La guerra di Troia, dal rapimento della bella moglie di Menelao fino all’incendio. L’impostazione è filotroiana con Elena onesta, sposa malmaritata, Paride eroicizzato, atleta senza macchia né paura che tende all’apertura a sinistra, capace di mandare al tappeto un marcantonio come Aiace. Ulisse: scettico pacifista. Achille: un bullo. Gli Atridi fanno la peggior figura. Colosso Warner Bros girato a Cinecittà. Tolte poche scene di massa, gestite da Yakima Canutt (e da Raoul Walsh non accreditato), sembra diretto da Wise soltanto per ritirare la paga. Record degli strafalcioni storici concentrati in una sola scena: quella in cui Paride presenta Elena a Priamo.
Inviato a Purulia (Bengala) per un servizio sullo sfruttamento e la violenza subita dalle donne nelle comunità tribali, il fotoreporter Upin è turbato dall’immagine della bella ragazza madre Gangor che allatta il suo bimbo. Pubblicata in prima pagina, la foto suscita scandalo e cambia la vita di entrambi. Dopo Roma Paris Barcelona (1990), la 2ª fiction (in bilico sul documentario) di Spinelli, regista teatrale, documentarista, conoscitore dell’India, da lui frequentata da 25 anni, scritta con Antonio Falduto, si ispira al racconto Dietro al corsetto di Mahasweta Devi, nota scrittrice indiana, impegnata nelle cause sociali e femminili. Videointerviste, sottotitoli per i dialetti, cinepresa a spalla, fotografia di Marco Onorato, montaggio di Jacopo Quadri. Il racconto segue un percorso circolare, semplice, dimostrativo, cercando un cortocircuito tra prospettiva e realtà sottoproletaria rurale, tra visibilità e verità.
Un giovane viene arrestato per un delitto non commesso. Tutti gli indizi gli sono contro. Lo aiutano un avvocato di pochi scrupoli e un’amica dalla quale si è rifugiato dopo esser sfuggito a un primo arresto. Il vero colpevole viene poi scoperto e il giovane potrà riabbracciare la donna che lo aiutò.
Costretto a evadere dal carcere è denunciato, col suo consenso, dalla moglie e dal suo amante che, riscuotendo la taglia, possono pagare i debiti. Tra ironia e patetismo, è un apologo grottesco e dolceamaro sul malessere sociale nell’Italia del miracolo economico. Manfredi esordisce bene nel registro drammatico in un personaggio diviso tra un sistema che non gli appartiene (il carcere) e un altro (la società, la famiglia) che non gli è mai appartenuto. Prodotto da Age, Scarpelli, Alfredo Bini, Mario Monicelli e lo stesso Comencini, fu un fiasco: troppo sgradevole e provocatorio.
L’onorevole democristiano Giacinto Puppis (L. Buzzanca, truccato da on. Emilio Colombo) fa sogni erotici dove gli appare una donna ignuda (E. Czemerys) in un’alternanza di immagini che mostrano le sue rotondità abbinate ai monumenti di piazza San Pietro. Intanto, in un intreccio di manovre e patti segreti tra Vaticano, mafia, servizi segreti e alte gerarchie militari, il Puppis diventa Presidente della Repubblica. Anche un manipolo di suore finisce in pasto alle ossessioni erotiche di un L. Buzzanca senza freni. Proiettato al Viminale in una proiezione riservata ai parlamentari, fu bloccato dalla censura e messo in circolazione dopo una provvidenziale mutilazione. Scritto da L. Fulci con Sandro Continenza e Ottavio Jemma. Distribuito in Francia come Obsédé malgré lui . “Folgorante (e unico) caso di satira politica in cui il rapporto freudiano tra potere e piacere trova un’originalissima e piccante messa in scena.” (C. Avondola-M. Garofalo).
Dopo Il matrimonio di Maria Braun è il 2° capitolo di Fassbinder sul passato della Germania. Nel romanzo di Döblin trova un tema centrale della sua poetica: il rapporto tra due uomini (Biberkopf e Reinhold) mediato dall’affetto/possesso di una donna. In una intervista il regista dichiarò di essersi proiettato non in uno, ma in 3 personaggi: Biberkopf, Reinhold e la prostituta Mieze. Dopo aver mantenuto le distanze dal primo per 13 puntate, se ne approfitta nell’epilogo onirico… (Il mio sogno da un sogno di Franz Biberkopf): l’allucinazione del personaggio si sovrappone alle ossessioni del regista in un flusso di simboli psicoanalitici e di riferimenti storici. Serial TV in 13 puntate e un epilogo girato in 16 mm negli stabilimenti della Bavaria di Monaco con alcuni esterni a Monaco.
Firenze negli anni ’20: pettegolezzi, intrighi, teneri amori e passioni politiche in via del Corno, dietro Palazzo Vecchio, mentre col manganello e l’olio di ricino i fascisti si avviano a conquistare il potere. Dal romanzo (1947) di Vasco Pratolini. Prodotto in cooperativa, è uno dei più robusti, efficaci e commossi film di C. Lizzani che, però, sacrificò un po’ la dimensione privata del libro. Una bella galleria di personaggi sullo sfondo di una Firenze suggestiva nel bianconero del grande Gianni Di Venanzo. Il governo democristiano dell’epoca intervenne per non farlo premiare al Festival di Cannes.
Due momenti nella vita del celebre avventuriero: bambino nel 1733-34 a Padova e giovinetto nel 1742 a Venezia, quando decide di smettere la veste di abatino e di iniziare la sua nuova vita. Con qualche eccesso calligrafico, un’amabile ricostruzione d’epoca con Gherardi scenografo e costumista che tiene d’occhio la pittura di Pietro Longhi nel descrivere una ricca e decadente Venezia. Acre, spiritoso, insolito.
Cantante famoso va ad Amalfi per alcune esibizioni e trova che la precedente visita di un suo sosia gli sta creando non pochi problemi. Chiarito l’equivoco, va in vacanza a Capri, dove l’attende una sorpresa. Una commedia umoristica fatta su misura per le poche, innegabili doti del “molleggiato nazionale”, che interpreta molto bene sé stesso.
Scritto dal genovese Montaldo, attivo dal 1961, con la moglie Vera Pescarolo e il prolifico Andrea Purgatori, è un film di esplicita denuncia etico-sociale dove vale la forma più che i contenuti. Nicola Ranieri, proprietario a Torino delle Officine Meccaniche ereditate dal padre, è sull’orlo del fallimento. Da 8 anni sposato senza figli con Laura, come lui ricca borghese, sospetta che lo tradisca con un baldanzoso garagista, ma non si rende conto di essere fallito anche come marito. Invece di raccontare cause, responsabilità, rapporti con i 70 operai che Nicola non può più pagare e rischiano di perdere il lavoro, Montaldo scarica tutto genericamente sulla recessione che affligge da anni l’Italia e l’Europa e sullo strozzinaggio delle banche e delle assicurazioni e dedica molto, troppo spazio alla sua gelosia. Non manca nemmeno una lieta fine in cui, praticando l’antica, italica arte dell’arrangiarsi, si mette sullo stesso piano dei suoi supposti persecutori. All’attivo rimangono la bravura di Favino (un po’ meno quella della Crescentini in un personaggio contraddittorio), le livide luci e i colori di Arnaldo Catinari, il talento dello scenografo Francesco Frigeri. Tirate le somme, è un film formalista.
Avvocato d’ufficio, senza passione, disilluso e stanco, Perez non ha mai avuto abbastanza coraggio per diventare l’avvocato di valore che avrebbe potuto essere. Ritrova le palle – e sé stesso – quando la figlia, fidanzata con un piccolo delinquente, si trova in serio pericolo e, per salvarla, infrange ogni regola. Non è la storia in sé che conta, ma come è raccontata – la sceneggiatura è del regista con Filippo Gravino – come è descritta – un’atmosfera opprimente senza possibilità di uscirne -, come è fotografata – da Ferran Paredes che riprende il Centro Direzionale di Napoli con occhio gelido e duro – e soprattutto conta la potenza di un personaggio che Zingaretti (anche produttore) riesce a rendere credibile in ogni sfaccettatura, compresa quella forse meno risolta del rapporto della figlia con lui. Medusa distribuisce.
L’archeologo George Hacker compie importanti scavi in Egitto, riportando alla luce antichi reperti. Nel frattempo la moglie fotografa Emily e la piccola figlia Susie si godono le bellezze della zona. Ma una misteriosa mendicante cieca dà a Susie un amuleto, accompagnandolo con una frase minacciosa: “Le tombe sono dei morti”. George invece penetra in un’antica tomba dove, precipitato in un trabocchetto, entra in contatto con qualcosa di soprannaturale rimanendone accecato sia pure solo, prevede l’oculista, per alcuni mesi. Tornati a casa a New York, dove c’è anche il figlio più piccolo Tommy, la vita familiare comincia presto a complicarsi: George è seccato per la sua temporanea cecità e Susie si comporta stranamente, coinvolgendo il fratellino.
George sorprendentemente torna a vedere prima del tempo e, preoccupato, decide di scoprire la verità su ciò che ha visto nella tomba maledetta, che è quella di Abnubenor, il dio del male. Ma le cose precipitano in un vortice di orrore con la stanza dei ragazzi che sembra essere diventata una misteriosa porta di collegamento spazio-temporale con l’Egitto. Forse solo l’intervento dell’occultista Adrian Marcato può risolvere il problema. La possessione demoniaca sprigionata da scavi archeologici e trasportata in una metropoli americana richiama L’esorcista e il titolo (oltre che il nome di uno dei personaggi) richiama Rosemary’s Baby, ma la storia più che all’horror demoniaco guarda a quello cosmico lovecraftiano, come denota anche la citazione che apre il film. Ci sono aspetti promettenti e originali, ma la vicenda si incarta in uno sviluppo di maniera nel quale gli spunti migliori – i “viaggi”, il collegamento nello spaziotempo – sono sottoutilizzati. Il ritmo è inoltre piuttosto lento e poco coinvolgente. Gli avvenimenti si accumulano in modo programmatico senza generare sufficiente suspense, alla ricerca di facili effetti momentanei. Fulci, in una prova decisamente minore, non riesce a dare vita e tensione agli avvenimenti. Il suo stile resta inconfondibile, ma qui il regista è poco ispirato: per generare apprensione infila una serie smisurata di primissimi piani di occhi preoccupati e per scuotere gli spettatori utilizza a profusione urla raccapriccianti. I risultati sono modesti. Il talento visionario di Fulci si sprigiona solo raramente, trovando immagini adeguatamente suggestive solo nel truculento assalto finale. La sceneggiatura pone più enigmi e quesiti di quanti ami risolvere e l’insieme è, per un film di Fulci, insolitamente fiacco. La musica di Fabio Frizzi è sin troppo preponderante anche in momenti in cui non sarebbe necessaria, ma era lo stile del momento. Nel cast più che il monolitico e monocorde Christopher Connelly si fa apprezzare la sensibile Martha Taylor (alias Laura Lenzi). La piccola posseduta è Brigitta Boccoli, futura star televisiva.
Quando nel paesino di Concadalbero, alle foci del Po, arriva la nuova maestra elementare, la bella e cittadina Mara, la nebbia sembra diradarsi e gli occhi degli uomini tornano a guardare. È così per Giovanni, diciottenne al primo incarico di inviato per “Il Resto del Carlino” e per Hassan, meccanico tunisino stimato e rispettato, in una parola “integrato”. Sotto lo sguardo curioso del più giovane, nasce la storia d’amore tra i due adulti, dapprima sotto il segno dell’inquietudine (Hassan spia la ragazza al buio della sera), poi della passione, infine della tragedia.Solo trasgredendo alla regola della “giusta distanza” raccomandatagli dal direttore del giornale, che lo vorrebbe né indifferente né troppo coinvolto, Giovanni riuscirà a riportare la giustizia nel paese (l’Italia) dei giudizi scontati. Allo stesso modo, solo abbandonando la giusta distanza che gli imponevano i soggetti degli ultimi film e tornando nei luoghi dove si era manifestata vent’anni fa l’urgenza del cinema, Mazzacurati si libera dei pesanti precedenti e spicca finalmente un nuovo volo. Dopo un remake (A cavallo della tigre) e un adattamento (L’amore ritrovato, da Cassola), il regista di Notte italiana, scortato alla sceneggiatura dalle mani dolci ed esperte di Doriana Leondeff e del romanziere Claudio Piersanti, torna nel Polesine e trasforma questo quadrato di terra piatta in una tela sulla quale dimostra di sapere ancora dipingere un mondo autentico e personalissimo. Tra boschi di pioppi e battelli sul fiume, tra reminiscenze di Olmi e Fellini, l’obiettivo di Luca Bigazzi indaga un’umanità immobile e grottesca, accogliente all’apparenza ma in definitiva inospitale, che allontanerà fatalmente i tre protagonisti, chi verso la morte e chi verso una nuova vita. Questo il cuore del film, non la trama gialla, esile e amara, ma un mondo in cui il tabaccaio ha la moglie rumena e il Suv, in cui la barista è una cinese e l’autista del bus sta per sposare l’estetista. Un luogo ossessionante eppure familiare, nessun posto e ogni dove, trasfigurato in uno scenario gotico padano dalla musica originale dei Tin Hat. Il coraggio con cui Mazzacurati affida i ruoli principali a tre attori alla prima prova da protagonisti -Valentina Lodovini, Ahmed Hafiene e Giovanni Capovilla (quest’ultimo alla primissima esperienza)- viene ripagato dalla qualità della loro interpretazione e dal piacere di riconoscere il frutto di un lavoro importante, spesso trascurato ma connaturato al cinema stesso, ovvero la ricerca della giusta faccia. Tra i soliti noti, invece, spiccano Giuseppe Battiston e Fabrizio Bentivoglio in due ruoli-macchietta, sfortunatamente più veri del vero.
Giancarlo (Marconi) e Fernanda (Di Lazzaro) si sono conosciuti e innamorati nel ’68, subito è arrivata una gravidanza e la decisione di tenere questo bambino, poi l’amore è finito e il piccolo Eugenio (Bonelli, nipote del regista) è amato, ma ingombrante, sballottato tra i nonni, sempre più solo e legato al suo cane. La 1ª parte – in continua altalena tra tenerezza e furbizia, comico e drammatico – gira a pieno regime. Poi il film s’ingolfa. La responsabilità è degli attori, ma anche dell’impaccio di Comencini con questi figli del ’68 che sembrano a lui estranei e indecifrabili. Buone caratterizzazioni di M. Perlini e dei nonni, Gisella Sofio, Blier e Dina Sassoli.
A Mosca, sul finire del XIX secolo, il principe Dimitri Nechljudov viene chiamato dal tribunale in qualità di giurato popolare. Tra gli imputati c’è Katjuscia Màslova, prostituta che verrà ingiustamente condannata ai lavori forzati in Siberia per l’omicidio di un prepotente cliente. Il principe ricorda di averla sedotta, anni prima, nella casa delle zie, dove lei lavorava, e in preda al senso di colpa decide di cambiare radicalmente il proprio stile di vita, seguendola in Siberia con l’intenzione di sposarla. Ma ecco che tutto si stravolge quando sopraggiunge un altro carcerato, Simenon…
Una bella donna, moglie di un avvocato, confida al suo psichiatra di aver sognato che ammazzavano una sua vicina di casa. Qualche giorno dopo la vicina viene ammazzata davvero.
Un commissario governativo e scrittore si reca con il fratello a Dawson City per documentarsi sui cercatori d’oro nel Klondike. I due sono accompagnati da una guida indiana che ha con sé il figlioletto e il lupo Zanna Bianca. Un losco avventuriero, notate le straordinarie qualità dell’animale, non esita a uccidere la guida indiana per impadronirsene, facendo poi anche altre vittime. Nella lotta contro il malvivente, alla fine comunque avrà la meglio il commissario.
Era il 9 ottobre del 1963 quando 260 milioni di metri cubi di terra e rocce del monte Toc si staccarono e franarono nel lago artificiale della diga del Vajont. L’anomala, immensa onda relativa sommerse Longarone. Morirono oltre 2000 persone. Si parlò si fatalità, ma non era così. C’era stato chi aveva previsto la tragedia essendo la diga costruita su un terreno inadatto. La giornalista Tina Merlin cercò di portare alla luce la verità, indagando fra omertà e scarichi di responsabilità. Un funzionario si tolse la vita. Il processo, durato decenni, produsse solo condanne ridicole. Martinelli racconta tutto questo cercando di mediare lo spettacolo (troppi effetti speciali e addirittuta “esagerati”) e l’inchiesta. La Morante è brava ma fin troppo aggressiva. La vera Merlin non era così. Ma, si sa, il cinema ha le sue licenze. Film, comunque, benemerito.
Nicole sta cercando un appartamento per un futuro matrimonio con Dan, il quale è stato di recente radiato dall’esercito ed è senza lavoro. L’agente immobiliare è l’anziano Thierry il quale è segretamente innamorato della religiosissima collega Charlotte la quale gli presta cassette di programmi cattolici al cui termine compaiono lunghe riprese di lei che si spoglia. Charlotte di sera fa la badante al vecchio e satirico genitore di Lionel che fa il barista in un locale di cui Dan è un assiduo frequentatore e in cui dà un appuntamento al buio a Gaëlle, sorella di Thierry. Ancora una volta il Maestro Resnais affronta con il tocco che gli è proprio un nuovo (per lui) modo di fare cinema. Si tratta di teatro di un grande autore come Alan Ayckbourn che gli dà un copione da grande teatro londinese su cui Resnais interviene da par suo. “Le relazioni tra i protagonisti mi fanno pensare alla tela di un ragno drappeggiata tra due cespugli di ginestra spinosa e ricoperta dalla rugiada della notte. Thierry, Charlotte, Gaëlle, Dan, Nicole, Lionel e Arthur sono come insetti, che lottano per sfuggire alla trappola.
Blek Macigno, noto anche come il grande Blek, è un personaggio immaginario protagonista di una serie di strisce a fumetti realizzata negli anni cinquanta dal gruppo EsseGesse, formato dai tre sceneggiatori e disegnatoriGiovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris, pubblicato dall’Editoriale Dardo[2][3]. Raggiunse una tiratura di 400.000 copie settimanali ed è stato più volte ristampato,imponendosi non solo in Italia ma anche sul mercato europeo[4][5] dove sono state realizzate versioni del personaggio da altri autori italiani e stranieri. Blek è un atletico trapper dai lunghi capelli biondi che indossa sempre un cappello di marmotta, un gilè di pelliccia che copre il torace e dei pantaloni rossi. Per combattere usa principalmente le mani nude ma usa anche il fucile “Kentucky” usato dai cacciatori americani dell’epoca. Conosciuto come Blek Macigno per la sua stazza e la sua forza lotta per raggiungere l’indipendenza dell’America coloniale contro il predominio inglese scontrandosi frequentemente con le giubbe rosse. Comprimari fissi delle sue avventure sono un coraggioso adolescente, Roddy Lassiter, e lo scienziato professor Cornelius Occultis. Non sono presenti personaggi femminili
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