In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.
Dal romanzo di Pascal Brukner. Due coppie si incontrano su una nave in crociera per l’India: Nigel e Fiona, Oscar e Mimì. Nigel è un manager piuttosto convenzionale; sua moglie sembrerebbe la sua perfetta omologa, almeno in apparenza. Oscar è su una sedia a rotelle: è un cinico e depravato scrittore americano fallito che vive a Parigi. Mimì è bellissima, parigina e magica, fa sparire le altre donne. Oscar si accorge che Nigel mira a sua moglie e lo incoraggia, ma “in cambio” dovrà ascoltare tutta la sua storia, come fosse un analista.
Siamo nelle campagne attorno a Londra. Maggie ha un nipotino gravemente ammalato e in procinto di morire. Solo un’operazione in Australia può salvarlo ma i genitori non hanno il denaro necessario per il viaggio. Maggie va nella capitale a cercare lavoro ma per lei, donna sulla sessantina, non ci sono offerte. Decide allora di tentare con una proposta di assunzione come hostess. La prestazione però non è quello che lei, ingenuamente, crede. Dovrà masturbare i clienti di un locale porno i quali non avranno la possibilità di vederla. La donna, pensando alla salvezza del nipote, accetta nonostante tutto. Affinerà a tal punto la propria abilità nel ‘lavoro’ da diventare la mano più richiesta dai clienti, che faranno la fila per ‘Irina Palm’.
Repulsione, ovvero storia di una nevrosi, quella di Carol Ledoux, avvenente estetista ossessionata dagli uomini. Il secondo lungometraggio di Roman Polanski, il primo girato fuori dalla Polonia, è una lenta discesa di una donna verso la follia più estrema. Dall’occhio atterrito di Carol adulta che fa da sfondo ai titoli di testa fino ad arrivare all’occhio diabolico della bambina che è stata, nel finale, Polanski registra un tortuoso percorso in una psiche sempre più disturbata. E lo ambienta tra le quattro mura (crepate) di un appartamento, luogo chiuso, tetro e claustrofobico che spesso di qui in avanti sarà teatro delle ossessioni e delle allucinazioni dei suoi personaggi (Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano). I rari momenti all’esterno, per strada o nel salone estetico in cui la ragazza lavora, sono altrettanto angoscianti e non rappresentano certo una tregua, né per Carol né per lo spettatore. E allora si ritorna in casa, quella casa che Carol condivide con una sorella così diversa da lei. I problemi aumentano proprio quando quest’ultima decide di partire per un viaggio con il suo amante sposato, lasciandola sola in casa con un coniglio in putrefazione. Da qui inizia la sua confusione tra realtà e allucinazione e la progressiva discesa agli inferi della sua mente, in cui Polanski fa intuire, senza mai rivelare, un trauma trascorso che l’ha irrimediabilmente segnata fino a trasformarla in una bellissima e catatonica bambola assassina. Scritto dal giovane Polanski insieme a Gérard Brach, con cui a Parigi aveva già collaborato per un episodio di Le più belle truffe del mondo (1963), Repulsion è un’asfissiante opera di realismo fantastico e psicologico che atterrisce grazie alla forza espressionistica del bianco e nero fotografato da Gilbert Taylor, alle soluzioni visive ardite e macabre, oltre naturalmente alla magistrale interpretazione di una spaventosamente imbambolata Catherine Deneuve, dolce e agghiacciante insieme. Con quest’opera, vincitrice dell’Orso d’argento a Berlino 1965, Polanski dà il via alla sua perversa e malata indagine nei meandri della psiche umana, rappresentata dagli spazi angusti di squallidi appartamenti popolati da vicini di casa benpensanti e da anziane signore imbellettate e ficcanaso, troppo sorridenti e troppo truccate per non avere nessun sospetto su un budino preparato da loro. Rosemary lo sa bene.
Nella cartella ci sono due versione 720p, una Criterion e l’altra no. Differiscono di 5 minuti una dall’altra, quale è meglio? a voi l’ardua sentenza.
Se c’è chi pensa che il detto “si nasce rivoluzionari e si muore conservatori” valga per il Roman Polanski che “illustra” (come alcuni hanno scritto) “Oliver Twist” di Dickens non si illuda. Il regista di Rosemary’s Baby e di Il coltello nell’acqua ha conservato intatto il proprio sguardo attento agli angoli oscuri della società e della psiche. Uno sguardo mediato dall’esperienza di Il pianista e proprio da quel film di successo stimolato a rivisitare il proprio passato di bambino salvatosi dal ghetto di Cracovia con la madre uccisa ad Auschwitz. Lo fa per l’interposta persona di uno dei personaggi più famosi dell’universo dickensiano, quell’Oliver Twist che ha già costituito una fonte di ispirazione per il cinema. Polanski legge la vicenda narrata dal grande autore inglese immergendola in una miseria materiale e morale quasi palpabile. Osservate l’illuminazione del film: è dominata da un buio sporco, per nulla gotico ma carico invece delle scorie prodotte dall’abbrutimento dell’essere umano al contempo carnefice e vittima nel tragico incedere dell’industrializzazione forzata. La luce di una bella giornata di sole è un fatto quasi incidentale, secondario, non “normale”. Così al centro della storia sono sì le vicende dell’innocente orfanello costretto a far parte di una banda di ladri organizzati. Ma chi gli ruba il proscenio è Fagin nell’interpretazione magistrale che ne dà un irriconoscibile Ben Kingsley. È lui, padre e padrone della banda di ladruncoli, che detta i ritmi della vicenda con il suo corpo laido che percorre le stanze e le vie del degrado umano ricordando a tratti le caricature infami con cui i nazisti dileggiavano gli ebrei.
Fanciulla scompare da una villa sulla scogliera. Nel cercarla il suo innamorato scopre un passaggio segreto che porta a una città sottomarina abitata da esseri mostruosi guidati da un potente. Almeno per i fan del cinema fantastico i piccoli film di Tourneur sono chicche. Anche qui, specialmente nella 1ª parte, non mancano momenti di strana poesia. Più fiacca, anche per mancanza di mezzi, la parte subacquea.
Due giovani coniugi americani e un loro amico si recano nel Nord Africa. Partendo da Tangeri percorrono un lungo itinerario che li porta nei luoghi dove l’Africa è più ostile. Il viaggio rappresenta una vera e propria traversata della loro esistenza. Mette a nudo l’inconsistenza di una vita senza scopi. Il film è tratto da un romanzo di Paul Bowles, che compare nel ruolo di testimone della vicenda. Ed è proprio a lui che nel finale si rivolge alla donna. Il vecchio conclude con queste parole: “…Quante altre volte guarderete levarsi la luna?… Forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite…”.
Sembra soprattutto che i protagonisti, partendo da presupposti basati sulla decadenza della cultura occidentale, si trovino schiacciati dalla incomprensibilità di una regione che al contrario vive la propria cultura nella fisicità che la radiosa asprezza del clima impone. Un abisso. Un’utopia che l’arroganza culturale non riesce a raggiungere. La sconfitta giunge prima nel corpo per poi diffondersi nel mistero della morte. Bernardo Bertolucci ancora una volta si finge autore impegnato. Sceglie un testo di difficile decifrazione. Ricorre alla strepitosa capacità di rappresentare ciò che non è rappresentabile. Personaggi odiosi, da guardare con sospetto dopo le prime battute. Una ricerca maniacale di uno stile letterario più che cinematografico. Parole vane. Personaggi dimenticabili. Ogni sequenza sembra il trailer della successiva. Resta la fotografia di Storaro, anch’essa prevedibile con alcune incursioni nell’immaginario pubblicitario più vicino ai baci Perugina che non alle morenti pagine di Bowles. Bertolucci non ama i suoi personaggi e li priva così della segreta poesia che è presente in ogni confessione. Una fama, quella di Bertolucci, giustificata dalla sua capacità di manipolare grandi budget, al servizio di padroni un po’ snob, come sanno essere gli americani quando affrontano la cultura. Per ora è ancora e solo il regista de Il conformista.
Dal romanzo A Kestrel for a Knave di Barry Hines. In una città industriale del Nord un ragazzino vive con la madre e un fratellastro in un quartiere periferico. Catturato un falchetto, lo addestra dedicandogli intelligenza e amore, tutto ciò che non riesce a dare alla famiglia e alla scuola. “Ha un respiro narrativo molto più disteso delle opere precedenti; coglie nel vivo senza bisogno di una programmatica provocazione stilistica, con un’intensità malinconica e una purezza visiva di gran lunga superiori a quelle del successivo Family Life” (E. Martini). 1° premio a Karlovy Vary.
Protagonista è Brian Slade, scomparso in seguito a quello che avrebbe dovuto essere un finto delitto in scena. Haynes utilizza la struttura narrativa di Citizen Kane per rievocare la fine degli anni Sessanta, il glam rock e il kitch. Anche qui infatti un giornalista indaga sulla morte e sulla vita del misterioso cantante.
Un buon film e allo stesso tempo semplice. Tra ironia e tragedia Loach mostra una visione realistica della Gran Bretagna sotto la signora Thatcher attraverso la metafora di un cantiere edile. Il protagonista è Steve che, uscito di galera, va a lavorare a Londra. Gli altri operai lo accolgono bene e lo aiutano a trovare alloggio in una casa popolare. Conosce una ragazza. I problemi di cantiere sono molti: dalla mancanza di igiene all’assenza di sicurezza. Ci sono un arresto e un licenziamento entrambi ingiusti e quando un’impalcatura cede e muore un operaio, la vendetta sarà pesante. Ottima la colonna sonora di Stewart Copeland, autore già di Rusty il selvaggio di Coppola ed ex batterista dei Police
Ambientato in Marocco all’indomani della guerra 1914-18, contrappone Arabi e soldati della Legione Straniera, gli uni in difesa dei propri diritti, gli altri impegnati a osservare il loro codice d’onore. Un incidente di percorso nell’itinerario di Richards che ha voluto rivisitare il sottogenere della Legione Straniera. Poiché del film è anche produttore e soggettista, lo sbaglio è senza attenuanti.
Sheffield, Yorkshire del Sud, 1995. Un vecchio deposito delle ferrovie britanniche è privatizzato. Una squadra di navigators – operai addetti alla manutenzione – che lavorano insieme da anni è suddivisa tra varie società: cassa integrazione, flessibilità nei licenziamenti, lavoro precario, ferie non retribuite, incentivi salariali di produttività. La generosità, la coerenza, l’insistenza sulla tematica della classe lavoratrice di K. Loach sono ripetitive soltanto in apparenza. Come mostra anche il tragico epilogo, qui il tono è più dolente e amaro. Grazie alla rinuncia agli effetti più emotivamente coinvolgenti, lo spettatore è lasciato libero di trarre conclusioni e giudizi. Al sobrio servizio di una sceneggiatura competente e precisa (scritta da Rob Dawber, ex “navigatore”, morto di cancro prima della fine delle riprese), Loach racconta la fase conclusiva dello sfaldamento sociale operato dai governi conservatori e consolidato da quello del laburista Tony Blair.
Ottimo film di controinformazione storica con radici nel passato remoto: dal XIII sec. l’Irlanda fu la prima colonia inglese. Fallita l’insurrezione armata nel 1916, nel 1920 reparti mal armati dell’IRA (Irish Republican Army) appoggiati dal partito di Sinn Fein, cominciano azioni di guerriglia contro le truppe britanniche e i Black and Tans (polizia ausiliaria) che reagiscono con una feroce repressione sui civili. Il 6-12-1921, grazie a Michael Collins, si firma un trattato che concede l’indipendenza e una sovranità limitata per 26 delle 32 contee dell’isola. Scritto da Paul Laverty, da 10 anni collaboratore di Loach, il racconto affronta la spaccatura tra riformisti e rivoluzionari (nel film: utopisti e realisti) che si condensa nel conflitto letale tra i fratelli Damien e Teddy O’Donovan. Evidenti sono le qualità che gli valsero la Palma d’oro a Cannes. Come in ogni opera valida del passato, ha palesi agganci col presente. Coniuga l’energia del cinema d’azione con l’approfondimento psicologico dei personaggi. Tutti bravi gli attori con Murphy/Damien primus inter pares . Restituisce l’aria del tempo (costumi di Eimer Ni Mhaoldomhnaigh) e riassume con efficacia l’intricato retroterra sociopolitico. Sposa l’emozione con la lucidità, il pessimismo con la volontà di lotta. Infine ha una qualità rara, una dimensione drammatica: nella 2ª parte diventa una tragedia moderna in cui la storia sostituisce il fato. Tra i due fratelli chi è Abele e chi Caino? Entrambi sono l’uno e l’altro. Loach e Laverty lasciano libero lo spettatore di scegliere e di schierarsi, se ci riesce. Titolo preso dal poeta irlandese Robert Dwyer Joyce.
Dal romanzo di Christopher Landon. Cirenaica 1942: un’ambulanza britannica con tre uomini e due ausiliarie cerca di raggiungere Alessandria d’Egitto tra campi di mine, pattuglie tedesche, sabbie mobili. Uno dei tre è una spia. I pezzi di bravura a suspense non mancano, con qualche eco di Vite vendute di Clouzot. Film robusto, ben ritmato, ma superficiale. Tra gli interpreti spicca A. Quayle. Intitolato anche Pattuglia disperata.
Da una pièce del cileno Ariel Dorfman. In un paese latinoamericano da poco tornato alla democrazia, 15 anni dopo essere stata seviziata e torturata dalla polizia segreta, Paulina Escobar (Weaver) crede di riconoscere in un medico (Kingsley) uno dei torturatori. Lo cattura, lo immobilizza, lo processa, affidandone la difesa al proprio perplesso marito avvocato (Wilson). Epilogo amaro in una sala da concerto dove il Quartetto Amadeus esegue il Quartetto n. 14 in re minore di Schubert ( La morte e la fanciulla ). Film a suspense in chiave di ambiguità, con due modifiche rispetto al testo teatrale. Oltre ai motivi politici di fondo, sono presenti temi cari a Polanski: l’interscambiabilità dei ruoli tra vittima e carnefice, la dialettica tra disperazione e speranza, la relazione tra forza e vulnerabilità (Paulina), il passaggio tra amore, sesso e odio, la nozione di un destino immodificabile. Cinema da camera a porte chiuse con due brevi escursioni all’aperto: il mare e l’acqua sono figure ricorrenti nei film di Polanski. Avete sentito parlare della banalità del male?
Un extraterrestre scende sulla Terra con l’intenzione di sfruttare le sue conoscenze scientifiche più evolute per approntare le misure necessarie a salvare dalla siccità il suo pianeta morente. Assunte sembianze umane e il nome di Thomas Jerome Newton, l’alieno fonda ben presto un impero finanziario rivoluzionando il mondo delle comunicazioni ed avviando la costruzione di un’astronave per trasportare acqua alla sua gente. Mary-Lou, donna con la quale ha stretto amicizia, scopre la vera identità di Newton e il professor Bryce, venutone a conoscenza, lo denuncia alle autorità. I beni di Newton vengono sequestrati e incamerati dallo Stato e Newton stesso è fatto oggetto di studio da parte degli scienziati governativi. Rapito, torturato, umiliato, e infine svuotato di ogni volontà, l’alieno diventa sempre più simile all’uomo: abbrutito dall’alcol e in completa solitudine, continua a vegetare tra gli uomini tormentato dalla visione della sua famiglia, della sua gente e del suo pianeta morenti. Ispirandosi liberamente al romanzo di Walter Tevis, Nicolas Roeg realizza un’opera drammatica e visionaria, pregevole per ricchezza formale e coinvolgente. Più interessato al contenuto della vicenda che non ai possibili risvolti avventurosi, Roeg concentra la sua attenzione sul protagonista. Attraverso un sapiente mosaico di inquadrature che confondono i confini spazio-temporali, il regista conduce lo spettatore a sostenere emozionalmente la tragica esperienza dell’extraterrestre che in un processo di degradazione psicologica e fisica è forzato a farsi uomo per abbandonare la sua (inquietante per gli uomini) diversità. Una storia simbolica, che sacrifica in più di un momento la struttura logica, per far risaltare la bassezza delle passioni umane, dall’odio all’invidia, l’istinto aggressivo e la paura del perturbante.David Bowie nel ruolo dell’alieno/Newton fornisce la sua interpretazione migliore e più convincente.Il soggetto ricorda nelle linee essenziali quello di un trascurato film del 1951, The Man from Planet X. Rifatto per la televisione nel 1987 (S.O.S. Terra, titolo italiano per The Man Who Fell to Earth).
Nella città costiera di Greenock, in una delle zone più depresse della Scozia (specialmente dopo il decennio neoliberista di Mrs. Thatcher), il quindicenne Liam passa dal commercio delle sigarette allo spaccio di eroina per procurarsi la somma necessaria a trovare una casa confortevole per sua madre tossicodipendente, che di lì a poche settimane uscirà dal carcere in coincidenza col suo sedicesimo compleanno. Titolo sarcastico per il 4° film di Loach scritto da Paul Laverty e il 2° di ambiente scozzese dopo My Name Is Joe . Pur condizionando vicenda e personaggi, la dimensione sociopolitica rimane sullo sfondo. Lascia in primo piano quella tragica del rapporto edipico di Liam con sua madre Jean, indegna del suo amore forsennato al quale sacrifica l’amicizia del coetaneo Pinball e l’affetto della sorella Chantelle, dedita a fermare la sua carica autodistruttiva. C’è una sorta di determinismo che può frenare l’adesione a questo film ammirevole per forza ellittica di racconto, scavo psicologico e sapiente direzione degli interpreti, tutti non professionisti tranne McCormack che fa Stan, il boy-friend della madre. Spicca il Liam del 17enne Compston, calciatore in una squadra scozzese di seconda divisione, di straordinaria intensità. Edizione originale nella parlata locale con sottotitoli inglesi. Il divieto ai minori di 18 anni ha suscitato in Gran Bretagna dure polemiche. Premiato a Cannes per la sceneggiatura.
Casim e Roisin s’innamorano. Lui è un pakistano musulmano di seconda generazione e fa il DJ in un night-club di Glasgow; lei è scozzese, cattolica e fa l’insegnante. Lui le nasconde di essere ufficialmente fidanzato con la cugina Jasmine che non ha mai visto e che sta per arrivare dal Pakistan. Sa anche che i suoi genitori non accetterebbero mai una goree , una bianca, come nuora. La legislazione britannica è dalla loro parte, ma il peso delle tradizioni familiari, religiose, culturali, li condiziona e li schiaccia. È probabilmente il film più gentile, sicuramente il più romantico di K. Loach. Tutto si può discutere nella sceneggiatura di Paul Laverty, ma non la sua onestà, lo scrupolo con cui si è documentato nella descrizione dell’ambiente pakistano di Glasgow, cercando di evitare ogni manicheismo e di far emergere le ragioni di ciascun personaggio senza trascurare nemmeno l’impatto che l’attentato dell’11 settembre 2001 ha provocato nelle situazioni interrazziali e interculturali come quella del film. Il titolo è preso da un song del poeta scozzese Robert Burns (1759-96). Dei due interpreti principali A. Yaqub è un esordiente, mentre E. Birthistle è un’attrice irlandese. Il film è dedicato alla memoria dello scenografo Martin Johnson, per 30 anni collaboratore di Loach.
Della personalità di Peter Sellers si è sempre avuto una percezione complessa che, in qualche misura, non sembrava corrispondere all’immagine pubblica. Questo film, come tutti i biopic, tende a scavare proprio negli aspetti nascosti del personaggio offrendoci così il ritratto di un uomo frustrato dalla presenza incombente di una madre incapace di accettare che il figlio si separi da lei. Il film segue le tappe della carriera dell’attore prendendo le mosse dal suo passaggio dai successi radiofonici ai primi rifiuti da parte del mondo del cinema. Lo fa inanellando una colonna sonora di pregio e una serie di episodi che vanno dall’aneddoto al gossip. Geoffrey Rush offre al suo personaggio una notevole abilità mimetica nobilitando così un genere che, per definizione, ha l’indiscutibile tara di guardare spesso il mondo dal buco della serratura.
Una commedia romantica deliziosamente inglese. Nella verde, ridente e tranquilla Cornovaglia, una dolce signora si trova a dover affrontare debiti e misfatti del defunto marito. Senza farsi prendere dallo sconforto e senza dimenticare la sua gentilezza tutta di provincia, trova il modo di far fruttare il proprio pollice verde: dagli innesti di orchidee passa alla coltivazione intensiva di marjuana. Il film è vivace e divertente, tra vecchine che sorseggiano thè “stupefacenti” e criminali improvvisati che mal si destreggiano negli affari di spaccio. Brenda Blethyn ( Segreti e bugie) nel ruolo di Grace regala una dolcezza ingenua affascinante, Tcheky Karyo (Jacques) torna a indossare i panni del cattivo fascinoso già visto in Nikita e Doberman. Nel finale il film eccede un po’ nel romanticismo, e culmina in un delirio collettivo decisamente hippy.
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