Dopo aver dedicato trent’anni alla sua squadra di provincia che gioca in serie A sempre in bilico sulla retrocessione, un direttore tecnico viene messo da parte da un nuovo padrone rampante. Non s’è mai fatto in Italia un bel film sul calcio; questa dolceamara commedia con la sordina ha il merito di raccontare l’ambiente calcistico e i suoi retroscena con un minimo di realismo critico: mostra quel che la TV non fa mai vedere. U. Tognazzi ci mette l’anima, e l’amarezza. Scritto dai fratelli Pupi e Antonio Avati con Italo Cucci e Michele Plastino, giornalisti sportivi. Nastro d’argento e David di Donatello alle musiche di Riz Ortolani. David anche al suono di Raffaele De Luca.
Critico rock e aspirante attrice s’incontrano dallo psicanalista e nasce tra i due un’amicizia solidale. Si rincontrano a Londra e in Cornovaglia e il loro rapporto nevrotico si trasforma in amore. Una struttura narrativa ben congegnata nelle simmetrie, nei bisticci, nei colpi di scena; un’efficace direzione di attori; un’armoniosa somma di contributi tecnici (tra cui le canzoni di Jimi Hendrix nei momenti giusti) fanno approdare Verdone a una comicità agrodolce che, nonostante la lieta fine, ha uno sguardo critico e problematico sul rapporto tra i due sessi. Scritto dal regista con Francesca Marciano. 2 David di Donatello a Verdone (regia, attore).
Uno dei due guardiani di una grande diga, vicino all’Adamello, è costretto a scendere a valle in seguito alla nascita di un figlio. Il suo posto viene preso da un giovane studente. I rapporti fra quest’ultimo e il rude montanaro, del quale è diventato collega, dapprima sono freddi e imbarazzanti, poi fra i due nasce una amicizia sincera, nella serenità delle candide distese nevose, delle montagne maestose, del silenzio.
Dal romanzo (1945) di Carlo Levi (1902-75): un intellettuale torinese, medico e scrittore antifascista a contatto con l’antica civiltà contadina della Lucania dov’è confinato intorno al 1935. F. Rosi mette la sordina alla dimensione antropologica e magica del bel libro di Levi e l’accento su quella sociale e politica. Un po’ raggelato nei paesaggi o lirici o didattici, ma ammirevole per l’intensità della sua delicatezza. Accanto a un G.M. Volonté introspettivo e sommesso e ad attori naturali ben guidati c’è un ottimo P. Bonacelli. La versione televisiva dura 270 minuti.
Samira ha tanti anni e un dolore grande: ha perso sua figlia, uccisa dal cancro e da una vita tribolata nella periferia di Palermo. Da sette anni la ritrova in un cimitero assolato e desolato, dove sfama cani e cuccioli prima di riprendere la strada di casa alla guida della sua Punto e a fianco di un genero ostile. Rosa ha una madre da lasciare andare e un passato da dimenticare a Palermo, dove accompagna Clara, la donna amata, al matrimonio di un comune amico. Inquieta e infastidita da una città da cui è fuggita anni prima, infila via Castellana Bandiera, un strada stretta e senza senso di marcia. In direzione ostinata e contraria arriva Samira e chiede il passo per raggiungere la sua casa a pochi metri dall’impasse. Contrariata e altrettanto risoluta, Rosa è decisa a mantenere la posizione. Irriducibili sotto il sole tenace di Palermo, Samira e Rosa si affronteranno in un duello che non contempla resa e retromarcia. Di un uomo caduto morto in un duello non si penserà che “abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista”, scrive Cormac McCarthy in “Meridiano di sangue”. Allo stesso modo Emma Dante, regista teatrale che debutta al cinema, elude ‘giustificazioni’ o allineamenti, decidendo per il dicotomico senza stabilire una vittoria di una parte sull’altra o affermare quello che è giusto su quello che invece è avvertito come inopportuno. Rosa e Samira sono opposti che si osservano e si affrontano a una distanza limite. Figlia di un’altra madre e madre di un’altra figlia, sono selvagge votate alla distruzione vicendevole, corpi in stretto rapporto e dotati dello stesso corredo di dolore. La natura identica e testarda origina allora la tragedia, riflettendole geometricamente e impedendole a praticare la tolleranza e l’integrazione emotiva dell’altro. Calate in un clima ‘pagano’, che mette in scena le incomprensioni e le follie di una comunità, le protagoniste (si) ingombrano la strada del titolo e lasciano fuori campo il buco, un vuoto, uno strappo, una ferita ‘non filmabile’. Oggetto di spettacolo diventa perciò la loro ostinazione all’immobilità. Schierate l’una di fronte all’altra come in un western classico veicolano pulsioni dissidenti e negative, infilando con via Castellana Bandiera il punto di non ritorno. Il duello, celebrazione dell’ordine sulle eventualità disgregative del disordine, nel dramma di Emma Dante genera al contrario una forza distruttiva che diventa espressione fondante della pulsione di morte dei suoi personaggi. Nessuno escluso. Non ci sono regole da stabilire (e da rispettare) in via Castellana Bandiera. Dove la forza produce un diritto e la gente abita lo stesso numero civico, c’è piuttosto da scommettere sul cavallo vincente. Acme del racconto, il duello made in Italy tra una Punto e una Multipla non risolve le tensioni create dalla narrazione ma le provoca definendo geometrie che si dispongono nella profondità delle protagoniste e da lì ripartono contaminando parenti, vicini, curiosi, avventori. Disagio e inesorabilità si distribuiscono frontalmente e si incarnano in donne incapaci di qualsiasi ricognizione, di qualsiasi compassione, di qualsiasi ripresa. Interpretato dalle efficacissime Elena Cotta e Emma Dante, ‘affiancata’ dalla Clara di Alba Rohrwacher, Via Castellana Bandiera è un film a imbuto che trascina idealmente e concretamente in un gorgo di smarrimento infinito i suoi personaggi. Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l’opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati. Impossibilitati a intervenire inserendo la retromarcia per evitare la deriva e liberare la strada a un ‘paese’ bloccato e incapace di ripartire. Se non in direzione della collisione e del suo esito sciagurato.
Viavai tra Parigi e un castello dei dintorni dove un nobile ubriacone (O. Iosseliani) passa il tempo a guardare trenini elettrici, mentre la moglie (L. Lavina) fa affari e il figlio Nicolas (N. Tarielashvili), travestito da povero, frequenta a Parigi ladruncoli e vagabondi, impegnato in lavoretti precari. Sotto le apparenze di affollata commedia giocosa in cadenze divertite di balletto (o di giostra?), raccontata con lo sguardo ironico da filosofo stoico e antropologo un po’ svagato, il regista georgiano continua il suo imperterrito discorso sull’assurdità, i meccanismi e i vizi (la cupidigia innanzi tutto) della vita sociale. Film da guardare e da ascoltare (più che cercarne segni, significati, morale), per cavare tutto il piacere di una sapienza combinatoria in cui sfociano varie influenze, da Buñuel a Ophüls. Per Iosseliani spirito (inteso come alcol), spiritoso e spirituale hanno la stessa radice.
Figlia di una desaparecida del 1977, l’argentina Rosa cerca un fratello gemello, adottato da uno degli assassini in divisa, e lo trova in Javier a Milano nel 2000. Nato da un’inchiesta tra alcuni dei settantadue hijos di desaparecidos (su circa 500) identificati con sicurezza, l’opus n. 3 dell’italo-cileno Bechis è complementare e diverso da Garage Olimpo , film sul passato. Si rievoca la stessa vergogna – di essere argentini, di essere umani – le radici del dolore e il rimosso con la sensibilità e, forse, con la speranza del presente. Scritto, come gli altri due, con l’italo-polacca Lara Fremder, conferma la capacità del regista di raccontare per immagini e di non separare il linguaggio dal discorso politico. Qualche vuoto nella 1ª parte, dovuto all’eccessiva fiducia nel fare a meno dello scavo psicologico. Fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Jacopo Quadri; musica: Jacques Lederlin, Daniel Buira con la Chilinga.
Confine Italia-Slovenia, 1994. Un bambino fugge da un gruppo di profughi vessati da un violento capobanda. Profondo nord italiano, oggi. Un tecnico specializzato, Pietro, viene chiamato a riparare una centrale elettrica con annessa diga che subisce frequenti guasti. A dare una mano a Pietro è Lorenzo, uno strano tipo coinvolto in traffici più o meno leciti e innamorato di Rio de Janeiro, la cui vocazione di morituro è preannunciata dalla sua abitudine ad allargare le braccia come il Cristo Redentore. Il paesino montano è popolato da molte brutte facce e l’assenza di corrente non è sempre casuale. In paese si aggira anche la zoologa Lana che, malgrado i rischi per la sua incolumità, procura da mangiare a un orso non dissimile dal fratellastro di Lorenzo, Secondo, che vive seminascosto dentro la centrale. La foresta di ghiaccio è una favola nera e nordica popolata di mostri e di creature selvagge, e Claudio Noce ce la racconta alternando le mille gradazioni dell’oscurità alla luce abbagliante della neve. Ci sono boschi impervi, un Pollicino che deve ritrovare la strada, una Cappuccetto Rosso che va a sfidare l’orso (invece del lupo), e una serie di agnelli sacrificali destinati al macello. In questa chiave, il film di Noce è riuscitissimo: giuste le atmosfere, coinvolgente la fotografia, incalzante il montaggio. Funziona molto meno l’aspetto noir del racconto, perché la storia è convoluta ed eccessivamente oscura, e né la sceneggiatura né il montaggio ci aiutano a decifrarla. Con tutto il rispetto per la necessità di mantenere i segreti e rivelare gradualmente i misteri, Noce chiede allo spettatore uno sforzo eccessivo per riassemblare i pezzi di un puzzle complicato e privo di tessere importanti. Visivamente, La foresta di ghiaccio è una conferma del talento registico di Noce, già evidente nel suo primo lungometraggio, Good Morning Aman. Noce sta dentro le storie che racconta, rivelandoci i suoi personaggi per frammenti, e permettendo alla fisicità dei luoghi e degli attori di esprimersi in tutta la sua forza primordiale: ad esempio la scena di sesso ne La foresta di ghiaccio è realistica e potente, un’anomalia nel panorama cinematografico italiano. È sintomatico che al centro della storia ci sia un generatore, perché il cinema di Noce è energia delle immagini, e trasmissione ben veicolata di corrente vitale. Anche la simbologia è usata qui in modo sapiente: dai ponti che sono alternativamente tramite e minaccia, alle bestie feroci che rifiutano l’addomesticazione, alla diga che argina e contiene un impeto che, se liberato, può avere conseguenze devastanti. Il che rende ancora più importante una maggiore cura nella comunicazione della storia, una maggiore attenzione nel prendere per mano lo spettatore che, soprattutto in un noir, va guidato, pur presentandogli sapientemente indizi e rivelazioni, altrimenti perde il filo della trama, e l’interesse. L’idea di trattare un tema come quello dell’emigrazione non in forma di trattato sociale ma di film di genere è preziosa: poi però le regole di quel genere vanno rispettate, e la comprensibilità, pur nella complessità dell’intreccio narrativo, è una di queste.
Liverpool, 2007. Sulla strada del titolo originale muore il contractor (mercenario) Frankie, ex militare di carriera, scatenando il dolore, l’ira e i sensi di colpa di Fergus, da sempre suo amico, che l’aveva convinto ad accettare l’ingaggio di 10 000 sterline al mese e andare in Iraq. Benché scritto dall’ex avvocato Paul Laverty, suo assiduo collaboratore, il 21° film di Loach risulta contraddittorio, un po’ confuso, persino onirico, come se ci fosse troppa carne al fuoco: la denuncia antimilitaristica e il lavoro sporco dei mercenari ai quali una legge (valida dal 2003 al 2009) garantiva la totale impunità, il percorso psicologico di Fergus, deciso a scoprire la verità sulla morte dell’amico; la dimensione del film di vendetta; l’aspetto documentaristico che sfocia nel thriller d’azione, compresa la sequenza della tortura, definita nel gergo burocratico “tecnica avanzata di interrogatorio”. Date le premesse, la redenzione è impossibile e l’autopunizione inevitabile.
Un ladro ritrova in circostanze fortuite la donna che lo ha derubato di un cospicuo bottino. Sua complice in un nuovo colossale furto, lo inganna ancora una volta ma viene fatta prigioniera insieme a lui e ad altri complici dai ribelli messicani. Quando escono di prigione c’è una ricompensa governativa da dividere; la furba donna, però, per l’ennesima volta, si impadronisce di tutto scappando con un nuovo compagno.
Un gruppo di banditi deve attraversare il deserto per rifugiarsi in Messico e assolda un giovane come guida, ma costui, in realtà, li porta alla rovina perché deve vendicare i familiari uccisi.
Breve e avventurosa vita del partigiano Silvio Corbari, Medaglia d’oro della Resistenza, che insieme a giovanissimi compagni tra l’8-9-43 e i primi mesi del 1944 diede molto filo da torcere alle SS, agli Alpenjäger e ai loro complici fascisti con incursioni in Romagna e in Toscana e anche, maestro di travestimenti, con imprese beffarde. Tradito da un delatore, fu arrestato già gravemente ferito e impiccato due volte a Castrocaro e a Imola. Lasciati i fratelli Taviani, Orsini – sceneggiatore con Renato Nicolai – balza nel cinema nazional-popolare con un film d’azione di matrice eretica che nella Resistenza privilegia l’individualismo contro il controllo dei commissari politici del PCI, la spontaneità contro l’organizzazione, offrendo a Gemma un personaggio insolito, diverso da quel Ringo che l’aveva reso un divo degli “spaghetti-western”. Al passivo una voce narrante intrusiva e la troppa musica di Benedetto Ghiglia.
Durante la rivoluzione messicana, un ambiguo generale dei ribelli libera un professore idealista, guida spirituale delle lotte rivoluzionarie, solo per carpirgli il segreto di una cassaforte piena di denaro. Si accende una violenta lotta trai seguaci del professore ed il torbido generale finché quest’ultimo non avrà la peggio.
Opera prima di Carlo A. Sigon tratta dal romanzo di Sandrone Dazieri. Sandrone, detto il Gorilla, soffre fin da piccolo di sdoppiamento della personalità. È Sandrone (buono, ironico, un po’ arruffato) e al contempo è Socio (razionale, freddo violento). Investigatore senza licenza, Sandrone/Socio si ritrova ad investigare sulla misteriosa morte di un albanese. La Colorado, dopo Quo Vadis Baby? sembra ormai lanciata sulla strada dei film con “brutti (non tutti), sporchi (spesso) e cattivi (solo un po’)”. Sigon, che ha una grossa esperienza sul piano della pubblicità e dei corti, sa destreggiarsi con abilità nella materia, ben coadiuvato da attori come Bisio, Rocca e Catania. Ha poi l’asso nella manica di un Borgnine divertente e divertito in trasferta italiana per la gioia dei cinefili che ancora ne ricordano le qualità. Resta però una perplessità che non sta tanto nel fatto che ‘non c’è più religione’ (capirete il perché e vedrete però anche che la sceneggiatura cerca subito di riequilibrare) ma nella mancanza di un vero tormento esistenziale che è connaturato al noir e che qui è troppo programmatico per risultare credibile. Le riprese (la notazione è importante per un film che è molto attento ai luoghi) sono state effettuate a Milano, nelle ex cartiere Binda, fabbrica dismessa alla periferia sud della città, e a Cremona dove Dazieri è nato nel 1964.
Joe, piccolo ma fortissimo, lavora per Spencer, ufficialmente per trasferire del bestiame, in realtà per contrabbandare uomini da una parte all’altra del confine Usa-Messico. Quando Joe si ribella, Spencer gli mette alle calcagna una squadra di killer, ma il piccolo cinese è imbattibile.
Confuso melodramma su una ragazza costretta dalla povertà ad andare a lavorare in una salina. È insidiata dal sorvegliante, ma protetta da un bravo ragazzo.
Un gruppo di lavoratori dello spettacolo, capitanatati da Sabina Guzzanti, decide di mettere in scena le vicende controverse relative alla cosiddetta “trattativa”, quella che sarebbe intercorsa tra Stato e mafia all’indomani della tragica stagione delle bombe (Roma, Milano, Firenze). In un teatro di posa, dunque, un gruppo di attori ricostruisce, nei modi di una “fiction giornalistica”, i passaggi fondamentali di una vicenda complessa e piena di omissis che inizia dall’uccisione di Falcone e Borsellino fino ad arrivare al processo che vede sul banco degli imputati, fianco a fianco, politici e mafiosi. Vent’anni di storia italiana: l’uccisione di Salvo Lima, il maxi processo, la strage di Capaci, l’uccisione di Borsellino, le bombe a Roma, Firenze, Milano, la fallita strage allo Stadio Olimpico… con i suoi discussi protagonisti: Riina, Provenzano, Ciancimino padre e figlio, Caselli, i capi del Ros Mori e Subrani, Napolitano, Mancino, Scalfaro, i pentiti, Gaspare Spatuzza, Mutolo, Dell’Utri, Mangano… e Berlusconi, ovviamente, quello vero e quello fatto dalla Guzzanti. La trattativa, presentato Fuori Concorso alla Mostra di Venezia 2014, è un progetto al quale Sabina Guzzanti ha lavorato per molto tempo e che le ha richiesto, immaginiamo, una grandissima mole di lavoro. Oltre alle ricerche e alla raccolta dei tantissimi materiali e fonti, la parte più complicata ha coinciso con la “forma” della messa in scena, ovvero quale dispositivo utilizzare per raccontare questa vicenda. Molte potevano essere le alternative, e ognuna portatrice di conseguenze. La Guzzanti sceglie di dichiarare il meccanismo, si auto-denuncia, dice sin da subito che quella che si sta per vedere è una rappresentazione realizzata da dei lavoratori dello spettacolo, quindi svela gli “autori” (non giornalisti, non documentaristi, non magistrati, non storici) e il linguaggio utilizzato. Quel che si vedrà, tra materiali di repertorio, interviste realizzate ad hoc, docu-fiction, pannelli grafici e quant’altro, è il frutto di una ricostruzione siffatta, accurata ma anche “inventata”, eppure assunta come vera. L’aspetto più problematico di un’operazione come questa riguarda proprio la forma della messa in scena, in riferimento alla materia trattata, perché lì risiede la sua ambiguità. È finzione (spettacolo?), eppure si dice come sono andate le cose. In questo mischiare repertori e ricostruzioni, intercettazioni e deposizioni, interviste e cabaret, è difficile sapere chi dice cosa, se un dialogo è inventato o il resoconto di un fatto realmente avvenuto, se un passaggio è frutto di una deduzione giornalistica o probatoria, se il tic di un personaggio è una caricatura oppure una imitazione. E questo “dubbio”, in alcuni casi facilmente risolvibile in altri meno, sposta il film verso lidi remoti, para-televisivi, da cabaret di denuncia, facendo saltare l’impianto documentale e documentario a favore dello spettacolo della dietrologia in un girotondo che fa girare la testa. Questa confusione richiede l’accettazione aprioristica della “bontà” degli autori, da una parte, e anche la comprensione profonda della parzialità della ricostruzione. Sembrerebbe ovvio, ma non è proprio così, per quel tanto di intenzione didattica e didascalica espressa sin dalle prime battute del film, subito dopo la boutade di Gaspare Mutolo alla prova d’esami di teologia, conversione carceraria e mai tardiva. All’inizio la Guzzanti con sguardo aperto e chiaro, rivolgendosi allo spettatore, ci dice in che cosa è consistita la trattativa. Non ha dubbi sul fatto che sia esistita o meno, altrimenti non avrebbe fatto il film, e porta una serie consistente di deduzioni, ma la verità è nelle sue mani e non si fa problemi a mischiare questo e quello, finzione e realtà, sudore e cerone, imitazione e ritratto, testimoni e attori, libretti rossi con libretti rossi… Alla fine, ci chiediamo, che cosa è questo film? È un film di denuncia? Un film a tesi? Una docu-fiction? Un articolo di Travaglio? Uno spettacolo teatrale? Una puntata estesa di Santoro? Una serata speciale di Fazio curata dalla Dandini? È cinema? È televisione? Oppure una web-serie a puntate? Troppe domande, poche risposte. Allora eccone alcune. È utile? Dipende. È bello? Non proprio. È appassionante? A tratti. Se ne esce arricchiti o frastornati? Più la seconda. Si ride? C’è poco da ridere. Vuol far ridere? Un po’ sì. È ammiccante? Certo. Parla al suo uditorio? Senza dubbio. Convincerà chi la pensa diversamente? Non tanto. Fa domande o dà risposte? È un prontuario di risposte. Avrà successo in sala? C’è da sperarlo. Perché? Perché è meglio parlare di queste cose che non. È ritmato? Si. Annoia? No. Indigna? Solo chi non s’è fatto un’idea prima. Tira colpi bassi? Domanda inutile. C’entra qualcosa con Belluscone – Una storia siciliana, il film di Maresco? Niente: quello di Maresco è cinema e parla degli italiani, questo della Guzzanti è una docu-tv-fiction e parla agli italiani. Quello di Maresco è un urlo di dolore, quello della Guzzanti è semmai un urlo di terrore, bloccato in un ghigno.
Palermo, 1995. Tra i banchi del mercato, due ragazzi sono colpiti alle spalle da sicari ‘mafiosi’. Uno muore, l’altro sopravvive ma è questione di ore. Un commissario cupo e introverso indaga. A casa lo aspetta la consorte, una donna inconsolabile per il rapimento di un bambino avvenuto due anni prima e per non averne uno suo da stringere. In cortile un collega si accende un’altra sigaretta e rimane in attesa di sapere dove condurlo. Con l’aiuto dei suoi uomini, ferma e preleva un giovane geometra che sospetta prossimo ai ragazzi uccisi. Ma è evidente che il ragazzo non sa nulla. Nondimeno, ostinato a ottenere una confessione, il commissario passa alle maniere forti. La moglie intanto resiste lungo i corridori di una casa ingombrante e ingombrata di ‘buone cose di pessimo gusto’. Sola e fragile è assediata dalle apparizioni del bambino rapito che sogna un cavallo e del fratello pentito che rivela la faccia oscura del cognato. La tensione sale, i nervi cedono e la situazione fuori e dentro casa sfugge di mano.
Spagna, una città del nord che deve fronteggiare i problemi della crisi industriale. Santa, Josè, Lino, Reina, Amador, Serguei: amici da sempre, che dopo aver perso il lavoro ai cantieri navali, consumano i giorni tra bevute al bar, discorsi filosofici, e improbabili ricerche di nuove occupazioni. Fra le malinconie di un futuro difficile e le gioie momentanee che scrosciano all’improvviso. Sempre pronti a non dimenticare l’unico bene prezioso che è rimasto loro: la dignità. Investito da un diluvio di Premi Goya (l’equivalente spagnolo dei nostri David), il film è una godibile commedia che si avvale di una scrittura sapiente e, soprattutto, di una recitazione magistrale di tutti gli attori, in special modo di Bardem, giunto ormai ad una fantastica maturità espressiva. Posizionandosi fra il Loach meno manicheo (quello di Piovono pietre e Riff raff, per intenderci) ed il Kaurismaki più solare, de Aranoa confeziona un piccolo capolavoro: commuove senza indisporre, fa riflettere senza essere saccente, e talora trova anche il tempo di farci divertire.
Alla periferia di Parigi, il giovane Michel ha tutto per essere soddisfatto (bella casa, ogni comodità, lavoro redditizio, molte donne), ma si annoia, demotivato. La sua vita cambia quando trova un portachiavi (un volto di donna in porcellana) che risponde “I love you” a chi gli fischia, e se ne innamora perdutamente. Quando dopo un incidente, non può più fischiare, il suo destino è segnato. Ferreri “chiude in un cerchio tutta la sua poetica… recupera il sogno dell’uomo, annullandolo definitivamente” (Angela B. Saponaro). Ideato dal regista che l’ha prodotto con la moglie e scritto con Enrico Oldoin e Didier Kaminka. Desolata ode all’onanismo con un protagonista monocorde. Non è più solitudine: è “solità” (Ida Magli).
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