Un siciliano, licenziato a causa delle sue idee politiche, grazie all’intervento della mafia trova lavoro come metallurgico in una fabbrica di Torino. Qui diventa amante di una ragazza che gli dà un figlio; al suo ritorno a casa, scoprendo che la consorte è incinta di un brigadiere, ne seduce la moglie per vendetta.
Dal romanzo di Patricia Highsmith. Mr. Ripley è un raffinato quanto crudele trafficante in opere d’arte. Concluso alla sua maniera un affare per lui vantaggioso, si ritira nella sua villa in Veneto con la compagna di una musicista. Qui lo raggiunge il suo ex braccio destro che chiede aiuto per eliminare a Berlino dei potenti rivali slavi. Ripley non vuole entrare in gioco in prima persona ma vuole mettere alla prova l’onestà di fondo di un corniciaio che non lo stima. È sicuro che costui, gravemente ammalato, cederà dinanzi alla prospettiva di forti guadagni e si trasformerà in killer. Liliana Cavani gira un film come qualsiasi altro professionista del genere. Il suo tocco personale non compare mai mentre è evidente il piacere con cui Malkovich delinea un personaggio già portato sullo schermo in precedenza e cerca di distanziarsi il più possibile dall’immagine che ne ha dato di recente il cinema americano. Il film ruota totalmente intorno a lui. Ed è bene che sia così, anche perché l’attore ci aggiunge quel tanto di “hannibalesco” che non guasta.
Un film che lascia senza parole e non perché si abbandoni solo alla musica, ma perché la prima reazione che suscita, per chi non abbia avuto la furbizia di fuggire dopo la prima mezz’ora, è il silenzio. Un silenzio pregno però di domande, prima fra tutte: come è possibile che un film del genere sia stato prodotto? Ancora: come hanno potuto artisti del livello di Alejandro Jodorowsky, ma anche un Fabrizio Gifuni e una Sonia Bergamasco, parteciparvi come attori? Ma soprattutto come pensare di farlo uscire nelle sale cinematografiche? Dopo il primo, ben più promettente Perduto Amor, Franco Battiato è andato a impelagarsi in una storia senza capo né coda, al limite fra verosimiglianza e comicità (ma inevitabilmente più vicino a questa). A parte la qualità (volutamente?) amatoriale della fotografia, del montaggio, le battute improbabili dei personaggi, l’imbarazzo più pesante sta nelle vicende della coppia di autori televisivi protagonista. Alla ricerca di studiosi, scienziati e filosofi da intervistare per il loro programma in giro per il mondo, i due incontrano uno sciamano che sottopone la Bergamasco a una seduta di ipnosi regressiva. Lei, nella vita ossessionata da Beethoven, scopre di esserne stata, in una vita precedente, il principe mecenate. Da qui un lungo flash back sugli ultimi anni di vita, le manie e le follie di questo Beethoven-Jodorowsky. E poi il finale: il ritorno alla “realtà” con la tv dell’albergo dove alloggia la troupe televisiva che annuncia il colpo di stato di un fantomatico partito democratico mondiale. A tratti didascalico, a tratti enigmatico, sempre pretenzioso e inutilmente intellettualistico.
1° film a soggetto del documentarista veneziano Dordit che l’ha scritto con Serena Brugnolo, prodotto da Indigo e Rai Cinema con un articolo 28 (sovvenzioni statali), ha impiegato 3 anni a trovare accesso nel mercato delle sale, distribuito dal Luce. Sulla tela di fondo del ricco Nordest (lavoro sporco nelle concerie, manodopera di immigrati invisibili, morti bianche, soprusi di imprenditori senza scrupoli), la storia fa capo, in cadenze di investigazione, a un giornalista sportivo che sospetta retroscena loschi nella morte di un amico e al ragazzino Leo, inchiodato in un preoccupante autismo, che potrebbe essere l’unico testimone in grado di portare alla verità. Secondo F. Scott Fitzgerald, tutto lo scrivere è un nuotare sott’acqua e trattenere il fiato. Dordit “scrive” soltanto benino. Quando non scade nel bozzettismo, fatica a tenere insieme figure maggiori e minori. Speriamo che trovi il modo e i mezzi per un secondo film. Abbinato in sala al corto (14′) Trevirgolaottantasette di Valerio Mastandrea.
Un disoccupato ruba, per disperazione, la macchina di un industriale. Poi si pente e la riporta in garage. Ma intanto la moglie l’ha denunciato alla polizia. Quando viene a sapere del ravvedimento del consorte, la donna ritira la denuncia. Faranno pace.
Un film di Mauro Bolognini. Con Peppino De Filippo, Vittorio Caprioli, Giorgio Ardisson, Totò, Laura Adani. Commedia, b/n durata 107 min. – Italia 1959 Un buon padre di famiglia in cerca di alloggio, dopo mille tentativi trova una splendida dimora, ampia, confortevole, a buon mercato. Non sa che è un’ex casa di tolleranza (la chiusura per la legge Merlin è avvenuta solo qualche mese prima). Guai, equivoci a non finire, litigate giornaliere con ex clienti che sperano (vedendo le persiane spalancate) in un’inopinata riapertura.
Sono 4 storie raccontate da Mammone (F. Citti) e Bernardino (Davoli), condannati a morte nella Roma papalina per aver derubato e ferito a morte un mercante. Desunta da Matteo Bandello, la 1ª narra del duca di Ronciglione e di Nicolino che scoprono di essere stati cornificati dai ragazzetti e dal parroco del villaggio. Di derivazione rusticana, la 2ª dice di due pecorai, uno dei quali seduce la moglie dell’altro che si vendica. La 3ª mette in scena un prete gaudente e il suo servo che per avidità l’uccide. La 4ª è presa da un fatto di cronaca: un giovane che ha sedotto una sposata è pugnalato dal marito e dall’amante di lei. L’ultima storia ha un epilogo che illumina a ritroso il senso del film: i quattro finiscono davanti a un padreterno contadino che condanna i primi tre per ipocrisia e assolve il giovane che non sa nascondere il rimpianto per le gioie della vita. Imperniate sul sesso e tutte concluse con la morte, sono storie di una buffoneria cupa e sanguigna di radice contadina, esposte con un linguaggio asciutto e spiccio senza fronzoli né compiacimenti. 2° film di S. Citti, cineasta contadino più che sottoproletario.
Insegnante accetta l’ingrato compito di docente nel riformatorio Malaspina di Palermo dove sperimenta il suo metodo antiautoritario e democratico, scoprendo nei ragazzi devianti e sbandati la dimensione della dignità. Il materiale narrativo di Aurelio Grimaldi, la sagace drammaturgia di Rulli e Petraglia, l’occhio di Risi junior, la verità degli attori (professionisti e non), ne hanno fatto un film “giusto”, necessario, coinvolgente. Efebo d’oro 1989.
Liberamente ispirato a I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga e concepito come la prima parte (l’episodio del mare) di una trilogia sui lavoratori siciliani, è l’ambizioso affresco narrativo delle lotte e delle sconfitte di ‘Ntoni Valastro e della sua famiglia di pescatori di Aci Trezza (CT) per liberarsi dallo sfruttamento dei grossisti di pesce. Opera di fascino indiscutibile, ma anche esemplare dell’interno dissidio viscontiano tra raffinato decadentismo e marxismo programmatico, tensione romanzesca e aristocratica contemplazione. Un frutto del decadentismo è l’uso del dialetto nell’edizione originale, il vernacolo di Aci Trezza, parlato dagli interpreti, veri pescatori locali, in presa diretta e poi sostituito da un dialetto più comprensibile. Sin da allora Visconti sfugge al populismo e punta al romanzo, ma guarda ai personaggi con un distacco che non si lascia commuovere e non commuove. Fotografia di G.R. Aldo con Gianni Di Venanzo alla macchina. Assistenti alla regia Francesco Rosi e Franco Zeffirelli. Restaurato nel 1993 a cura di G. Rotunno per il C.S.C
Un ragazzo dalla natura ribelle e violenta trova sempre il modo di dare libero sfogo ai suoi impulsi distruttivi. Una notte, nel corso di una festicciola in una casa sperduta, trova pane per i suoi denti.
Un beluga ( Delphinapterus leucas , detto delfino bianco) è inseguito nei mari di Grecia dal povero Billy Bolla (P. Villaggio), attore di varietà, di cui ha inghiottito il libretto della pensione, e dal truce Marcov (A. Haber), trafficante d’armi che vorrebbe servirsene come siluro in un attentato terroristico. Sarà salvato dai ragazzini. Ideata e prodotta da Ciro Ippolito, tratta da un romanzo di Emilio Nessi, questa commedia di avventure marinaresche in chiave di favola appartiene più a lui che a Nichetti che trasforma Villaggio e Haber in personaggi da cartoon e lascia spazio all’ottimo L. Gullotta che s’inventa un grammelot greco-partenopeo che non dispiacerebbe a Fo.
Un mercante d’armi s’è arricchito col commercio, spesso illecito, con i paesi africani. I soldi hanno permesso a lui e alla sua famiglia di vivere negli agi. Un giorno però i figli cominciano a criticare la sua attività e gli impongono di smettere. Lui accetta, però fa loro presente il ridimensionamento del tenore di vita. I ragazzi decidono di tornare sui propri passi.
Il film si articola su quattro storie ambientate nella Versilia di fine stagione. Nella prima un bambino di nome Simone si innamora di una ragazza e si allontana dalla colonia per seguirla. Nella seconda un sindaco conservatore si scontra con il figlio di tutt’altre idee e comportamenti. Nella terza l’ubriacone del paese viene fatto oggetto di uno scherzo decisamente pesante facendogli trovare in una bara un morto al posto del vino che lui pensava vi fosse contenuto. Nella quarta un bagnino di buon cuore salva dal fallimento la proprietaria del “Bagnomaria”. In attesa dei più che buoni ascolti televisivi, Panariello si cuce addosso un film di serie B che non va al di là di una serie di sketch. È quello che fanno da (quasi) sempre i Vanzina.
Bella, trentacinque anni, lavora come cameriera in un fast food di New York ed è l’anima del locale. Continua ad incappare in relazioni senza futuro. Un giorno sua madre, che vive altrove, le propone l’incontro con Bruno, un tassista aspirante scrittore. Bella accetta senza farsi illusioni e, per non rivelare i suoi sogni matrimoniali, gli dichiara apertamente di non amare i bambini. Peccato che Bruno ne abbia due. Ma nella caffetteria Bella non è la sola a sognare l’amore. Paul, un vedovo piuttosto introverso, si fa prendere dalla passione per una vedova conosciuta mediante un annuncio, mentre il vecchio Seymour prende una sbandata per una ballerina di peep show. Commedia brillante sulle solitudini metropolitane questa del cinquantaquattrenne regista israeliano. Ricca di battute intelligenti e supportata da un’attrice come Anna Thomson che ha lavorato con Cimino, Eastwood, Stone, ma anche con autori intellettuali come Ozon.
Intrigo a scatola cinese. Una giovane signora ha gli incubi. Vuol vendere un tappeto, ma un possibile acquirente che le si presenta, in realtà sembra accentuare le sue fantasie, tanto che la donna, dopo esser stata sadicamente inquisita dallo sconosciuto, lo uccide. O crede di ucciderlo. In realtà, l’uomo (e una donna che si presenta poco dopo a cercarlo) sono due psichiatri ingaggiati dal marito per curarla dagli incubi. Ma le sorprese non sono ancora finite…
Passione amorosa tra due ospiti di una casa di riposo per anziani (un’ex segretaria d’albergo e un ex professore di musica coniugato). Un po’ per divertirsi, un po’ per spegnere i suoi ardori, gli inservienti le sottraggono la dentiera con conseguenze tragicomiche. Il miglior film di M. Ferreri dopo il 1980, divertente e commovente, lucido e provocatorio, dominato dal senso della vita come gioco in cui mostra come, nonostante tutto, la vecchiaia possa essere un’età libera: dai condizionamenti, dalle gerarchie, dalle convenzioni. Orso d’oro al Festival di Berlino.
Appena trasferita a Roma da una città del Nord, il sostituto procuratore della Repubblica Doriana Polis va ad abitare in un appartamento dove, un anno prima, era stata misteriosamente assassinata una giovane donna. Il delitto, rimasto senza colpevole, verrà risolto dal nuovo magistrato.
C’è un professore napoletano nel deserto del Nevada che spende la vita ad ascoltare il suono dello Spazio alla ricerca di una voce. La voce cara della consorte morta diversi anni prima. Scienziato mesto a un passo dall’Area 51, segue un progetto, o almeno dovrebbe, per conto del governo degli Stati Uniti. Il suo torpore esistenziale è interrotto quotidianamente da Stella, giovane wedding planner per turisti che credono ancora agli alieni. Un pacco postale e una registrazione video gli annunciano un giorno l’arrivo di Anita e Tito, preziosa eredità del fratello morto a Napoli. Introverso e laconico, il professore si attrezza, letteralmente, per accogliere i nipoti. Anita ha sedici anni e sogna un tuffo in piscina con Lady Gaga, Tito ne ha sette e desidera sopra a ogni cosa parlare ancora col suo papà. Sorgenti formidabili di nuova energia, Anita e Tito riavvieranno il programma e il cuore dello zio.
Che cosa succede ai ragazzi di Palermo quando escono dal riformatorio? Questo il tema di un film scomodo che divise i critici, indispettì i politici, scandalizzò i benpensanti. Un film di scorrevole scrittura giornalistica e televisiva, seguito di Mery per sempre (1989), anch’esso scritto dal siciliano Aurelio Grimaldi.
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