni, senza figli, che decidono di chiedere in affidamento un bambino. Viene dato loro Mario. Da quel momento la coppia va in crisi. Giulia è favorevole a una crescita del bambino priva di vincoli “educativi” mentre Sandro non riesce ad accettare questo stato di cose. Mario verrà alla fine sottratto alla coppia dal Tribunale ed affidato ad un’altra famiglia.
Un buon esordio italiano. Il problema dei minori che vivono lontani dalla legge e finiscono nelle reti della camorra è analizzato in maniera molto realistica. Vito è il nome di uno di questi ragazzi. Attraverso le loro storie, tra scippi e sogni ingenui (legati al mondo del cinema d’azione e alla televisione), si trova una conferma sul disagio giovanile dell’ultimo decennio.
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