Il lido di Ostia, in una domenica qualsiasi del mese di agosto. Persone di diverse estrazioni sociali si dirigono verso la spiaggia per sfuggire alla calura cittadina. Nell’arco della giornata si compiono i destini di tutti: un disoccupato diventa rapinatore e viene arrestato, una ragazza e il suo corteggiatore, dopo essersi ingannati vicendevolmente, si scoprono poveracci e non milionari come avevano tentato di darsi ad intendere, una ricca signora scopre che il suo appartamento è andato a fuoco. È il primo film del genere “spiaggia”, poi ripreso (anche troppo) negli anni Sessanta. Ma qui c’è molto di più: i toni del neorealismo sono ancora vigorosi e attendibili, i ritmi del racconto straordinariamente equilibrati. Da ricordare l’interpretazione di Emilio Cigoli, il grande doppiatore, nella parte del papà affettuoso.
L’ispettore di Scotland Yard Jack Kirby (Luigi Vannucchi) indaga sulla morte del fratello Bob (Alberto Farnese), ex campione di golf. L’ispettore è convinto che si tratti di omicidio e per il delitto sospetta di un tale, Tony.
Muore impiccata, in una villa isolata, un’anziana contessa paralitica (Miranda). Muore di coltello il marito (Nuvoletti) che l’ha uccisa. Muoiono ammazzati altri undici, tra parenti e visitatori. Esseri umani raccontati come insetti in un mondo dominato da pulsioni brutali. Uno dei migliori film di M. Bava – che ne curò anche la fotografia – “proprio per l’intreccio di intenzioni alte e di pratiche basse, serietà metafisica e ironia sdrammatizzante, bellezza formale e grand-guignol” (A. Pezzotta). Scopiazzato da molti registi nordamericani dell’horror che di Bava sono meno colti e meno cattivi. Altro titolo: Ecologia del delitto .
Lemmy Caution ha una missione da compiere ad Alphaville, città del futuro di un’altra galassia, dove tutto è diretto da Alpha 60, computer che ha messo al bando i sentimenti. Rivisitazione ironica di 2 generi popolari (spionaggio e fantascienza) in un cocktail gradevole. Ma Godard ne fa una ricerca sugli elementi di base del cinema: la luce e il suono. Alphaville è Parigi, capitale del dolore.
Evadono da Regina Coeli una dozzina di detenuti. Il più pericoloso risulta essere un certo Lettieri. Il commissario Murri, dai sistemi spicci, viene incaricato della cattura. Murri è efficacissimo, quelli che non prende uccide (e intanto si concede molte pause amorose con la bella Laura).
Reduce dalla guerra 1914-18 incontra in Emilia un commilitone, senza lavoro come lui, e con lui si aggrega agli squadristi in camicia nera, ma nell’ottobre del ’22 la loro marcia su Roma è piuttosto anomala. Commedia al vetriolo che canzona con spirito mordace e aguzzi risvolti satirici il fascismo squadrista delle origini. Il duetto tra finto-spaccone e finto-tonto Gassman-Tognazzi fa faville.
Due butteri maremmani (in fuga dopo una maledetta rapina) vagabondano per la Toscana (siamo negli anni del Risorgimento) facendo strani incontri. Notevole esordio del giovane Lucchetti che realizza un “conte philosophique” alla Voltaire (cioè un discorso serio sotto vesti di favola) ambientato in un’Italia mai esplorata dal cinema.
Giovane sicula dal sangue caldo sbarca a Londra per uccidere Vincenzo che l’ha sedotta e abbandonata. Ma nella metropoli avviene una felice metamorfosi. Commedia all’italiana in trasferta inglese. Confezione di lusso, sostanza da avanspettacolo, caricaturale più che satirica, con una bieca insistenza sui più vieti luoghi comuni sul Sud. Nomination all’Oscar come miglior film straniero.
È il 1° film sul massacro degli armeni cristiani (il 1° genocidio del ‘900), progettato ed eseguito nel triennio 1915-17 dal partito sciovinista dei Giovani Turchi. Le cifre dell’eccidio variano da 700 mila a un milione e mezzo di vittime. Dopo un intervallo di 8 anni, occupati da due miniserie TV, i Taviani tornano al cinema, adattando il romanzo (2002) di Antonia Arslan, italiana di famiglia armena (Arslanian) che vive e insegna a Padova. L’hanno realizzato con una larga europroduzione che fa capo a Grazia Volpi, un cast internazionale e una squadra tecnica di prim’ordine (G. Lanci, A. Crisanti, R. Perpignani, L. Merli Taviani) con esterni in Spagna, Bulgaria, Padova, Venezia. Come il libro dell’Arslan, il 16° film dei Taviani è uno di quei romanz(on)i che, alla fine, lasciano i lettori/spettatori esausti. Somiglia a quei banchetti dove sfila un gran numero di piatti, non tutti di prima qualità. Fa da architrave la famiglia Avakian della ricca borghesia armeno-turca. Si susseguono amori contrastati, tradimenti, violenze feroci, stupri virginali, sacrifici, travestimenti, fughe fallite, contrasti culturali, letali marce forzate nel deserto. Fanno spicco due personaggi non soltanto pittoreschi: Ismene (Molina), lamentatrice greca, e Nazim (Bakri) della Confraternita dei mendicanti. Musiche: Giuliano Taviani.
Colombo, Sri Lanka. Quando apprendono che la Germania vorrebbe invitare la nazionale di pallamano dello Sri Lanka a un torneo in Baviera, Manoj e Stanley – in attesa da anni di un visto per emigrare – raccolgono altri 21 disperati cingalesi, ignari di pallamano, e s’imbarcano per Monaco, ma all’arrivo sono obbligati a giocare. 1ª regia di Pasolini, responsabile di Full Monty (1997) e del suo straordinario successo, e anomalo produttore indipendente in area anglofona, che l’ha scritto con Ruwanthie De Chickera. Dopo quella sulla disoccupazione della classe operaia britannica, una commedia sulla fuga dal Terzo Mondo in cerca di lavoro e di una nuova identità. Pur in toni quasi cronachistici per descrivere lo spaesamento degli emigranti nella parte finale in Germania, rimane una commedia: “Un tema di forte presa sociale, un certo cinismo nel prenderlo di petto, una malcelata componente di qualunquismo, ma anche una lucidità fuori dal comune…” (Sergio Di Lino). Esposto alle Giornate degli autori a Venezia 2008 dove prese il Premio FEDIC (Federazione dei Cineclub).
Mentre a Itaca Penelope (Mangano) tiene a bada i Proci, attendendo col figlio Telemaco (Interlenghi) il ritorno del marito, Ulisse (Douglas) si sveglia sulla spiaggia dell’isola dei Feaci, incontra Nausicaa (Podestà) e, ritrovata la memoria, rievoca le sue peripezie (Polifemo; le Sirene; la maga Circe). Con una nave messa a sua disposizione dal re Alcinoo (Dumesnil) riparte, approda a Itaca e liquida i Proci con una strage. Dall’Odissea (sec. VIII-VII circa a.C.) di Omero, il film italiano più costoso del dopoguerra, prodotto da Ponti-De Laurentiis per la Lux, con 7 firme (tra cui quelle di F. Brusati, Ennio De Concini, Ben Hecht, Irwin Shaw) in una sceneggiatura abilmente strutturata in flashback con qualche idea notevole (la stessa interprete _ S. Mangano _ per Penelope-Circe; il canto delle sirene con le voci camuffate di Penelope e Telemaco) e ottimi effetti speciali di Eugen Shüfftan.La fotografia è di Harold Rosson. Modellato sulla misura del suo interprete hollywoodiano, l’eroe è atletico e scattante, sprezzante di ogni superstizione, avido di conoscenza, diviso tra la curiosità del mondo e il bisogno di sicurezza, di famiglia. Altri film dal poema omerico: L’Odissea (1911) di Francesco Bertolini e Adolfo Padoan (1925 metri); Odissea (1968), sceneggiato TV in 8 puntate di Franco Rossi, protagonista Bekim Fehmiu. Ne fu fatta un’edizione cinematografica di 106 minuti: Le avventure di Ulisse.
Alexandre Schmidt è un architetto di fama internazionale, sfiduciato verso la sua professione e incapace di comunicare con la moglie e psicologa Aliénor. L’incontro a Stresa della coppia con i giovani Gerardo e Lavinia, fratello e sorella, porterà a un ripensamento delle loro vite e a una nuova iniezione di fiducia. C’è ancora qualcuno che crede al potere salvifico o terapeutico del cinema, c’è ancora qualcuno che crede nel ruolo prioritario e pedagogico del cinema. Qualcuno come Eugène Green, che appartiene alla schiatta dei Rossellini e dei de Oliveira, che professa un cinema che non si vergogna della sua antistoricità, palesandone invece l’assoluta contemporaneità attraverso insegnamenti e suggerimenti ispirati che non conoscono età. O per meglio dire illuminazioni, visto il ruolo che la luce riveste nell’ultimo lavoro di Green, in cui è centrale quanto lo è nel cinema stesso. La lezione può essere appresa dal maestro e insegnata dall’allievo, in un ribaltamento di ruoli degno di un dialogo socratico sulle mancanze del razionalismo esasperato e sull’imprevedibilità del talento, quando questo è guidato dalla spiritualità. Alexandre e Gerardo come Bernini e Borromini, depositari di stili architettonici antitetici come le loro interpretazioni dell’esistenza, protagonisti di un susseguirsi di opposti che genera la più insperata delle osmosi creative. Una lectio moralis che Eugène Green conduce ricorrendo alle tecniche care al suo cinema: piani fissi, gesti ieratici, primissimi piani con attori che parlano rivolgendosi alla camera, inquadrature pittoriche (tra cui spicca il trittico dei severi esaminatori del progetto di Alexandre). Per poi lasciarsi andare all’esame accurato delle architetture del Borromini, alla sua ascesa inarrestabile verso l’assoluto, in cui trascinare lo spettatore più attento e complice dell’operazione in atto. Un percorso verso la sapienza, inesorabilmente e inevitabilmente guidato dall’amore, che restituisce speranza in un’idea di cinema che non teme l’anacronismo e che rivendica la sua atemporalità.
Mite professore, preso in ostaggio dai banditi, diventa peggio di loro. Il capo, invece, si redime. Attori bravi e affiatati, sotto la guida di Sóllima, hanno creato personaggi ben delineati che conferiscono interesse nuovo a questo “spaghetti-western”. Ben accolto dalla critica. La Rivista del Cinematografo ne diede un’interpretazione politica: il professore (Volonté) come simbolo delle guardie rosse con la sua rivoluzione culturale imposta attraverso formule come il culto della personalità, il terrore staliniano, la direzione individuale, e l’indio (Milian) che fa pensare a certi movimenti popolari messi in disparte o sconfessati dai burocrati moscoviti.
Un critico musicale russo, in Italia per ricostruire un episodio della vita del musicista russo Pavel Sasnowskj, incontra a Bagni Vignoni, una località termale presso Siena, un singolare personaggio, chiamato “il matto”, il quale afferma che per pacificare il mondo è necessario attraversare con una candela accesa la piscina di Santa Caterina. Dopo un soggiorno a Roma, dove il matto si dà fuoco in Campidoglio, il critico compie la traversata della piscina con la candela, ma muore d’infarto per l’immane fatica. Ancora un film sul tema, ossessivo per Tarkovskij, del “sacrificio” che è necessario per raggiungere la pace.
Due amanti poverissimi trovano un portafoglio piuttosto fornito. Coi soldi vivono da gran signori per un paio di settimane, poi tutto ritorna come prima.
Nella Moldavia del Seicento la principessa Asa è condannata e giustiziata per stregoneria col suo amante e sepolta nella tomba di famiglia. Due secoli dopo due medici russi in viaggio la riportano casualmente in vita. La strega cerca di impossessarsi di Katia, una sua discendente che le somiglia come una gemella. Vagamente ispirato al racconto Il vij dell’ucraino Nikolaj V. Gogol’, è l’esordio nella regia di Bava, grande direttore della fotografia e geniale mago di trucchi che qui, appoggiandosi a un suggestivo apparato scenografico, esaltato da una fotografia virtuosistica che determina l’atmosfera, gli spazi, le emozioni, si cimenta in un esercizio di delirante necrofilia. Grande successo internazionale, il film contribuì al lancio della Steele. Rifatto per la TV a colori da Lamberto Bava, figlio di Mario.
A Las Piedras, cittadina dell’America Centrale, quattro avventurieri _ due francesi, un italiano e uno scandinavo _ accettano di trasportare su due autocarri 900 chili di nitroglicerina a 600 km di distanza, necessari per spegnere un pozzo petrolifero in fiamme. È, dopo Il corvo (1943), il film più personale di Clouzot “che si paga il lusso di un’introduzione smisurata (un’ora intera prima della partenza degli autocarri), affresco di un inferno immobile, preludio all’inferno in movimento del viaggio stesso” (J. Lourcelles). Suspense infallibile, sostenuta da una cura maniacale del particolare; un quartetto di personaggi sbalzati con icastico rilievo; u
La storia è una variazione della vicenda faustiana da un poema di Fausto Maria Martini del 1915. Una anziana dama dell’alta società, Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli) stipula un patto con Mefisto (Ugo Bazzini), per riacquistare la giovinezza in cambio della quale però lei ha il divieto di innamorarsi. Alba è corteggiata da due giovani fratelli, Tristano (Andrea Habay) e Sergio (Giovanni Cini). Film muto fra i più importanti della sua generazione, sia per l’ispirazione dannunziana, che si riflette nel soggetto e nella scenografia della nobiltà decadente fortemente polarizzata sull’estetica Liberty, sia per l’interpretazione di Lyda Borelli, star del muto italiano. La colonna sonora è firmata da Pietro Mascagni, uno dei maggiori compositori dell’epoca e primo compositore di professione in Italia a firmare una colonna sonora, sincronizzandola con le scene del film (lavoro che definì “lungo, improbo e difficilissimo”)
Se c’è chi pensa che il detto “si nasce rivoluzionari e si muore conservatori” valga per il Roman Polanski che “illustra” (come alcuni hanno scritto) “Oliver Twist” di Dickens non si illuda. Il regista di Rosemary’s Baby e di Il coltello nell’acqua ha conservato intatto il proprio sguardo attento agli angoli oscuri della società e della psiche. Uno sguardo mediato dall’esperienza di Il pianista e proprio da quel film di successo stimolato a rivisitare il proprio passato di bambino salvatosi dal ghetto di Cracovia con la madre uccisa ad Auschwitz. Lo fa per l’interposta persona di uno dei personaggi più famosi dell’universo dickensiano, quell’Oliver Twist che ha già costituito una fonte di ispirazione per il cinema. Polanski legge la vicenda narrata dal grande autore inglese immergendola in una miseria materiale e morale quasi palpabile. Osservate l’illuminazione del film: è dominata da un buio sporco, per nulla gotico ma carico invece delle scorie prodotte dall’abbrutimento dell’essere umano al contempo carnefice e vittima nel tragico incedere dell’industrializzazione forzata. La luce di una bella giornata di sole è un fatto quasi incidentale, secondario, non “normale”. Così al centro della storia sono sì le vicende dell’innocente orfanello costretto a far parte di una banda di ladri organizzati. Ma chi gli ruba il proscenio è Fagin nell’interpretazione magistrale che ne dà un irriconoscibile Ben Kingsley. È lui, padre e padrone della banda di ladruncoli, che detta i ritmi della vicenda con il suo corpo laido che percorre le stanze e le vie del degrado umano ricordando a tratti le caricature infami con cui i nazisti dileggiavano gli ebrei.
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