Con interpreti non professionisti. Film a due diritti con due autori in contrasto, girato a Ladispoli e nella campagna romana circostante nell’estate ’42 in una situazione produttiva precaria, salvata dall’ENIC. Da una parte Asvero Gravelli, noto scrittore e giornalista fascista, che ne scrisse il soggetto e figura come supervisore: doveva esaltare in chiave anticomunista l’ARMIR (Armata italiana in Russia) e la morte eroica del cappellano militare Reginaldo Giuliani. La vicenda si concentra su un casolare dove si rifugiano un cappellano e un commissario politico sovietico, donne, bambini, contadini russi, mentre infuria una battaglia. “Religione e politica, patriottismo e retorica si mescolano” (G. Rondolino). Dall’altra parte c’è Rossellini che “si rivela nelle piccole cose… nei momenti di quiete, di attesa”, probabilmente improvvisando senza badare alla sceneggiatura. Distribuito soltanto nel giugno 1943. Accoglienza tiepida. Ritirato dopo il 25 luglio.
Fred e Mick sono due amici da moltissimo tempo e ora, ottantenni, stanno trascorrendo un periodo di vacanza in un hotel nelle Alpi svizzere. Fred, compositore e direttore d’orchestra famoso, non ha alcuna intenzione di tornare a dirigere un’orchestra anche se a chiederglielo fosse la regina Elisabetta d’Inghilterra. Mick, regista di altrettanta notorietà e fama, sta invece lavorando al suo nuovo e presumibilmente ultimo film per il quale vuole come protagonista la vecchia amica e star internazionale Brenda Morel. Entrambi hanno una forte consapevolezza del tempo che sta passando in modo inesorabile. Paolo Sorrentino era atteso al varco con questo film che arriva dopo l’Oscar de La grande bellezza e la sua estetica così personale tanto da aver diviso critica e pubblico in estimatori e detrattori molto decisi. Per di più il regista tornava in competizione a Cannes dove solo due anni fa la giuria non aveva degnato del benché minimo riconoscimento il film ricoperto successivamente da molteplici allori. Il rischio maggiore però, che era più che lecito paventare da parte di chi amava il suo cinema ma non era impazzito di gioia dinanzi al suo ultimo lavoro, era quello di ritrovare un Sorrentino ormai divenuto manierista di se stesso. Il trailer del film seminava più di un indizio in tal senso ma, fortunatamente, i trailer non sono i film. Perché il Sorrentino regista è tornato a confrontarsi con il Sorrentino sceneggiatore. Se entrambi avevano deciso di convivere senza intralciare il lavoro dell’altro dando così luogo a ridondanze e compiacimenti oltremisura, in questa occasione l’uno non ha concesso all’altro (e viceversa) più di quanto fosse giusto concedergli. Ne è nato così un film compatto a cui non nuocciono neppure le molteplici sottolineature del finale. Perché questa volta il modello di Sorrentino torna ad essere se stesso, senza più o meno consci confronti con i maestri che, anche quando citati, vengono metabolizzati nel suo universo creativo. Non mancano anche qui personaggi più o meno misteriosi che appaiono e scompaiono e a cui ora è comunque lo spettatore a poter assegnare la valenza simbolica che preferisce. Perché Fred e Mick sono persone che sono state personaggi nella loro vita ma che su questo schermo tornano a presentarsi come persone. Con le loro angosce, con le loro attese, con i loro segreti e, soprattutto, con la consapevolezza di una memoria destinata a perdersi nel tempo come le lacrime del Roy Batty bladerunneriano. Sorrentino non ne fa due vecchie glorie più o meno coscienti delle proprie attuali forze fisiche e intellettuali ma offre loro anche i ruoli di genitori che conoscono luci ed ombre di un’arte altrettanto difficile: quella che i figli pretendono che venga esercitata nei loro confronti, non importa in quale età essi si trovino. In tutto ciò, ci si può chiedere, che ruolo viene assegnato alla giovinezza del titolo? Quello di specchio riflettente (e deformante al contempo) di passioni, desideri, fragilità. Su tutto questo e su molto altro ancora Sorrentino torna a trovare la profondità, la leggerezza ma anche la concentrazione che permettono al film di levitare. Chi lo vedrà capirà il senso del verbo.
Nel 1932 anarchico della Bassa lombarda, deciso a far fuori il Duce, trova ospitalità in una casa chiusa di lusso dove s’innamora della bella Tripolina. Il mattino dell’attentato si sveglia in ritardo. Ghignante quadro di costume, è un’opera ideologicamente equivoca perché il suo contenuto evidente (l’antifascismo) è in contraddizione con il suo contenuto latente (una mescolanza di sentimentalismo e volgarità). Come la bricconata conclusiva mostra, la sua mancanza di rigore rasenta l’isterismo. Attori ineccepibili. Premiato Giannini a Cannes.
Un film di Roberto Rossellini. Con Giacomo Furia, Marilyn Buferd, William Tubbs, Giovanni Amato, Joe Falletta.Commedia, Ratings: Kids+13, b/n durata 83′ min. – Italia 1952. MYMONETRO La macchina ammazzacattivi valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Convinto da uno strano personaggio (il diavolo?), un fotografo di paese si vendica di coloro che gli hanno fatto del male rifotografando una loro fotografia e provocandone la morte. Poi, però, convince il diavolo a far resuscitare le sue vittime. Girato a Maiori (Salerno) nel ’48, tra difficoltà e interruzioni (uscì soltanto quattro anni dopo), difficilmente catalogabile, in bilico tra tragico e grottesco, serio e faceto, frammentario eppure coerente, fu il tentativo di Rossellini di avvicinarsi alla commedia dell’arte. La visione neorealistica si carica di elementi fantastici e surreali. Il soggetto è di Eduardo De Filippo e Filippo Sarazani.
Amore mio è un film del 1964, l’ultimo diretto da Raffaello Matarazzo, morto due anni dopo a causa di una malattia.
Dopo aver diretto tre commedie, Matarazzo torna al melodramma sentimentale, con cui aveva ottenuto tanto successo nel decennio precedente, ma a causa di alcune traversie sorte durante la produzione, la pellicola fu distribuita dalla Titanus soltanto nei circuiti minori di provincia, mentre non arrivò mai nelle grandi città come Roma e Milano e dunque registrò uno scarso successo economico.
La storia è quella di due fuorilegge reduci da un colpo (dove hanno indossato, a bella posta, divise da ufficiali nordisti). Durante la fuga s’imbattono in una carovana, i cui componenti li scambiano per autentici militari e affidano loro il comando. Uno dei fuorilegge s’immedesima nel ruolo e porta in salvo un convoglio a Forte Alamo. L’altro invece non si ravvede: il suo compare buono dovrà ammazzarlo.
Luciano Ciotola vive a Napoli in un palazzo fatiscente con la moglie e i figli avendo come coinquilini numerosi parenti. Gestisce una pescheria mentre con la moglie ha attivato un traffico illegale di prodotti casalinghi automatizzati. Luciano ha una vocazione per l’esibizione spettacolare così il giorno in cui i familiari lo sollecitano a partecipare a un casting de ¨”Il Grande Fratello” non si sottrae. Entra così in una spirale di attese che trasformerà la sua vita. Matteo Garrone ha dichiarato “Dopo Gomorra volevo fare un film diverso, volevo cambiare registro così ho deciso di tentare la via della commedia”. Sul piano formale ha sicuramente affermato il vero ma su quello del contenuto profondo non è così. Reality è, anche se potrebbe sembrare impossibile, un film ancora più tragico di Gomorra.Perché se la camorra è un fenomeno delinquenziale nei confronti del quale si sono prodotti, in vasti strati della popolazione, i necessari anticorpi non altrettanto è avvenuto nei confronti dei reality in genere. Siamo di fronte a una distorsione della percezione del reale che ha metastatizzato una vasta fascia della cosiddetta ‘audience’. Non importa se in questa fase trasmissioni come quella oggetto del film o altre simili stanno subendo sensibili cali di ascolto. Ciò che conta è che il seme è stato deposto e le sue radici sono ben salde. Attraverso le vicende di Luciano (uno straordinario Aniello Arena che ha costruito la sua professionalità attoriale in carcere) Garrone non ci racconta solo Napoli. Gira in una città che ormai conosce bene e che gli offre un ritmo recitativo che sarebbe difficile trovare altrove ma è dell’Italia tutta che ci offre uno squarcio doloroso. Sarebbe facile definire Luciano, sua moglie Maria e tutte le figure che li circondano come personaggi che sarebbero piaciuti a Eduardo ma qui si va oltre. Pirandello (con il suo confine labile tra ragione e follia) si sposa con Orwell (che finalmente vede riscattare il titolo del suo romanzo grazie all’ossessione che si impossessa del protagonista) mentre la colonna sonora di Alexandre Desplat va alla ricerca di sonorità che ci rinviano a quelle del Danny Elfman del Nightmare Before Christmas burtoniano. Perché è un incubo quello in cui precipita Luciano e in cui dissolve ciò che resta della sua famiglia e della sua vita sociale. Un incubo costruito da continue attese, da ‘stazioni’ come quelle della Via Crucis della Settimana Santa, cerimonia che finisce con l’acquisire un valore simbolico. Dopo non ci può essere che una resurrezione; ma quella che la civiltà dell’immagine produce può avere luogo solo in un paradiso ineluttabilmente falso.
L’inventore di un nuovo prodotto viene invitato nella villa di un facoltoso possibile acquirente che ospita due coppie di amici. Il prodotto però non è in vendita a nessun prezzo e dato che tutti i presenti vorrebbero impossessarsene, si scatena una lunga serie di omicidi.
Un misterioso amuleto finisce tra le mani di un ragazzino che, preso da smania erotica, assale un gran numero di fanciulle. Dopo numerosi, grotteschi episodi arriva finalmente uno stregone, che inghiotte l’amuleto e finisce agli inferi.
Marco è un avvocato barese compagno della sudamericana Martina e padre di un bambino di sette anni, Mateo. Il rapporto di Marco con il figlio è improntato al gioco e alla tenerezza, quello con la compagna invece è fatto di silenzi, rancori e incomprensioni, ma l’uomo a malapena se ne accorge, fagocitato dalla sua professione e dalle incombenze quotidiane. Martina invece è alla frutta e la sofferenza le si legge in faccia: il suo unico desiderio è tornare nel suo Paese natale, portando con sé il piccolo Mateo. Quando Martina annuncia le sue intenzioni a Marco lui commette l’errore fatale (tanto comune nelle unioni infelici) di non prenderla sul serio, quando invece la disperazione (e la mancanza di un vero ascolto) rendono la donna assolutamente determinata a portare a termine il suo programma. Così Mateo si ritrova a 15mila chilometri dal padre, e Marco rimane a Bari da solo.
La banda dei ricercatori è tornata: l’associazione a delinquere “con il più alto tasso di cultura di sempre” di Smetto quando voglio decide di ricostituirsi quando una poliziotta offre al capo, Pietro Zinni, uno sconto di pena e a tutto il gruppo la ripulitura della fedina penale, a patto che aiutino le forze dell’ordine a vincere la battaglia contro le smart drug. Così questi laureati costretti a campare di espedienti in un’Italia che non sa che farsene della loro cultura vanno a recuperare un paio di cervelli in fuga e lavorano insieme per stanare i creatori delle nuove droghe fatte con molecole non ancora illegali. Pietro però non può rivelare nulla del suo nuovo incarico alla compagna Giulia, incinta del loro primo figlio, ed è costretto ad inventare con lei bugie sempre più colorite.
Tira e molla di sentimenti a Napoli tra Cecilia, libraia, e Tommaso, proprietario di un ristorante. Intorno a loro, altri personaggi in crisi. È il più ambizioso ma anche il meno riuscito dei film di M. Troisi che dà il meglio di sé nei lunghi monologhi. Brava e bella F. Neri, tutti bravi i comprimari cui, caso raro, Troisi concede il giusto spazio. Film d’amore, sull’amore, intorno e dentro l’amore, ha avuto i suoi sostenitori: “Piccolo piccolo e anarchico… uniforme e imprendibile, fluidissimo e singhiozzante, febbricitante e dolcissimo” (Gariazzo & Chiacchiari).
Venezia, 1763. Lorenzo Da Ponte è un ebreo convertito, battezzato a dieci anni perché il padre potesse passare a nuove nozze con una cristiana. Assunto il cognome del vescovo che gli impartì il sacramento, ordinato sacerdote ma cresciuto a immagine e somiglianza di Giacomo Casanova, Lorenzo compone versi contro la Chiesa, dissipa i denari al gioco e i sentimenti nell’adulterio. Denunciato da un tipografo viene giudicato dall’Inquisizione veneziana e condannato a quindici anni di esilio. Casanova, persuaso del talento letterario e amatorio del suo protetto, lo raccomanda a Vienna ad Antonio Salieri. Nella città della musica, Lorenzo incontrerà Mozart, inesauribile compositore, provato dalla malattia e dai debiti. Diviso tra la passione di un insidioso soprano e l’amore di una giovinetta virtuosa, Lorenzo scriverà il libretto del Don Giovanni, sposando le note di Mozart e precipitando all’inferno il suo passato libertino.
La figura di Don Giovanni nel cinema è davvero considerevole. Fedelmente o liberamente interpretato, il suo mito è stato spesso ridimensionato, parodiato o trasformato in inerte materia avventurosa da una straordinaria messe di titoli. Considerevole eccezione è stato (ieri) l’impassibile e glaciale Don Giovanni diretto da Joseph Losey e interpretato da Ruggero Raimondi, apprezzabile è (oggi) la traduzione cinematografica del libertino di Carlos Saura, già autore nel 1983 dell’adattamento per lo schermo dell’opera di Bizet (Carmen Story). Consumatore di giovinezza e di bellezza, il dissoluto licenzioso ringiovanisce ad ogni convivio d’amore e ritrova levatura e gigantismo nelle immagini di Carlos Saura e nella luce di Vittorio Storaro. Il punto di vista del regista spagnolo è quello di Lorenzo Da Ponte, poeta e librettista che si inserì nell’illustre schiera di letterati attratti dalla storia esemplare di Don Giovanni. Sovrapponendo il mito del seduttore con tre figure storiche, Da Ponte, Mozart e Casanova, Saura intreccia e converge il personaggio con la persona, l’azione fantastica con la cronaca di quell’azione. Lorenzo Da Ponte, emulo e amico di Casanova, e più modestamente lo stesso Mozart, conoscevano bene le raffinate strategie dei sensi, e da uomini del loro tempo sentivano e sapevano che i giochi stavano per finire e che l’impavido farfallone amoroso avrebbe suo malgrado ceduto il passo al “convenuto di pietra”, ai Commendatori accasati e padri di famiglia. L’autore è preciso e istruito nel cogliere attraverso i suoi personaggi il crepuscolo del Settecento e le derivanti evoluzioni morali. La classe sociale e l’anarchico modello di vita di Don Giovanni, come pure di Da Ponte e Casanova, erano destinate a soccombere sotto l’onda rivoluzionaria della morale borghese. Se Don Giovanni canterà nell’opera il gran rifiuto di rinnegare le proprie gesta persino alle soglie dell’inferno, Da Ponte, meno eroicamente e meno ostinatamente, si accompagnerà con una consorte fino a New York, dove si spegnerà quasi novantenne. Io, Don Giovanni solleva ancora una volta la questione dell’opera lirica sullo schermo e risponde con un film impegnato parimenti sugli aspetti musicali e su quelli cinematografici. L’impatto e l’espressività del canto trovano un adeguato corrispettivo nella recitazione e nella fisicità degli attori cinematografici. Replicando la doppia natura, comica e tragica, del soggetto di Da Ponte, Saura differenzia lo spazio teatrale da quello cinematografico, disponendo dietro al primo piano il palcoscenico su cui dipanare l’intreccio ed esibire l’empio materialismo del mito erotico settecentesco. La costruzione dello spazio scenico poi permette di rinvenire le specificità del mezzo: ogni “voce” vive in scena e in schermo mantenendo la propria squisita individualità. Contrappunto inedito che prova a conciliare immagine, musica e parola.
Durante un viaggio in Spagna Lisa, una turista americana, incontra in uno strano negozio di oggettistica il Diavolo sotto le spoglie di un maggiordomo. Incantato per l’incredibile somiglianza di Lisa con una nobildonna morta decenni prima, riesce ad attirarla nel palazzo dove, apparentemente, presta servizio. Qui Leandro (il Diavolo-maggiordomo), manovrando bizzarri manichini, si diverte a tormentare i vecchi abitanti facendo loro rivivere i momenti della morte.
Lo sceneggiato racconta di un trapianto di cervello su un giovane pilota automobilistico infortunato e delle implicazioni etiche. La storia è ambientata in Francia, a Créteil, in un futuro imprecisato.Sobrio negli effetti scenici e nelle trovate fantascientifiche, lo sceneggiato mostra un mondo futuribile non molto diverso da quello dell’epoca della produzione se non per la locazione avveniristica (scorci di un quartiere residenziale torinese e di uno parigino) e alcune novità tecnologiche puramente marginali (come un videotelefono ma provvisto di disco combinatore, computer con schede perforate e stampanti ad aghi, auto Citroën dalla linea comunque avveniristica nonché le fotocamere che continuano l’uso della pellicola), ma con la sorprendente possibilità di visualizzare i pensieri mediante cui la polizia riesce a individuare l’autore di uno dei delitti.
La pena capitale è fondamentale per la trama e da qui l’ambientazione francese, sebbene l’ultima esecuzione avverrà solo due anni più tardi per essere totalmente abolita nel 1981. La ghigliottina, pur se rimodernata, mantiene la struttura tipica e include la tradizione dell’ultima sigaretta. In alternativa al cognac assunto a digiuno si inietta un farmaco per inibire le volontà. L’elemento saliente dell’opera è il dibattito sul progresso raggiunto dalla medicina, che interviene radicalmente su un essere umano, e il pericolo della diffusione di droghe sempre più subdole, qui sotto forma di una comune sigaretta, il cui fruitore diviene dipendente sia dello stupefacente sia dello spacciatore. I media tendevano allora ad eleggere la cosiddetta “sigaretta drogata” come unico mezzo di assunzione, celando la più brutale siringa.
Lisbona, 1924: l’abile truffatore Artur Virgilio Alves Reis si convince del fatto che tentare di stampare banconote false sia troppo pericoloso, ed elabora allora un piano per falsificare una serie di documenti ufficiali della Banca del Portogallo, che gli consentano di ottenere la regolare produzione di un ingente quantitativo di banconote, in tutto e per tutto identiche a quelle vere, dalla stessa società londinese incaricata di stampare moneta per il governo Portoghese.
John Harrington (Stephen Forsyth) uccide con una mannaia una coppia in treno in viaggio di nozze. Harrington è consapevole di essere pazzo, ma sa anche che nessuno se ne è accorto: non la moglie Mildred (Laura Betti), né gli impiegati della sua casa di mode. John è lucido e continuerà a uccidere fin quando non scoprirà la verità. L’ambientazione in una casa di mode ricorda il famoso thriller di Bava, Sei donne per l’assassino, precursore del giallo all’italiana, ma qui l’impostazione è più delirante e horror, con uno psicopatico semilucido, un’ossessione allucinante e assurda, una seduta spiritica, un’apparizione spettrale e altre piacevolezze del genere. Lo stile inconfondibile di Mario Bava tiene a bada tutto questo e lo trasforma in uno spettacolo imperdibile.Disseminato di ricercatezze e finezze visive, il film è solo in parte appesantito da una trama che, pur con momenti di originalità, è sostanzialmente prevedibile, finale compreso. Alcune sequenze sono magistrali: l’omicidio di Laura Betti e quanto avviene subito dopo è realizzato con grande fantasia e astuzia visuale. Non mancano tocchi di assoluta bizzarria, come l’abito da sposa indossato per l’occasione dall’assassino. Il cast è variamente efficace, ma non trascendentale: Stephen Forsyth è solo adeguatamente atono nel ruolo del killer, Laura Betti è perfetta nel ruolo di moglie antipatica e Dagmar Lassander irradia splendore
Banditi rapiscono industriale e un capitano della polizia sente puzza di bruciato (politico). Quando gli uccidono la fidanzata, si scatena. Uno dei tanti poliziotteschi italiani che raccontano il fenomeno della delinquenza, lanciando segnali ambigui e spesso reazionari. Lento, rozzo e dispersivo.
Indagando sull’impiccagione di una ragazzina, la polizia arriva a una organizzazione di giovanissime squillo con molti clienti d’alto rango. Gli italiani non brillano nel poliziesco, ma è grave, come in questo caso, quando per parlare di violenza si fa violenza, per criticare gli orrori si mostrano orrori senza il filtro di un linguaggio, di uno stile, dunque di un’etica.
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