Una notte, in un bar, un amico confessa al regista israeliano Ari Folman un suo incubo ricorrente: sogna di essere inseguito da 26 cani inferociti. Ha la certezza del numero perchè, quando l’esercito israeliano occupava una parte del Libano, a lui, evidentemente ritroso nell’uccidere gli esseri umani, era stato assegnato il compito di uccidere i cani che di notte segnalavano abbaiando l’arrivo dei soldati. I cani eliminati erano giustappunto 26. In quel momento Folman si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante quei mesi che condussero al massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila. Decide allora di intervistare dei compagni d’armi dell’epoca per cercare di ricostruire una memoria che ognuno di essi conserva solo in parte cercando di farla divenire patrimonio condiviso.
Mona, giovane donna originaria del Golan, sta per convolare a nozze combinate con un cugino siriano conosciuto solo per via epistolare. La felicità per l’evento, già di per se relativa, è soffocata dal fatto che una volta lasciato il Golan, occupato da Israele, non potrà più tornarvi né di conseguenza rivedere la propria famiglia. La ragazza verrà accompagnata al confine, per l’ultimo sofferto saluto, dal padre, attivista filo-siriano diffidato dalle forze di polizia locali, e dai fratelli, in fuga dalla cultura oppressiva e totalizzante dei propri luoghi natali. Il confine tra Siria e Israele è terra bruciata tra etnie, gap neutrale dove ha voce solo la burocrazia militare: una girandola di umori e temi, infiammata dal contrasto tra i tempi che corrono e un ambiente conservatore, evidenzia scontri e contraddizioni da sempre presenti in corrispondenza di simili conflitti territoriali e ideologici. Riklis getta uno sguardo moderno su tematiche più che attuali, risultando efficace nella rappresentazione nonostante un tocco trattenuto, poco graffiante ma coinvolgente. Una linea morbida, anche rispetto al Loach di Un Bacio Appassionato, che ha il merito di umanizzare i caratteri, lasciando trasparire netto bisogno di apertura culturale e tolleranza.
Già in crisi dopo il divorzio per l’incapacità di comunicare con la figlia, il responsabile delle risorse umane di un grande panificio di Gerusalemme è accusato da un giornalista di aver trascurato la morte di una sua dipendente rumena – ingegnere, impiegata come donna delle pulizie – uccisa in un attentato e di cui nessuno ha reclamato la salma. Per rimediare, si offre di accompagnare la bara nel paese d’origine. L’unico personaggio che ha un nome in questa commedia ironica dai risvolti amari è la morta, di cui si vedono solo una fototessera e un frammento filmato su cellulare da suo figlio. Gli altri sono indicati dalla loro funzione: manager, giornalista, console israeliano, marito. Scritto da Noah Stolman, dal romanzo (2004) dell’israeliano sefardita Abraham B. Yehoshua e diviso in 2 parti (Gerusalemme, il viaggio verso la Romania), il film corale continua le tematiche dei 2 precedenti di Riklis: la forza distruttiva della violenza che induce allo sradicamento e alla rimozione del passato, esistenze allo sbando, ricerca di riscatto, denuncia delle paure da superare con la solidarietà. Il tutto immerso nell’incanto dei paesaggi (fotografia: Rainer Klausman), in una lucida malinconia di fondo. Distribuisce Sacher.
La palestinese Salma, vedova con un figlio in America, vive sola nella casa di famiglia in Cisgiordania, sul confine israeliano, occupandosi dei suoi alberi di limoni ereditati dal padre. Il ministro della Difesa di Israele diventa suo vicino di casa e, ossessionato dagli attentati, vede nell’agrumeto il nascondiglio ideale per i terroristi e pretende che tutti gli alberi vengano sradicati. Salma si oppone e si fa aiutare da un giovane avvocato ambizioso. Anche la moglie del ministro, muta testimone di quel che sta accadendo, è dalla sua parte. Autore e produttore del film è l’israeliano 54enne Riklis, già ammirato per La sposa siriana , che compone una soave fiaba quasi biblica, un piccolo, bellissimo apologo sul conflitto arabo-israeliano, dove l’affascinante Hiam Abbass (che illumina la scena e la vita di Jenkins in L’ospite inatteso ) difende la terra, le sue radici e i suoi ricordi con dolce determinazione e si lascia anche andare a sommessi palpiti d’amore quando apre il suo cuore al giovane avvocato. Piccola opera che dà un piccolo contributo alla causa della possibile convivenza pacifica di Israele e Palestina.
La banda musicale della polizia di Alessandria d’Egitto viene invitata a suonare all’inaugurazione del centro culturale arabo di una cittadina israeliana. All’aeroporto di Tel Aviv non c’è nessuno ad attendere il gruppo di musicisti, così il pragmatico direttore d’orchestra e colonnello Tewfiq decide di raggiungere il luogo con un autobus locale. Arrivato nella remota e desertica cittadina (una sorta di Las Vegas spoglia di luci scintillanti, giochi e schiamazzi) capisce che, per un difetto di pronuncia, ha sbagliato destinazione. Non si trova nella moderna Petah Tikva, bensì nell’arida Bet Hatikva. Poiché non c’è modo di andarsene da lì (c’è una sola corriera che passa una volta al giorno) gli otto egiziani sono costretti ad accettare l’ospitalità di Dina, la bella proprietaria dell’unico ristorante del posto. Al suo esordio in lungo l’israeliano Eran Kolirin realizza una piccola opera cinematografica, densa di valore, trovando il modo per fotografare e raccontare il suo paese con umorismo, sentimento e nostalgia, utilizzando un linguaggio (e lanciando un messaggio) universale. La banda è una brillante commedia dal retrogusto amaro che parla innanzitutto dell’essere umano. Le inamidate uniformi azzurre della banda celano i disagi esistenziali dei componenti. L’unica voce fuori dal coro è quella di Haled, dongiovanni nell’anima che seduce le fanciulle sussurrando i versi romantici di Chet Baker. La musica fa da collante tra lo sgangherato gruppo in terra straniera e i loro ospiti. È una canzone jazz israeliana che Dina sceglie per trasmettere a Tewfiq – il suo personale Omar Sharif – il desiderio di dirgli “tante cose”. È la danza delle mani del colonnello, che muove sinuosamente nell’aria per mostrare alla locandiera come si dirige un’orchestra, a creare un momento d’intesa tra l’uomo e la donna. E, infine, intorno alla tavola apparecchiata a festa, nel silenzio imbarazzante e un tantino ostile, basta intonare un’approssimativa “Summertime” per comunicare e azzerare la distanza di due paesi avversi. Al di là delle divergenze culturali e delle barriere linguistiche c’è la musica, ma c’è anche l’amore. Quello agognato da una giovane che vede la sua vita come un (melodrammatico) film arabo, quello perduto a causa del proprio rigore, quello cercato tra le braccia di uno sconosciuto. Il finale de La banda è preannunciato da una frase di Itzik. È “come un concerto che finisce di colpo, né triste, né allegro”. Un concerto, aggiungiamo noi, da godere fino all’ultima nota.
Israele. Zaza, ebreo di origine georgiana, ha 32 anni e non è ancora sposato. Questo è un problema per la sua famiglia che vorrebbe per lui una fanciulla vergine, di buona famiglia e ricca. I suoi genitori non smettono di proporgli ragazze da marito ma l’uomo trova sempre una scusa per sottrarsi. Perché lui una compagna ce l’ha già: Judith, divorziata e con una figlia di sei anni. Ma il momento della scelta non può essere ulteriormente procrastinato. Opera prima di un regista anche lui ‘scapolo’ e che ne ammette la ‘semiautobiografia’ Matrimonio tardivo è una commedia che rischia di apparire ‘già vista’ dopo Jalla!Jalla! o Sognando Beckham. Il problema nasce da una distribuzione che si è accorta solo nel gennaio 2003 di un film presentato a Cannes 2001. Il film si segnala per la più lunga e più giocosa scena di sesso vista al cinema che nella copia italiana sembra più corta dell’originale.
Nel corso dei secoli Israele ebbe una serie di uomini dalla forte personalità, capaci di ricondurre il proprio popolo lontano dai culti idolatrici nei quali ricadevano continuamente. Il più noto è senza dubbio Sansone, uomo dalla forza leggendaria che fu tradito dalla moglie Dalila. Sansone le aveva rivelato che il segreto della sua potenza risiedeva nella folta capigliatura. Dalila tagliò le sue sette trecce, rendendolo inerme e facendolo imprigionare e accecare. Legato alle colonne del tempio, durante una festa idolatrica, Sansone pregò Dio di restituirgli l’antico potere e “uno solo dei suoi due occhi” per castigare e avere vendetta sui Filistei. Ripercorrendo le gesta di uno dei “giudici” di Israele, morto suicida uccidendo i Filistei, il documentarista Avi Mograbi riflette sulla cultura della morte nell’Islam, assimilabile e per nulla estranea a quella dei miti ebraici. Storia, mito e attualità si intrecciano e si fondono sullo sfondo della realtà palestinese, occupata e bloccata ai check-point dall’esercito israeliano. Il dramma palestinese è una realtà innegabile per il documentarista israeliano, che al suo debutto in lungo (ma lo aveva fatto anche “in corto”) affronta la crisi tra Israele e Palestina, rilegge in modo critico il mito di Sansone e di Massada e prova ad aprire una breccia nel muro segregazionista che si sta erigendo.
L’articolazione narrativa, ovvero la modalità prescelta di esporre il racconto dei testimoni (israeliani e palestinesi), non ha in apparenza un disegno cronologico né tematico, somiglia piuttosto a un flusso che amplifica l’impatto emotivo sullo spettatore. Pur dichiarando una posizione critica verso la politica dello Stato d’Israele, che si trasforma nell’epilogo in un atteggiamento addirittura e giustamente sprezzante, lo sguardo di Mograbi contempla con rispetto gli israeliani che incontra nelle scuole o nelle gite culturali e i palestinesi che cercano di arare le terre occupate o di raggiungere l’ospedale o il posto di lavoro. Il benessere di un popolo coincide con la condanna di un altro, la costruzione di uno Stato con la distruzione di un altro e ciascuno si adegua a questo stato di cose con un dolore di vivere straziante. Non ci sono aperture fra loro, che si muovono come monadi in una realtà priva di compromessi. Ciascuno nella sua via, solo, alla ricerca di un senso al caos in cui si è perduto. Il documentario di Avi Mograbi riflette al telefono (con un amico palestinese) sulle ragioni mitologiche (la morte di Sansone e l’assedio di Massada) e su quelle storiche che hanno condotto ai drammatici fatti che accadono oggi in Palestina: il fallimento degli accordi di Oslo e della mediazione statunitense, l’esplosione della nuova Intifada, la devastazione di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme (est) dopo quarantun’anni di occupazione militare, lo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese e, sopra tutto, la strage di ebrei e palestinesi innocenti. Capire cosa sta accadendo in Palestina non è facile e la televisione e i giornali non ci aiutano. Ignorano o rimuovono. Proviamo col cinema.
La tratta delle bianche in Israele. Trasportate specialmente dai paesi dell’Est già socialista, le donne entrano in Israele attraverso il deserto del Sinai e sono smistate in varie città, persino nei Territori palestinesi. Teso da sempre a scandagliare le gravi contraddizioni del suo paese sul piano storico, religioso, sociale, esistenziale, Gitai non era mai stato, forse, così duro e crudo, così violento e pessimista sul legno storto dell’umanità. Così indignato e scomodo. Il calvario di queste donne, ridotte a merce con la violenza, è raccontato – specialmente nell’impietosa, centrale sequenza notturna – con un’immediatezza da cinema diretto. Non a caso dalla Mostra di Venezia 2004 dove Gitai era in concorso, il critico Marco Bertolino lo accostò al Salò di Pasolini. Il linguaggio registico è gelidamente furioso: cinepresa a mano, inquadrature sbilenche, montaggio stretto, luci livide, colore compresso sullo spettro dei grigi. Scritto da Gitai con Marie-Jose Sanselme. Anche fotografia e montaggio sono di donne: Caroline Champetier e Isabelle Ingold. Non può essere una scelta casuale. Musiche di Ärvo Part e Simon Stockhausen.
Una giovane giornalista, Yael, si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono. Ha sentito parlare di una donna ebrea che, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva sposato un arabo ed era andata a vivere lì. Yael, nella sua visita ascolta ciò che Il marito Youssef ha da raccontarle e raccoglie anche le testimonianze di parenti e conoscenti. Amos Gitai venne a conoscenza grazie alla stampa della storia di una donna nata ad Auschwitz e poi sposatasi, nonostante molteplici ostilità, con un arabo da cui ebbe cinque figli e 25 nipoti. Si tratta di una vicenda che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista israeliano da sempre attento ad indagare i perché di una rivalità (che spesso si trasforma in odio) tra due popoli che hanno saputo convivere nel passato e potrebbero tornare a farlo. Bisognava però decidere con quale taglio raccontarla e Gitai ha deciso di portare all’estremo quello che per lui si è spesso configurato come un codice linguistico particolarmente interessante.
Gli spettatori più attenti al suo cinema ricorderanno sicuramente l’episodio del film collettivo 11 settembre 2001 in cui descriveva la concitazione presente sul teatro di un attentato e l’assoluta incapacità della giornalista inviata sul posto a comprendere cosa accadeva grazie a un piano sequenza di 11 minuti. Altri faranno invece riferimento alla lunghissima e tesissima sequenza in apertura di Free Zone tutta incentrata sulle reazioni emotive del volto di Natalie Portman. Questa volta il piano sequenza ha la durata dell’intero film che si svolge quindi in tempo reale. Sul piano simbolico la scelta estetico-narrativa è di grande valore perché avvolge ed unisce due mondi, due culture e due memorie che si vorrebbero opposte realizzando un film ‘senza stacchi’, senza separazioni, neppure di montaggio. Non ci sono, in questo microcosmo, quei muri che altrove istituzionalizzano la separazione. Si tratta però di una formula punitiva per il pubblico non israelo-palestinese sotto un duplice aspetto. Sul piano storico perché nei dialoghi e nelle memorie dei personaggi emergono innumerevoli elementi che fanno parte della storia socio-culturale di quei popoli ma che non tutti nel mondo hanno presenti. C’è poi la fatica del seguire (e talvolta subire) gli inevitabili tempi morti che fanno parte della quotidianità di ognuno ma che sullo schermo e in una sala bui sembrano espandersi all’ennesima potenza. Gitai è sempre stato un regista ‘in ricerca’, sia sul piano storico che su quello formale. Una ricerca che, in questo caso, rischia di rivolgersi a un pubblico molto ristretto.
Liberamente ispirato da CRIME AND PUNISHMENT di Dostoevskij, ‘DISSOLUTION’ combina un’energia da favola quasi surreale con un brutale realismo in bianco e nero per esplorare la condizione di violenza che permea la società israeliana contemporanea. Girato a Jaffa, l’area prevalentemente araba di Tel Aviv, il film segue il crollo morale e il primo barlume di redenzione di un giovane ebreo israeliano, interpretato brillantemente dal non attore Didi Fire. Questo è un lavoro profondamente personale sul viaggio interiore di un uomo, ma può anche essere letto come un’allegoria sulla responsabilità morale di Israele… così come un ritratto della violenza maschile nei confronti di un femminile svalutato
A Gerusalemme il giovane Assaf deve trovare il proprietario di un labrador abbandonato. È Tamar, sua coetanea, che sta cercando il fratello tossico Shai, preda di Pesach, capo di una banda criminale che traffica droga e recluta ragazzi sbandati, costringendoli a mendicare e a suonare per strada. Anche lei catturata da Pesach, Tamar cerca di convincere Shai a fuggire. Da un romanzo (2005) di David Grossman, fedelmente adattato da Noah Stollman, il 2° film del giovane Davidoff è incerto tra la fedeltà illustrativa e lo sforzo del regista di imporre una diversa e più personale scrittura a questa storia di emarginazione e disagio sociale: cinepresa a spalla, squarci dall’alto di una Gerusalemme insolita, montaggio un po’ frenetico, virtuosismi di ripresa, interessante colonna musicale originale. “Sembra di assistere a una specie di finto neorealismo, combinato con una dimensione a tratti favolistica” (S. Emiliani). Nell’assillo di rinnovare la sua fonte letteraria, rischia di perderne l’anima. Bar Belfer è un volto intenso che non si dimentica. Distribuito da Medusa.
La storia è ambientata in una comunità chassidica ortodossa di Tel Aviv. La 18enne Shira sta per sposare un giovane scelto dalla famiglia, come impongono le regole che lei ha accettato. Sua sorella muore nel partorire il primo figlio. A suo marito Yohai si propone di sposare una vedova belga. Nel timore che il genero se ne vada con il nipotino, la madre delle ragazze gli suggerisce di sposare Shira chiedendo la rinuncia dei sentimenti in favore dei doveri verso la famiglia. Scritto e diretto dall’esordiente Burshtein, il film dà spazio con apparente lentezza a questa dicotomia tra razionalità e sentimenti istintivi. Nella descrizione di questa comunità chiusa, fondata sul patriarcato, dove però le donne (le madri) hanno un ruolo decisionale, la regista pratica la sospensione del giudizio con una scrittura quasi documentaristica sui rituali e le liturgie che diventano uno specchio, spesso deformante, della psicologia di Shira: “la devozione dolorosa a una tradizione non riguarda solo il futuro della protagonista, ma quello di un popolo alla perenne ricerca di equilibrio” (F. Pedroni). Alla mostra di Venezia 2012 la Yaron vinse la Coppa Volpi per la migliore attrice
I subita sono tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Yossi e Jagger sono due militari israeliani che vivono di nascosto una relazione omosessuale in una base ai confini del Libano.Jagger è un soldato di leva ed insiste per tornare a casa, portando con sé l’amante per presentarlo alla famiglia e rivelare la propria omosessualità. Per Yossi, militare di carriera, la scelta è più difficile. Sarà la guerra a sciogliere – drammaticamente – la questione. Film a basso budget diventato un cult in patria e subito adottato dalle comunità omosessuali di mezzo mondo, Yossi e Jagger è il classico film più onesto che bello. Il tema trattato – l’impossibilità di vivere liberamente la propria omosessualità in un paese in perenne stato di guerra – è di quelli interessanti. Ma la trattazione è francamente bozzettistica, con larghi prestiti dal melodramma e qualche personaggio (le due donne soldato) che fa da mero contorno. E la regia non sa andare oltre la piattezza televisiva. Civile, ben intenzionato, per certi aspetti importante: ma nient’altro.
Gerusalemme. Haim-Aaron è un dotto religioso ultra-ortodosso, dotato di un talento e una devozione invidiati da tutti. Una sera, Haim-Aaron crolla a terra e perde conoscenza. I medici annunciano la sua morte ma il padre, al di là di ogni aspettativa, riesce a rianimarlo. Dopo l’incidente, Haim-Aaron rimane indifferente agli studi. Si sente sopraffatto da un improvviso risveglio del suo corpo, sospetta che si tratti di una prova di Dio, e si chiede se debba deviare dal percorso prescritto e trovare un modo per ravvivare la sua fede. Il padre, nel frattempo, comincia a credere di aver commesso un peccato gravissimo, andando contro la volontà di Dio, la notte in cui risuscitò il figlio.
Isaac, un giovane studente di yeshiva, figlio unico nato da genitori diventati ortodossi. Intrappolato in una famiglia disfunzionale e un corpo debilitante, Isaac trova rifugio nel vagabondaggio. Tormentato dalla sterilità appena scoperta, Isaac cerca risposte nel discutibile passato di suo padre. Passeggiando per i vicoli della città cerca la liberazione.
Oded, dottorando in fisica all’università, un giorno rientra in casa ad un’ora insolita e si accorge di non riconoscerla: tutto gli appare differente, come se non gli appartenesse, non fosse casa sua. Comincia allora a guardare ad ogni cosa in modo nuovo, nota ciò che prima non avrebbe notato, fa cose che non avrebbe fatto, spia la vita della moglie e del suo caseggiato dall’esterno. Più osa nei comportamenti insoliti e liberatori e più si allontana dalla compagna e dall’interesse per il lavoro. Assumendo un altro sguardo diventa un altro uomo. Secondo lungometraggio di Eran Kolirin, il film ben s’inserisce nel panorama della new wave cinematografica israeliana, le cui pellicole sono spesso ironiche parabole per immagini, allegorie della società e della politica nazionale, che sfruttano un paradosso per suscitare il riso e al contempo aprire degli interrogativi. Non è un caso, dunque, se The Exchange si apre con l’esposizione di un paradosso della fisica che conclude l’impossibilità di leggere la realtà obiettivamente: il pensiero va dritto alla questione israelo-palestinese, voluto o meno che sia. Cerebrale e algido, il film non consente una visione sempre appassionata e non sceglie mai tra commedia e dramma, mantenendo un tono intermedio molto difficile da gestire senza incorrere nel rischio di annoiare. Tocca però diversi elementi interessanti. Nella vita soddisfatta e completa di Oded, infatti, la rottura della normalità e l’escalation che segue aprono uno squarcio che lascia entrare una vitalità prima sconosciuta. Oded e la moglie stanno provando ad avere un bambino ma in realtà è lui stesso a fare delle prove di infanzia, concedendosi di derogare alle regole sociali adulte e (ri)scoprendo il proprio mondo come se lo vedesse per la prima volta. Il protagonista, dunque, altri non è che il regista cinematografico, sempre in cerca di un modo nuovo di inquadrare le cose (Oded che guarda dall’alto del suo ufficio, Oded che guarda dal basso del rifugio), con dei tempi che non sono razionali ma emozionali. L’adozione di questo sguardo più attento e critico del normale può diventare ossessione, malattia, al pari dei fenomeni di alienazione tipici dei malati di mente. La sindrome della messa in scena, vero e proprio gomito del tennista del cineasta, può portare l’artista a divenire spettatore della (propria) vita e non più attore attivo. Questo sembra dire Kolirin, quando previene i suoi personaggi dal soccorrerne un terzo, in occasione di un grave incidente. Il finale del film è un po’ sprecato ma lo spunto è indubbiamente interessante.
Il fiume Inguri segna il confine naturale tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia. I secessionisti hanno reclamato questa porzione del paese, cacciando brutalmente i georgiani che la abitavano. Proprio lungo questa tormentata frontiera, in primavera, lo scioglimento del ghiaccio dà vita a piccole isole itineranti, che si fanno e si disfano a seconda delle stagioni e dei capricci della natura. Un vecchio contadino e sua nipote adolescente si installano in questa terra di nessuno, costruendo una precaria baracca di legno, per coltivarvi il necessario per sopravvivere al rigido inverno. Quando sull’isola compare un ribelle ferito, il già fragile equilibrio di questa insolita coppia si spezza pericolosamente. Quello diretto dal georgiano George Ovashvili è un film che indaga tra le pieghe dei conflitti. In primo luogo, il difficile rapporto tra uomo e natura, cristallizzato nel tentativo ancestrale di dominare, a mani nude, un ambiente riottoso, pronto a sottrarre con violenza ciò che un attimo prima aveva dato. In seconda battuta, c’è la lotta fratricida tra due popoli, che si manifesta nella presenza dei soldati georgiani che pattugliano il confine con le loro barchette, alla ricerca dei ribelli. Sopraggiungono molesti, così come il rumore degli spari nella notte, a turbare la quiete della vita del contadino, scandita solo dai ritmi di un lavoro paziente, in balia della natura. Il terzo contrasto, non meno importante, è quello tra la prudente saggezza dell’uomo anziano e l’incosciente desiderio di emozioni della nipote sulla soglia dell’adolescenza. La routine lenta e faticosa che li unisce, al contempo li divide, determinando il sentore strisciante di una deflagrazione che non si consuma mai veramente. Almeno non a parole, in un’opera dove gli sguardi, le inquadrature – carrellate o movimenti di macchina a mano – e la fotografia in 35 mm – contano molto più dei dialoghi, ridotti all’osso per l’intera durata del film. Un film da festival, in cui la sceneggiatura è scarna, al pari delle battute, e il ritmo è dilatato. Un film dove l’immagine ha la meglio sulla parola, esibendoci, in tutto il suo crudele splendore, una natura tanto generosa quanto capricciosa. Il regista ce la mostra con estremo realismo, ai limiti del documentario. I due attori protagonisti contribuiscono a rafforzare questa poetica del reale, agendo davanti alla macchina da presa con grande naturalezza, parlando solo con gli occhi: solcato, lui, dalla fatica dell’età e dalle intemperie della vita – ma nonostante tutto determinato e teneramente preoccupato per la nipote – e animata, lei, da un bisogno di vita che la spaventa e la incoraggia al contempo. In questo deserto di comunicazione, non è tanto la parola a mancare, quanto le risposte alle domande che questa storia incompiuta di uomini suscita. Curiosità e desiderio di emozioni più forti che il regista non soddisfa, interessato più ai capricci della natura che a quelli degli uomini.
Nella comunità ultraortodossa di Gerusalemme, Aaron, un uomo irreprensibile, è sposato con Rivka con la quale ha quattro figli. Si innamora di Ezri, un giovane studente. In nome di questo amore ripudia la sua famiglia e la comunità ortodossa la quale però lo condurrà ad un tragico destino.
Un insegnante è il principale sospettato di un caso di pedofilia: sarebbe il responsabile di diversi omicidi e sevizie ai danni di minorenni. Un poliziotto è convinto della sua colpevolezza ma non riesce a dimostrarla, mentre il padre dell’ultima vittima ha ideato un piano perfetto per torturare il sospetto ed estorcergli la verità. Agevolato dal clamoroso endorsement di Quentin Tarantino, che lo ha definito il suo personale film dell’anno, Big Bad Wolves è destinato – nonostante il grado di violenza che è capace di raggiungere e la brutalità dei temi trattati – a uno status di sicuro e diffuso cult. Troppo astuta la regia di Papushado e Keshale, troppo impeccabile lo script e sapientemente dosata la tensione perché le critiche possano avere la meglio; e tale è la padronanza del ritmo da lasciar intravedere un futuro remake hollywoodiano all’orizzonte, senza dover ricorrere a vaticini. Riuscire a sostenere ancora qualcosa di cinematograficamente originale e significativo trattando di serial killer e vendette sanguinarie, d’altronde, è tutt’altro che semplice, ma Papushado e Keshale riescono a ipnotizzare lo spettatore, anche in virtù di un’umiltà che non nasconde le proprie influenze. È evidente la presenza non solo del suddetto Tarantino nel Dna dei due registi israeliani, ma soprattutto il modello di un film come The Chaser, pietra angolare del noir sudcoreano e punto di non ritorno (fino a quando?) sulla violenza di serial killer e di poliziotti vendicatori, già ripreso in India da un titolo come Ugly di Anurag Kashyap. Il nero-nerissimo è il colore del 2013, quindi, adatto a fotografare un’epoca di crisi economica, morale e spirituale in cui prevalgono confusione, sete di denaro e appetiti insani. Big Bad Wolves è quasi una dissertazione sullo stato di cose, sotto forma di slasher estremo che muta forma e sostanza sempre più verso un’astrazione dalla materia fondata su un sarcasmo corrosivo. Sull’inutilità della vendetta e della ricerca stessa della verità, impossibile da ottenere pienamente, sulla consapevolezza incrollabile da parte dell’uomo di potere di riuscire a risolvere qualunque cosa, non importa come. Riflessioni etiche costantemente mediate e alleggerite dalla confezione di genere e da uno script geniale, capace di sciogliere la tensione con interruzioni, spesso comiche, nei momenti di maggiore insostenibilità. Ribadendo con orgoglio e con la consueta autoironia la proprie radici ebraiche – le schermaglie madre-figlio sono degne del Woody Allen di New York Stories – nonostante qualche concessione di troppo al politically correct nella benevolenza nei confronti del personaggio del palestinese, unico a salvarsi in toto nel panorama misantropo di Big Bad Wolves. Ma si tratta di dettagli, in un’opera che fin dai titoli di testa sconvolge per la lucidità e maturità di una cinematografia in irresistibile ascesa.
Quando tre ragazzi in divisa suonano alla sua porta, Dafna capisce subito cosa sono venute a dirle, e cade a terra priva di sensi. Sedata lei, per qualche ora, con un sonnifero, tocca al marito Michael sopportare sveglio il peso indicibile della notizia della morte del figlio Jonathan. Tutto appare incredibile. Non può essere vero, e forse non lo è: forse il destino ha in serbo una beffa ancora peggiore.
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