During breaktime, Dara and Nader have a fierce argument about a torn exercise book that the former has given back to the latter. There are two possible outcomes, which the film shows one after the other. One is that Dara wants to get his own back, and the two boys start a violent fight; the other is that they work together to mend the exercise book with a little glue.
Regia di Abbas Kiarostami. Un film Da vedere 2016 Titolo originale: 24 Frames. Genere Sperimentale – Iran, Francia, 2016, durata 120 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13 Valutazione: 4,00 Stelle, sulla base di 1 recensione.
“Mi sono sempre chiesto a quale grado l’artista punti per rappresentare la realtà di una scena. I pittori catturano solo un frame della realtà e nulla prima o dopo di esso. Per questo film ho deciso di usare foto che ho scattato nel corso degli anni. Ci ho aggiunto 4 minuti e 30 secondi di ciò che immaginavo avrebbe potuto essere accaduto o accadere prima o dopo l’immagine che avevo catturato”. Si potrebbe definirlo un testamento ma è di fatto qualcosa di diverso e di più significativo.
Giornalista afghana esule in Canada, Nafas decide, passando dal confine con l’Iran, di tornare a Kandahar. Il suo difficile viaggio nel deserto ha per tappe principali un campo profughi, una scuola coranica talebana, la dimora di un medico afroamericano, un centro di assistenza della Croce Rossa. Il caso ha voluto che le immagini di un film di finzione (girato in Iran) dessero finalmente significato, concretezza e verità all’irrealtà retorica delle vacue immagini televisive “dal vero” che per mesi, dopo l’11 settembre 2001, furono trasmesse in mezzo mondo. Tra finzione e realtà, mostra e racconta come il fondamentalismo islamico abbia umiliato la dignità delle donne, cercato di livellare la diversità degli uomini e di indottrinare i bambini col Corano, ridotto a strumento di propaganda. Intriso di dolore, descrive fino a che punto una lunga guerra possa devastare un Paese. Nonostante un’eclisse, chiara metafora dell’oscuramento della ragione, e il buio indotto dal burqua, è ricco di luce e di colori. Ingiustamente accusato di estetismo e di speculazione sui mutilati dalle mine da chi non capisce come la bellezza delle immagini possa essere un’apertura verso la speranza.
Un film di Abbas Kiarostami. Con Hassan Darabi, Masoud Zanbegleh Titolo originale Mossafer. Commedia, durata 73 min. – Iran 1974.
Ghasem Jolā’i è un problematico ragazzino di dieci anni che vive in una piccola città iraniana. Ghasem vuole vedere la nazionale di calcio dell’Iran giocare una partita importante a Teheran. Perciò egli truffa suoi amici e i vicini di casa.
ATeheran, due amici sopravvivono come possono, circondati da una lussuria che non possono avvicinare. Per Hussein diviene una vera ossessione, finché non decide di rapinare una gioielleria. Vincitore della sezione Un certain regard di Cannes, è un film che ricorda la semplicità di Rossellini: inizia con un piano-sequenza a macchina fissa con l’inquadratura della porta della gioielleria per poi continuare, in un lungo flaschback, a spiegare le motivazioni del gesto del protagonista. Si vede che l’opera è stata scritta da Kiarostami: stilizzata nei tratti essenziali e centralità nella descrizione del degrado sociale. Ma importante è anche Hussein, con la sua corporeità così ingombrante, la sua timidezza, il suo sguardo perso: solo ed emarginato, Hussein sa di non potersi spingere oltre il suo piccolo mondo di povertà e tristezza; proverà a farlo, ma il prezzo da pagare sarà veramente alto.
Il cinema iraniano continua le sue acrobazie retoriche e finisce per incartarsi con 20 Angosht (“venti dita”), diretto dalla giovane Mania Akbari e vincitore della sezione Digitale a Venezia 2004. Un film in cui non accade assolutamente niente: un’esasperante parata dei volti dei due protagonisti (ed unici attori) che discutono, in successive fasi della loro relazione amorosa, del nulla più profondo. Seguire i loro primissimi piani sfocati e ballonzolanti è già difficile dopo 20 minuti; al 40mo si comincia a perdere interesse anche per i loro battibecchi; sul finale si ronfa di gusto. Questo non è cinema, non è sperimentazione, non è niente.
Regia di Jafar Panahi, Kambuzia Partovi. Un film con Maryam Moqadam, Jafar Panahi, Hadi Saeedi, Kambozia Partovi, Azadh Torabi, Zeynab Khanum, Abolghasem Sobhani. Titolo originale: Parde. Genere Drammatico – Iran, 2013, Valutazione: 3,00 Stelle, sulla base di 1 recensione.
In una casa in riva al mare un uomo arriva in taxi ed entra. Dopo poco estrae da una sacca il proprio cane. Come prima cosa tira tutte le tende ed applica su di esse dei teli neri. Il cane non può uscire neppure per adempiere ai bisogni fisiologici perché gli animali sono considerati impuri e vanno soppressi. L´uomo sta scrivendo una sceneggiatura ma non riuscirà a trovare la concentrazione necessaria. Come tutti sanno, Jafar Panahi ha subito dal governo iraniano l’interdizione a scrivere sceneggiature, a girare film, a lasciare il Paese e a rilasciare interviste, pena la detenzione per sei anni. Questo film nasce grazie alla collaborazione del collega Kamboziya Partovi il quale a sua volta rischia sanzioni. Panahi non nasconde, in questo film complesso in costante bilico tra realismo e astrazione, la propria condizione psicologica di artista a cui un regime teocratico impedisce di esprimersi liberamente. Il suo è quasi un rovesciamento del dilemma pirandelliano. Nella finzione teatrale erano i personaggi a cercare un autore. Qui è Panahi a cercare i propri personaggi e ad offrire loro sfaccettature della propria tormentata condizione psicologica. Lo sceneggiatore ha ormai solo un affettuosissimo cane a cui riferirsi in cerca di un’ispirazione che una realtà esteriore (la giovane donna) da cui vorrebbe rifuggire, continua a interrompere. La ragazza cerca di sfuggire a un pericolo che la minaccia all’esterno. Fino a quando ad entrare in scena è lo stesso Panahi che prende possesso della casa e rivela la presenza di una troupe impegnata nelle riprese. È qui che il discorso si fa palese. Quell’abitazione appartiene al regista. Alle pareti sono appesi i manifesti dei suoi film presentati fuori dall’Iran, è un luogo familiare in cui probabilmente sono nati alcuni dei personaggi e delle storie che lo hanno fatto conoscere al mondo. Ora la creatività, che non cede al sopruso, cerca ancora di esprimersi ma la sua articolazione è continuamente spezzata e alla ricerca di uno spazio in cui non sia più necessario occultarsi. L’augurio di trovarlo è quello che tutto il mondo del cinema invia a questo regista coraggioso.
L’unico paio di scarpette di Zohre è in riparazione dal calzolaio; le ritira il fratellino Ali, che le perde accidentalmente. Fra i due bambini si attiva una triste e forzata complicità per tener nascosta la perdita ai genitori, poverissimi. Ma per andare a scuola dovranno condividere l’unico paio di scarpe di Ali. S’ingegneranno anche in tutti i modi per cercare di recuperare le scarpette di Zohre o per procurarne di nuove.
Il manovale iraniano Lateef scopre che un suo compagno afghano, e clandestino, da lui maltrattato, è una ragazza, per giunta graziosa, costretta a travestirsi per trovare lavoro. Più che la storia contano la descrizione dell’ambiente e il tema centrale su cui si chiude il racconto: “vedere l’altro, riconoscerlo” (C. Chatrian). Con qualche sospetto di poeticismo di maniera, è un film lindo e aggraziato.
Per rispettare le ultime volontà del padre appena deceduto, tre fratelli, a cui si aggiunge una sorella, portano il suo cadavere in auto in un villaggio nel mezzo del nulla. Il caldo e la lunghezza del viaggio rendono l’esperienza difficile da sostenere, in particolare quando il corpo inizia a decomporsi. La rivalità che è sempre esistita tra il primogenito e il fratello ultimo nato si fa sempre più esplicita e rancorosa.
Tra le montagne del Kurdistan iraniano ai confini con l’Iraq, un maestro – che, come altri, se ne va in giro, lavagna sulle spalle, in cerca di alunni – segue le colonne di (innominati) curdi profughi e un gruppo di ragazzini contrabbandieri. 2° film della ventenne S. Makhmalbaf, figlia del regista Moshen con cui ha scritto la sceneggiatura e che le ha curato produzione e montaggio. Sullo sfondo di un desertico paesaggio petroso di costante tonalità giallo-ocra, di cui rende con uno sguardo visionario la selvaggia bellezza, la giovanissima regista ha fatto un film epico, metaforico, qua e là estetizzante, non privo di intermezzi ironici o umoristici. L’esposizione è ricca di salti, ellissi, reticenze, dovute in parte alla censura, ma che la caricano di inquietanti e misteriose risonanze. Gran Premio della giuria ex aequo a Cannes 2000.
In una città del Tajikistan, festeggiato da solo il 50° compleanno, un maestro di danza (Nazarov, musicista tajiko, Luna Papa ), convoca nella sua scuola quattro donne – tre tajike e una russa – del suo passato amoroso e, analizzando il decorso delle quattro storie, ragiona sui meccanismi del sesso e dei sentimenti. Quanto dura la felicità? E l’innamoramento? Il film può tutt’al più incuriosire uno spettatore occidentale cui appare anacronistico o esotico o diverso, ma il risultato complessivo è di un’inerzia prolissa, qua e là rinfrescata da invenzioncelle bizzarre come le 50 candele accese sul cruscotto dell’automobile del protagonista.
Su una vecchia petroliera, abbandonata al largo di un’isola nel Golfo Persico, vive una piccola comunità – 150 persone circa – di uomini, donne, bambini poveri, governata (pugno di ferro, guanto di velluto, parlantina sciolta) dal capitano Nemet che intanto sta smantellando la nave per venderne i pezzi. 2° film – dopo The Twilight (2002) – prodotto, scritto e diretto da Rasoulof, ispirato da una sua pièce teatrale messa in scena nel 1995. Il che spiega, nonostante le apparenze realistiche della regia, il suo impianto esplicitamente simbolico e fiabesco, in bilico tra grottesco e malinconico. È una metafora il film stesso, quella di una società bloccata (la nave ferma), salvata dal caos sociale attraverso il filtro di un capo che la tiene isolata dal mondo, compone la turbolenza e anestetizza i sudditi con le parole. Film fin troppo programmato e didattico ma anche critico nella sua prudente lucidità. Forse il suo aspetto più interessante è socio-antropologico: racconta quale sia la condizione della donna negli stati clericali del Medio Oriente. Scelto alla Quinzaine de Réalisateurs di Cannes 2005 dalla Lucky Red.
Mohammad ha otto anni ed è cieco. Durante l’estate lascia l’istituto in cui studia per ritornare al villaggio natale, dove vivono il padre vedovo, le sorelle e la nonna. Il film racconta attraverso la poesia di immagini, suoni e colori il difficile rapporto dell’uomo con il figlio che non riesce ad accettare.
Mehrollah è un ragazzino di quattordici anni che, dopo la morte del padre, si trova costretto a occuparsi della famiglia. Per trovare un lavoro, si mette in viaggio verso il sud dell’Iran. Tornato nella sua città natale, scopre che sua madre si è risposata. Il confronto tra figliastro e patrigno crea una serie di situazioni tese e porta a una pericolosa avventura.
Premiato più volte a Venezia, Berlino, Locarno, Cannes, il regista iraniano è stato condannato a non poter più girare film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste per 20 anni, pena 6 anni di carcere. Nonostante ciò, ancora una volta Panahi sfida il divieto e si mette alla guida di un taxi – sul quale salgono e scendono diversi personaggi – per fotografare la quotidianità del suo paese, dove le contraddizioni sono sempre più forti, dove la condizione della donna è e resta sempre subalterna, sottomessa al potere maschile. Un piccolo film, ironico, leggero e duro.
Orso d’argento al Festival di Berlino 2006, nasce da una scommessa del regista con sua figlia che voleva andare con lui allo stadio per vedere una partita di calcio. In Iran per legge è vietato alle donne assistere alle partite. Panahi era andato da solo, ma lei era riuscita a raggiungerlo. La foto dei due insieme fu pubblicata su molti giornali. La vicenda è fatta di microeventi che descrivono la situazione delle donne in una società assai arretrata in tema di diritti civili e di libertà individuali. Anche sceneggiatore, Panahi ricorre all’arma dell’ironia con episodi divertenti. Rimane la fedeltà alla sua scrittura registica di timbro zavattiniano senza sbavature né cali di tensione narrativa. Il 1° marzo 2010 Panahi, la moglie, la figlia e altre 15 persone loro ospiti furono arrestati nella casa del regista a Teheran. Panahi è molto conosciuto e premiato nei festival europei (Leone d’oro a Venezia con Il cerchio , 2000). Il suo arresto ha provocato un intervento ufficiale del governo francese. In Italia si sono schierate le associazioni dei registi e l’ANAC
Edo, 17enne riservato, riflessivo, colto e genuino, non vuole farsi tagliare il prepuzio troppo chiuso che gli rende dolorosi i rapporti sessuali. L’amore per Bianca lo convince a darci un taglio. Dopo il documentario Hit the Road, Nonna (2011), il giovane fiorentino Chiarini – anche sceneggiatore con Ottavia Maddeddu, Marco Pettenello e Miroslav Mandic – esordisce nella fiction con una storia originale, verosimile, in chiave di elegia felicemente ironica e delicatamente audace nel mettere a nudo l’intimità del corpo e della psiche maschili. È un racconto di formazione – meglio: di un rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità – con risvolti simbolici: il pene rinchiuso nella pelle, la paura di sporgere la testa fuori dal treno in corsa. Coinvolgente, per freschezza e naturalezza, l’interpretazione di Creatini; ottimo il suo accoppiamento comico con Nocchi (l’amico Arturo). Musiche indie rock della band canadese Woodpigeon. Finanziato (150mila euro) dal Biennale College-Cinema di Venezia, che ogni anno seleziona 12 progetti di opere prime o seconde. Presentato a Venezia 2014 e a Berlino 2015.
Kurdistan iraniano, nei pressi del confine iracheno. Cinque fratelli e una sorella vivono ai limiti della sopravvivenza. Uno dei fratelli è gravemente ammalato e il medico dice che deve essere operato in tempi brevi se vuole sperare di poter sopravvivere. Nonostante gli sforzi del fratello maggiore che si impegna nei lavori più duri per racimolare il denaro, la somma è inarrivabile. La sorella accetta allora di sposare un iracheno che ha promesso di aiutarla finanziariamente per curare il fratello ma, al momento di passare il confine, la famiglia dello sposo respinge il malato dandogli come indennizzo un cavallo. Il tempo ormai stringe e il fratello maggiore decide di darsi al contrabbando. È un film dolente quello del primo regista curdo iraniano che giunge a realizzare un lungometraggio. C’è l’attenzione all’inquadratura (mutuata da Kiarostami di cui è stato assistente), ma anche la passione per il dolore dei più deboli. Anche quando si tratta di animali. Perché il titolo si riferisce al fatto che i contrabbandieri, per far resistere i cavalli al freddo e alla fatica, aggiungono alcol alla biada. E se le dosi sono sbagliate i cavalli si ubriacano soffrendo molto. Da vedere. Se si ama il cinema iraniano.
“Nessuno conosce i gatti persiani” è la traduzione letterale del 7° film (corti compresi) di Ghobadi, di etnia curda e cittadinanza iraniana, di cui da noi era già stato distribuito Il tempo dei cavalli ubriachi . Film povero e complesso. È l’inedita descrizione di una labirintica e sotterranea Teheran che le guide e i turisti stranieri ignorano. E una docufiction sulle innumerevoli (secondo Ghobadi, più di 300) bande di musica rock, rap, punk, che pullulano nell’underground di una metropoli con circa 7 milioni di abitanti. Fanno da collante narrativo 2 giovani musicisti, una cantante e un rocker, da poco scarcerati, che cercano di mettere insieme una band per farsi conoscere all’estero e magari poter espatriare. Non vogliono fuggire dal paese, vorrebbero solo essere liberi di poter vedere, ascoltare, conoscere. È la storia di un sogno, nella speranza di una società un po’ più libera. Girato in frettolosa semiclandestinità con un finale pessimista. “Sono invecchiato 17 mesi in quei 17 giorni di riprese”, dice Ghobadi e aggiunge: “Per l’Islam la musica è impura perché fonte di allegria e di gioia. Sentire cantare una donna è considerato un peccato…”. Premio ex aequo della giuria di “Un Certain Regard” a Cannes 2009. Inedito in Iran. Scritto da Ghobadi con Hossein M. Abkenar e Roxana Saberi, la sua compagna, detenuta e condannata a 8 anni durante i giorni del festival, con l’accusa di spionaggio e per avere acquistato una bottiglia di vino. Postproduzione a Berlino. Il regista e i suoi collaboratori non possono più tornare in patria, pena l’arresto.
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