Un film di Franco Piavoli. Con Freda Dowie, Angela Walsh, Dean Williams Sentimentale, durata 86 min. – Italia 1996. MYMONETRO Voci nel tempo valutazione media: 3,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Le voci del tempo sono i normali rumori della vita nel paese di Castellaro: i giochi dei bambini, i motori che rombano, la musica da ballo, soprattutto i rumori impalbabili e misteriosi della natura. E la macchina esamina circolarmente i paesaggi nella luce diversa della giornata, poi delle stagioni, poi degli anni. Piccole registrazioni di sentimenti e di atti, normali e conosciuti, ma che quasi avevamo dimenticato. Un buon tentativo.
Di passaggio a Roma, un giovane scrittore americano assiste al tentato omicidio di una donna. Il sospettato n. 1 è proprio lui, ma l’assassino colpisce ancora più volte e tenta di uccidere lo stesso scrittore. La polizia brancola nel buio. 1° film del 30enne Argento che conserva ancora, come nei 2 successivi, quella struttura del giallo (chi è il colpevole) che da Suspiria (1977) in poi sarà polverizzata e abbandonata per alcuni anni. Oltre alla parte visiva, affidata alla fotografia di V. Storaro, hanno grande importanza suoni, rumori, amplificazioni e distorsioni.
Dopo la feroce repressione borbonica dei moti del 1828, 3 giovani del Cilento si affiliano alla mazziniana Giovine Italia. 4 episodi – “Salvatore 1828-32”, “Domenico 1852-55”, “Angelo 1856-58”, “L’alba della Nazione 1862-68” – corrispondono a momenti oscuri del Risorgimento, narrando 40 anni di vita dei 3 protagonisti e i loro drammi di rivoluzionari e cospiratori tra dignità morale e spirito di sacrificio, ansie ideali e disillusioni politiche, conflitti tra Nord e Sud, dalla Campania a Parigi, da Ginevra a Londra e ritorno. Scritto da Martone e Giancarlo De Cataldo, è un largo e ambizioso affresco sul Risorgimento visto dal di dentro. Incongrui e sottili (troppo) i riferimenti all’Italia del ‘900. La linea meridionalistica (Gramsci, Salvemini) e repubblicana è evidente. Ispirato al libro omonimo (1969) di Anna Banti è un’altra prova, quasi viscontiana, della sapiente congiunzione tra teatro e cinema sempre praticata dal napoletano Martone, palese anche nell’uso della musica di Verdi ( Macbeth , Attila , Otello ) e nel tema del tradimento – dai Savoia alla sinistra di Crispi – e in quello del settarismo utopistico e tormentato di Mazzini. In questa storia di una sconfitta storica, di classe e di speranza non manca la lezione di Rossellini su un cinema didattico ma realistico, che rievochi la storia per mostrare la strada da percorrere. Fotografia: Renato Berta. Scene: Emita Frigato. Costumi: Ursula Patzak. Premiato con un Nastro d’Argento a Martone.
Valerio, un ragazzo alto e bello, conosce allo zoo Peppino Profeta, nano imbalsamatore, e diventa prima suo amico e poi suo assistente. Guadagna bene e con lui si concede notti di lussuria in compagnia di “amiche” disinvolte e disponibili, che Peppino può permettersi grazie a una filiazione alla camorra di non chiara natura. Proprio durante uno dei “servizi” di Peppino alla malavita, in trasferta a Cremona, Valerio conosce Debora, se ne innamora e la porta con sé a vivere per qualche giorno da Peppino dove anche lui si appoggia temporaneamente. Peppino diventa geloso della ragazza che mina il legame tra lui e Valerio, legame che è ormai andato oltre la semplice amicizia. Dall’area partenopea arrivano in questo inizio di millennio le più promettenti nuove voci del cinema italiano. Garrone è dello stesso bacino culturale di Sorrentino, col quale condivide un approccio mediterraneo alla tradizione noir del cinema di genere. Visione che si traduce in una fotografia densa e contrastata, in musiche vibranti d’atmosfera, in personaggi ammantati di grande fascino eppure possibili. Come è il Peppino Profeta interpretato da uno straordinario Ernesto Mahieux, demonietto di surreale cattiveria e follia. Un esordio non perfetto e pieno di punti oscuri, ma senz’altro importante e meritorio.
Una bella donna dell’alta società milanese, tradita dal marito, decide di inventarsi un amante. Ma la prima con cui si confida è proprio l’amante vera dell’uomo da lei scelto, che non perde quest’ulteriore occasione per spettegolare. La bella allora si vendicherà.
Sempre meno redditizio, il traffico di droga viene convertito dai cartelli in traffico di essere umani. Lungo il confine messicano e in mezzo ai clandestini si insinuano terroristi islamici che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti. Un attentato-suicida in un supermercato texano provoca una reazione forte del governo americano che incarica l’agente Matt Graver di seminare illegalmente il caos ristabilendo una parvenza di giustizia. Graver fa appello ancora una volta ad Alejandro, battitore libero guidato da una vendetta che incontra vantaggiosamente le ragioni di Stato. Alejandro, che se ne infischia della legalità, rapisce la figlia di un potente barone della droga prima di diventare oggetto di una partita di caccia orchestrata dalla polizia messicana corrotta e da differenti gruppi criminali desiderosi di mettere le mani sull’infante. Diventata un rischio potenziale, bisogna liberarsene. Ma davanti a una scelta infame, Alejandro rimette in discussione tutto quello per cui si batte e tutto quello che lo consuma da anni.
Un incidente stradale in cui quasi inavvertitamente uccide un uomo mette in crisi un maturo pubblicitario a un passo dal pieno successo professionale. È, forse, l’opera più matura di E. Olmi prima di L’albero degli zoccoli . Il cambio di registro sociologico frena quella partecipazione emotiva che riscalda i suoi film precedenti, ma gli detta una maggiore lucidità critica e una durezza sommessa che gli asciugano le frange crepuscolari. Con la sordina della malinconia è anche una mesta meditazione sull’avvicinarsi della vecchiaia e sulla morte.
Con la figlioletta Maria Joanna di sette anni una giovane docente di storia s’imbarca a Lisbona su una nave da crociera diretta a Bombay, dove l’aspetta il marito. La nave fa scalo a Marsiglia, Napoli, Atene, Istanbul, Aden, dove si fa visita ai luoghi storici e ai miti fondatori della cultura mediterranea. A bordo s’incontrano tre donne famose. Cinema saggistico in forma di racconto di viaggio in mare durante il quale a tavola si discorre con elegante noncuranza di grandi questioni: il destino della civiltà europea, la comunicazione tra i popoli, lo scontro di culture diverse, il futuro dell’umanità. È anche, nel suo inatteso e tragico finale, una pessimistica metafora della fine della civiltà occidentale, corretta da un accenno utopico (si farà sul serio l’Europa unita?) e dalla sua vocazione alla tolleranza e al multilinguismo, colpita dal terrorismo che ha le connotazioni oscure di un Male insondabile. Cinema affidato alla parola, didattico a livello elementare nella sua 1ª parte, governato dalla lucida saggezza del 95enne de Oliveira, e dal suo sorriso che si trasforma e si fissa con un fermo-immagine nella smorfia di esterefatto dolore sul volto del comandante. Fotografia: Emmanuel Machuel. Senza musica. Prodotto da Paulo Branco. Parlato in 5 lingue con sottotitoli.
Sotto i segni della precarietà e della morte e in cadenze di melodramma disperato, è la storia di un naufragio. Ritratto di Daniele Dominici, professore di letteratura, angelo caduto e insabbiato, che arriva al capolinea della sua vita in una Rimini invernale. S’innamora di Vanina, sua allieva, vaso d’iniquità nel guscio di un’insondabile malinconia. C’è un eroe “maledetto” (memorabile il cappotto di cammello dell’intenso A. Delon), c’è un ambiente, un’atmosfera, ci sono i personaggi di contorno (tra cui spicca un ottimo G. Giannini), c’è una scrittura. Qualcosa di ridondante nella 2ª parte – la descrizione dell’ignobile verminaio provinciale cui si contrappongono le sortite verso i cieli di uno spiritualismo cristiano – impedisce la piena ammirazione. Scritto con Enrico Medioli, il 7° e penultimo film di Zurlini conta sulla raffinata fotografia di Dario Di Palma, le musiche (troppe trombe) di Mario Nascimbene, le scene di Enrico Tovaglieri. Prodotto da Titanus, coproduttore A. Delon che scorciò di 27′, modificandone il montaggio, l’edizione francese ( Le Professeur ). Restaurato nel 2000 da Philip Morris.
Ispirato a un racconto di Julio Cortázar. Un ingorgo sull’autostrada blocca per 36 ore centinaia di automobili. S’intrecciano incontri, amicizie, conflitti, litigi, tradimenti. Relegati sullo sfondo, e tra le pieghe, i risvolti di fantasociologia e le ipotesi di catastrofe ecologica, il racconto si frantuma in una aneddotica di taglio realistico nel quadro della commedia di costume, ma c’è una nascosta sapienza di progressione narrativa e di impaginazione per cui l’addizione finale è superiore alla somma dei suoi addendi. “Gli toccarono, come a tutti gli uomini, tempi brutti in cui vivere” (J.L. Borges). Il film dice la stessa cosa di Comencini e di noi, suoi spettatori. Ridistribuito col titolo Black out sull’autostrada.
Un marito vuol uccidere la moglie e la chiude nel suo appartamento sola con un “mamba” (il più velenoso e pericoloso dei serpenti). Ma la donna non si lascia ammazzare dal rettile. Anzi architetta una trappola per far fuori il consorte mascalzone.
Un lungo piano-sequenza apre il film, percorrendo circolarmente la radura di un bosco toscano – palcoscenico primigenio calato nel silenzio della natura – dove 12 non attori leggono brani da Le donne di Messina (1949) e da altri libri di Elio Vittorini. Sono operai e contadini che descrivono le dure condizioni di vita e di lavoro dopo la fine della Seconda guerra mondiale. “Analogamente a un rito … o ad un ‘mistero’ laico le tragedie di sofferenze e sacrifici, i minimi gesti e movimenti della mdp ‘officiante’, assumono una rilevante, allusiva intensità espressiva.” (R. Chiesi). Fotografia: Renato Berta, Jean-Paul Toraille e Marion Befve.
L’eroica resistenza del fortino di Giarabub, in un’oasi della Cirenaica (Libia) al confine con l’Egitto, che fu conquistato dalle truppe britanniche nel gennaio del 1941. “Colonnello, non voglio encomi…” diceva la canzone. Il futuro regista Beppe De Santis che nel ’42 faceva il critico divideva il giudizio in due parti: consenso per la parte di azione, dissenso per il dramma e i suoi personaggi, falsi, retorici e propagandistici.
Un bandito messicano si unisce casualmente alle truppe di Villa e Zapata. Il comandante dell’esercito governativo, per rappresaglia, fa assassinare i suoi figli. L’uomo decide di vendicarsi, ma viene fatto prigioniero e liberato grazie all’intervento di un altro bandito. È questi, prima di morire, che lo converte alla causa della rivoluzione.
Una contessina, per salvare il padre in difficoltà finanziarie, acconsente a sposarsi con un uomo che non ama, un rude ingegnere minerario. Dopo qualche tempo, tra i due fiorirebbe anche l’amore, se una rivale, gelosa, non avvelenasse l’ingegnere.
Cheyenne è stato una rockstar nel passato. All’età di 50 anni si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico e vive agiatamente, grazie alle royalties, con la moglie Jane a Dublino. La morte del padre, con il quale non aveva più alcun rapporto, lo spinge a tornare a New York.Scopre così che l’uomo aveva un’ossessione: vendicarsi per un’umiliazione subita in campo di concentramento. Cheyenne decide di proseguire la ricerca dal punto in cui il genitore è stato costretto ad abbandonarla e inizia un viaggio attraverso gli Stati Uniti.
In un paesotto della Brianza che finisce in “ate”, eretto alle pendici di una collina una volta incredibilmente boscosa, un cameriere da catering neanche più giovane torna a casa a notte fonda con la sua bicicletta, chiuso tra il gelido freddo di una curva cieca e il sopravanzare spavaldo e sparato di un Suv che lo schiaccia lasciandolo agonizzante, vittima predestinata di un pirata anonimo. Il giorno dopo, la vita di due famiglie diversamente dislocate nella scala sociale brianzola viene toccata da questo evento notturno in un lento affiorare di indizi e dettagli che sembrano coinvolgere il rampollo di quella più ricca, assisa nella villa che sovrasta il paese, e la figlia dell’altra, piccolo borghese con aspirazioni di ribalta. Uno a uno sfilano i presunti protagonisti: il padre della giovane ragazza, un ingenuo stolto e credulone, titolare di un’agenzia immobiliare, pronto a giocarsi quello che non ha per entrare nel fondo fiduciario del magnate della zona al quale accede per un eccesso di fiducia e grazie all’entratura garantitagli dalla figlia, fidanzata con il giovane rampollo della ricca famiglia; il magnate, cinico e competitivo, perfetto prodotto brianzolo, forgiato con la tempra di chi ha abbattuto ettari di bosco per costruire quell’impero economico, inno del malcostume e del cattivo gusto: le moglie dell’uno e dell’altro, la prima psicologa tutta presa dalla sua missione e dall’imminente maternità, tardiva e sofferta, la seconda sposa tonta con il sogno del teatro, obnubilata dalla ricchezza e dal troppo avere: in ultimo i rispettivi figli, non più incolpevoli, mai più adolescenti, complici dell’orrore in questa “tragedia” balzachiana che della commedia ha solo i tipi. Paolo Virzì fa un salto in avanti nel personale viaggio politico nell’Italia del suo presente, puntando finalmente la bussola verso il nord del Paese, trovando un cuore nero che non fa ridere proprio per niente. La goliardia toscana, il cinismo burlone romano (modi e luoghi che hanno caratterizzato la sua commedia) sono lontani, lontanissimi, senza quasi più alcun eco in queste lande brianzole, disegnate come fossero terre straniere abitate da genti aliene che comunicano in un linguaggio misterioso e duro. Virzì si fa suggestionare dal suo limite, un misto di gap culturale e sociale (un livornese in Brianza), che presto trasforma nella sua arma migliore, abbandonando il facile gigioneggiare nelle disgrazie del malcostume centroitaliano per addentrarsi nei meandri di un apologo potente e inaspettato. Liberamente tratto dal thriller di Stephen Amidon, ambientato nel Conneticut, con l’aiuto di Francesco Piccolo e Francesco Bruni, Il capitale umano vanta un cast variamente composto su cui domina Fabrizio Bentivoglio che interpreta senza alcun timore il personaggio di Dino Ossola. Ecco, crediamo che questo tipo unico di “scemo” sia in assoluto una delle migliori descrizioni di un certo italiano contemporaneo, degno della migliore tradizione del cinema nostrano.
Africa settentrionale, 1940. Il capitano Casati comanda una squadriglia di bombardieri. Un giorno, per un guasto, è costretto ad atterrare in una zona occupata dagli alleati. Sfugge però al nemico e riesce, con l’aiuto di alcuni coloni italiani, ad aggiustare il suo aereo e a rientrare nelle linee italiane. È con lui anche la ragazza della quale s’è innamorato. Finita la guerra, Casati si renderà ancora prezioso trasportando sul suo mezzo una bimba in pericolo di vita.
Il cacciatore di taglie Jonathan Corbett (L. Van Cleef) ha l’incarico di catturare Cuchillo (T. Milian), giovane messicano accusato di omicidio con stupro. Durante la lunga caccia viene a sapere che il vero colpevole è il figlio del ricco che l’ha assunto. Scritto da Franco Solinas, è uno dei non pochi “spaghetti-western” politicizzati di ambiente messicano. Qua e là qualche traccia di Sergio Leone. Musiche di Ennio Morricone che trascrive per chitarra Per Elisa di Beethoven. Titolo spagnolo: El halcón y la presa .
Ritratto di un giovane fascista che s’arruola nella X Mas della Repubblica di Salò e della sua tormentata presa di coscienza. Opera prima di G. Montaldo, è il migliore dei rari film italiani sul periodo 1943-45 visto dalla parte dei fascisti repubblichini. La sincerità di fondo riscatta qualche ingenuità e lo schematismo didattico dell’impianto: Montaldo è così preoccupato di spiegare l’epoca che si è dimenticato di raccontarla. Direzione di attori insufficiente. Da un romanzo (1956) di Giose Rimanelli, liberamente rimaneggiato.
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