Tra Il lamento del sentiero (1955) e Il mondo di Apu (1959), è la 2ª parte di una trilogia, tratta dal romanzo Pather Panchali del bengalese Bibhutibhusan Banerjee, che attraverso la storia di Apu e della sua famiglia traccia un affresco dell’India degli anni Venti e del suo travaglio evolutivo. Influenzato dal neorealismo italiano, Ray racconta la vita, la morte, il dolore delle madri, l’egoismo dei figli con un ritmo lento ma senza indugi, con cura figurativa di classico rigore ma senza compiacimenti estetizzanti, con la sobria forza di una semplicità che rende familiare un ambiente a noi lontano. Leone d’oro a Venezia 1957.
Amitabh, uno sceneggiatore di film commerciali, percorre il paese in cerca di location. Quando la sua auto si rompe, viene accolto da un coltivatore di tè e dalla moglie Karuna, una donna che aveva amato anni prima ma di cui non era stato in grado di prendersene cura, o non aveva voluto…
Il santone è un film del 1965 di genere Commedia/Drammatico, diretto da Satyajit Ray, con Charuprakash Ghosh, Rabi Ghosh, Prasad Mukherjee, Gitali Roy, Satindra Bhattacharya, Somen Bose. Durata 65 minuti.
L’avvocato Gurupada è rimasto traumatizzato dalla tragica scomparsa della moglie e ora si trova da solo a crescere la figlia. Un giorno l’uomo incontra il misterioso santone Birichi, che sostiene di vivere da secoli e di aver incontrato nella sua lunga vita figure come Platone, Gesù, Buddha ed Einstein. Gurupada viene conquistato dai racconti del millantatore e decide di diventare un suo adepto.
Un anziano proprietario terriero vede nella nuora la reincarnazione della dea Kali e le fa tributare onori adeguati. Inutilmente il figlio cerca di distoglierlo dalla sua infatuazione. Un miracolo richiesto non accade e la “dea” impazzisce. Preso spunto da un’idea del famoso scrittore indiano Rabindranath Tagore, Ray costruisce un racconto sobrio e aspro che lucidamente descrive l’opposizione tra fede superstiziosa e razionalismo, e le trasformazioni psicologiche che induce nei personaggi.
“Giorni e Notti nella Foresta”, la sua traduzione italiana, è la storia di un gruppo di amici, funzionari di una cittadina, che decidono di lasciare le loro abitazioni e la civiltà, per andare nelle campagne nella regione del Bengala. Questi si scontreranno con gli abitanti della zona, i quali li guardano con un certo razzismo e disprezzo. Il film affronta in modo coinvolgente il contrasto tra modernità e tradizioni indiane.
Arindam, un famoso attore, deve recarsi a Nuova Delhi per ricevere un premio, ma non trova voli disponibili. È così costretto a prendere il treno, dove tutti lo riconoscono. Aditi, una giornalista, riesce a catturare la sua attenzione e i due converseranno durante il lungo viaggio. Da questo incontro la star uscirà cambiato, mettendo in discussione la sua carriera da attore.
Satyajit Ray non era solo un grande ammiratore di Tagore, ma anche uno dei pochi a capire e interpretare i suoi lavori con una visione propria, unica nel suo genere. Ray con il suo modo di girare neorealistico ha trovato un perfetto alleato nelle storie quotidiane e popolari di Tagore. Teen Kanya, basato su tre storie di Tagore – The Postmaster, Monihara e Samapti – voleva essere un tributo di Ray per il poeta Premio Nobel, realizzato nel centenario della sua nascita, nel 1961. Il film ad ogni modo diventa una perfetta simbiosi tra un maestro scrittore e un maestro regista. The Postmaster è la tenera storia del direttore di un ufficio postale di città, molto educato che, in un villaggio di provincia, insegna a una ragazza a leggere e scrivere. Monihara è un racconto tessuto intorno all’ossessione di una donna verso i suoi gioielli, mentre Samapti è la storia di una ragazza un po’ maschiaccio che si rende conto di amare il padre dopo un matrimonio forzato. Inoltre, tutte e tre le storie sono state trasposte anche in singoli film.
Pellicola ambientata in India nel 1856, alla vigilia della ribellione contro l’annessione britannica. L’attenzione si concentra sugli eventi di quegli anni, in particolar modo la politica di espansione della British East India Company, e la disillusione dei monarchi indiani. Wazed Ali Shan è uno di questi che, invece di preoccuparsi della pressione del governo inglese, passa le sue giornate a giocare a scacchi. Anche quando lui e i suo compagni saranno costretti a dover lasciare il paese, continueranno a giocare a scacchia all’aperto.
Negli ultimi quattro mesi della sua vita, Abraham Lincoln cambiò la storia dell’umanità ponendo legalmente fine alla schiavitù dei neri d’America. L’ottenimento dell’approvazione del 13° Emendamento in discussione alla Camera dei Rappresentanti richiese una battaglia ardua ed estenuante, condotta contro il tempo e nell’ambito di una devastante guerra civile: una guerra nella guerra che lo coinvolse totalmente, come Presidente, come padre, marito e come uomo. Al cinema, come nella letteratura, esistono due grandi strade: da un lato ci sono le pellicole che si lasciano impressionare, evitando il più possibile d’intervenire sulla realtà, e dall’altro ci sono le pellicole che impressionano, costruendo una narrazione ad hoc. Che il cinema di Spielberg appartenga a questa seconda categoria non è un mistero, eppure questa volta, più che in precedenza, quest’appartenenza è ribadita apertamente. “Noi siamo balenieri”, dice Lincoln, citando uno dei maggiori romanzi americani, quel “Moby-Dick” che narra appunto di una missione che non dà scampo, che non si può abbandonare nemmeno di fronte alle richieste più razionali (qui neppure davanti all’ipotesi della cessione immediata di un conflitto che ha già versato una quantità disumana di sangue). Inoltre, nel caso non fosse abbastanza chiaro, Spielberg fa di Lincoln un racconta storie, ovvero un narratore, qualcuno che, per analizzare la realtà, ha bisogno di passare dal filtro dotato di ordine e di senso del racconto. Con l’aiuto fondamentale della sceneggiatura di Kushner (già autore del meraviglioso Munich), il regista ci invita dunque dentro un grande romanzo, dove ogni personaggio ha il suo momento ma tutti convergono come falene verso un’unica luce, emanata dal protagonista. L’impresa, tentata e superata, è quella di rendere intima e interiore una questione di giustizia e di politica universale. Man mano che il film si dipana, infatti, appare sempre più evidente come per Lincoln, che all’epoca dei fatti era già un leader molto amato, far passare l’emendamento non fosse un obiettivo accessorio né il frutto di una fortunata coincidenza: ne andava della sua identità storica e privata, dice il film, che sovrappone alla perfezione i piani. Come un dagherrotipo, che richiede un certo tempo di esposizione, Lincoln abbisogna di tutta la sua durata per restituire un ritratto integro, che, prima che di un uomo, è soprattutto il ritratto di una visione politica. Una visione che combina idealismo e realpolitik, illuminando due fattori fondamentali: da un lato, la statura eccezionale dell’essere umano (che in termini cinematografici si traduce nella scelta di un attore come Daniel Day-Lewis), dall’altro la capacità di guardare al di là delle convenienze (è suo figlio forse diverso dagli altri figli, che sta sacrificando sul campo come mosche?) e di usare quasi ogni mezzo, se il fine è di natura superiore. Non si può, perciò, pensare che il film di Spielberg non parli, oltre che del passato, anche al presente e al futuro.
A Calcutta, negli anni cinquanta, l’emancipazione della donna indiana. Una giovane sposa, Arati, diventa rappresentante di macchine per cucire e, andando di casa in casa, a poco a poco vince la timidezza e acquista confidenza nelle proprie capacità; in famiglia, invece, suocero e marito le sono sempre più ostili, il vecchio per principio, il giovane per gelosia.
India, 1938. Chuya, una ragazzina di appena otto anni, viene allontanata dalla sua famiglia e trasferita in una casa ritrovo per vedove indù, per espiare la colpa d’un marito perso e mai conosciuto, attraverso l’eterna penitenza imposta dai testi sacri. Tra veglie e preghiere, la ragazzina porterà una ventata di freschezza – e di scompiglio – che contagerà l’affascinante Kalyani, giovane vedova innamorata di Narayan, un fervente idealista sostenitore di Gandhi. Il film di Deepa Mehta va a concludere una personale trilogia sugli elementi acqua, fuoco e terra. Il tema trattato – la condizione della donna e in particolare delle vedove – apre nuovi spiragli su una condizione di disagio che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalle conquiste del “profeta” Gandhi, contagia centinaia di migliaia di donne costrette alla ferrea osservanza delle pratiche religiose. Se l’argomento è encomiabile nel suo tentativo di scardinare i dogmi della tradizione per far posto ai mutamenti sociali e culturali, il film in sé resta paradossalmente impigliato proprio in questo tentativo. Il labile confine che separa il tono documentaristico dalla finzione filmica si perde in scene didascaliche e incomplete, in recitazioni affettate e poco credibili, nella lezioncina da cinema (b)hollywoodiano – con tanto di lacrima finale – buttata giù a memoria e tutt’altro che impeccabile. Un film che apre uno spiraglio di speranza e di conoscenza in più su pratiche sconosciute al grande pubblico, ma che scontenta il botteghino – e gli spettatori – per l’eccessiva austerità.
Bengala, anni ’20. Biswambhar Roy, aristocratico proprietario terriero, si è finanziariamente rovinato per la passione di organizzare nel suo palazzo, per un publico di amici, raffinate feste musicali con cantanti e balletti. Dopo la morte in un naufragio della moglie e della figlia, pone fine ai concerti. Quattro anni dopo, per umiliare il suo vicino Ganguli, nuovo ricco che lo ha imitato, riapre casa per un ultimo concerto. Il 4° film di S. Ray, da lui prodotto e sceneggiato (da un racconto di Tarashankar Bannerjee), si stacca nettamente, per contenuto e forma, dal lirismo dei primi due segmenti della trilogia di Apu e dalla vena satirica di La pietra filosofale . C’è qualcosa di O. Welles ( Quarto potere , Storia immortale ) nel personaggio ambiguo e complesso di Roy, nell’orgoglioso e nostalgico narcisismo (di casta e di classe) e nella passione distruttiva per la musica con cui si oppone al mondo che cambia e s’involgarisce al di fuori del suo Xanadu. Nonostante tutto, però, “il personaggio ispira all’autore e allo spettatore una compassione e una sorta di rispetto quasi fraterni che danno all’opera una vibrazione unica” (J. Lourcelles). Sfarzoso e, insieme, austero, quasi ieratico, il linguaggio registico e lo splendore raffinato del bianconero (Subrata Mitra) ne fanno un vertice nel cinema dell’eclettico cineasta bengalese.
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