Nel 1659 uno spettacolo teatrale rievoca quel che è accaduto a Mâcon, vicino a Lione: un’anziana donna partorisce un bambino che la sorella, vergine 18enne, dichiara suo, facendone un oggetto di culto redditizio. Poi lo uccide. Viene violentata a morte da 208 soldati. Il cadaverino del bambino è fatto a pezzi dalla folla. Gli attori ringraziano, il pubblico applaude. Definito una messa nera lunga 2 ore, è il film più blasfemo, violento e provocatorio di Greenaway che contamina il masque barocco con le moderne esperienze teatrali di A. Artaud e P. Brook. Per la 1ª volta Greenaway mette il suo cinema baroccheggiante e grandguignolesco al servizio di una tesi, una denuncia contro ogni forma di sfruttamento e di finzione dove i principali bersagli sono la Chiesa della Controriforma e la Famiglia. Il forte impianto teatrale soffoca il suo gusto per la manipolazione elettronica dell’immagine.
Un altro film dell’accoppiata Russell-Jackson. Si tratta di una storia molto vicina a Donne in amore e si può considerare come il prologo di quel capolavoro. Una giovane ragazza inglese è divisa tra un professore e un soldato.
40 anni dopo la canzone di David Bowie “Space Oddity” – che raccontava le peripezie di un astronauta intristito – suo figlio esordisce nella regia con un film di SF intimista a basso costo, scritto da Nathan Parker e imperniato sul tecnico Sam Bell che, da 3 anni solo su una base lunare, lavora per la multinazionale Lunar Industries per spedire ogni giorno capsule di Elio 3, energia solare più pulita di quella terrestre. Lo aiuta Gertie, robot parlante: lo consiglia, lo tiene in contatto video con moglie (che forse sta per lasciarlo) e figlia, gli serve cioccolata calda, lo rade. 2 settimane prima del rientro gli capita un incidente in jeep e scopre l’esistenza di un replicante, un altro Sam Bell. In attesa della squadra di salvataggio, i due cercano di superare la reciproca crisi d’identità. Prodotto da Trudie Styler, moglie di Sting, fotografato da Gary Show, musicato da Clint Mansell, è un film artigianale all’antica (senza computer-graphic ): una SF da camera, con un suo semplice spessore originale anche nella spettrale parte finale da incubo e delicate sfumature sui temi della solitudine e del valore della memoria. Rockwell se la cava bene nella doppia parte.
Mahmud Nasir è un musulmano che vive a Londra con la moglie e i due figli. Pur essendo intimamente devoto non è un praticante impeccabile, cede ai piaceri dell’alcool, a un linguaggio colorito e salta buona parte delle preghiere obbligatorie ma, in previsione del matrimonio del figlio più grande con la figliastra di un leader integralista, si prepara a dimostrarsi un vero musulmano, per ottenere la benedizione del futuro consuocero e far felice la sua famiglia. Peccato però che, proprio negli stessi giorni, Mahmud scopra per caso di essere stato adottato e, soprattutto, di essere nato ebreo, sotto il nome di Solly Shimshillewitz.
Dal racconto Sir Tristam Goes West di Eric Keown. Un miliardario americano acquista un castello scozzese, lo smonta pietra su pietra e lo fa trasportare negli Stati Uniti. Con il castello si trasferisce anche un fantasma, condannato dalla maledizione del padre perché era morto in battaglia da codardo. Per ottenere l’eterno riposo ha bisogno di riscattarsi. 1° film in inglese del francese Clair, è anche il suo 1° film in cui il dialogo _ scritto insieme con il commediografo Robert Sherwood _ ha un posto importante, rallentandone il ritmo. Ottenne il Gran Premio del Film Britannico. Ottimo Donat.
Da un dramma di Lucille Fletcher: per vendicarsi del piano criminale con cui il secondo marito e la sua amante tentano di farla credere pazza, li ammazza entrambi. La Taylor vinse con quest’interpretazione il premio della peggior attrice dell’anno. Anche quella di spaventare è un’arte. Il regista Hutton non la possiede.AUTORE LETTERARIO: Lucille Fletcher
Durante la metà degli anni 1980, Howard Marks aveva quarantatré anni alias, ottantanove linee telefoniche, e 25 compagnie commerciali in tutto il mondo. Bar, studi di registrazione, banche offshore: erano stati tutti veicoli per il riciclaggio di denaro che serviva alla sua attività principale: lo spaccio di droga. Marks ha cominciato a spacciare durante il corso di filosofia post-laurea a Oxford e ben presto cominciò a spostare grandi quantità di hashish in Europa e in America nelle attrezzature delle bande rock in tour. La vita accademica ha cominciato a perdere il suo fascino.
Con affetto: così Mike Leigh ha scritto e girato Tutto o niente (All or Nothing. L’affetto, tuttavia, non l’ha indotto ad attenuare le molte durezze e le molte miserie che intristiscono le vite di Phil (Timothy Spall) e di Penny (Lesley Manville), dei loro figli Rachel (Allison Garland) e Rory (James Corden), e degli altri che condividono la loro povertà materiale e la loro desolazione. Nessun pregiudizio si frappone fra il suo occhio e i suoi personaggi: il suo cinema non paga il prezzo, sempre esoso, dell’impegno sociale immediato. Certo lo si sente sullo sfondo, quell’impegno. Se ne avvertono la sincerità e la rabbia. Mai però lo si sorprende a sovrapporsi al racconto, alla sua autonomia espressiva e poetica. È doloroso “entrare” nelle immagini di Tutto o niente, nei suoi dialoghi crudelmente umani, troppo umani. Quello che Leigh descrive è (sembra) un paesaggio devastato, un territorio svuotato d’ogni possibilità. Nelle inquadrature d’inizio questo (apparente) deserto morale e affettivo è raccontato per cenni, con riferimenti a personaggi e a situazioni che tornano nell’indifferenza della circolarità narrativa, e di cui non si colgono i legami reciproci.
L’ispettore Bellaver (Alfred Marks) indaga su una serie di strani delitti e, dopo un lungo inseguimento in auto, riesce a catturare l’omicida. Ammanettato all’auto, l’assassino si libera tranciandosi di netto una mano. Poi fugge dal misterioso dottor Browning (Vincent Price) e finisce nell’acido autodistruggendosi. Nel frattempo un oscuro complotto politico si sta organizzando in un’altra nazione sotto la guida di Konratz (Marshall Jones), che non esita a uccidere il maggiore Benedek (Peter Cushing). Browning sta cercando di costruire un essere superumano con parti di esseri viventi e l’omicida era il risultato di un esperimento. Entra in scena Fremont (Christopher Lee), capo dell’Intelligence britannica e decisamente ambiguo. Thriler horror fantascientifico di grandi ambizioni, è diretto con concitazione e ricercatezza da un Gordon Hessler all’apice delle possibilità e con una grande voglia di innovare l’ingessato mondo dell’horror britannico che stava attraversando una fase stagnante (Michael Reeves escluso). La trama, basata su un romanzo di Peter Saxon, è fortemente caratterizzata dallo stile funambolico e criptico dello sceneggiatore Christopher Wicking, che gioca con vari generi facendone un mélange ardito, dalla struttura complessa e talvolta un po’ confusa. L’intelligente messa in scena non nasconde qualche banalità e nell’insieme il film resta in parte irrisolto. Un elemento di interesse è la riunione di tre grandi dell’horror, ma quello di Cushing è un brevissimo cameo, mentre Price e Lee vanno con il pilota automatico. Film bizzarro, i cui elementi singoli valgono più dell’insieme.
Faust (in ceco: Lekce Faust, lett. “Lezione Faust”) è un film del 1994 diretto e scritto da Jan Švankmajer. Una coproduzione internazionale tra Repubblica Ceca, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Germania, il film fonde immagini dal vivo con animazione stop-motion, tra cui burattini e claymation.
Questa versione del Faust (il racconto popolare tedesco divenuto celebre nell’opera omonima di Goethe) è sviluppato in chiave moderna e surrealista (corrente a cui Švankmajer dichiaramente aderisce) risulta sublime nella sua realizzazione. Sfruttando le tecniche della stop-motion e della clay-motion, ed alternandole a riprese ordinarie in 4:3, il regista e sceneggiatore ceco costruisce una narrazione non lineare in cui si racconta, in chiave moderna e con le dovute variazioni sul tema, la storia di un Doktor Faust dei giorni nostri, ossessionato da una conoscenza che non sa più spingere oltre, e che arriva ad un patto con Mefistofele per tentare di soddisfare.
Anche questa versione inglese, più recente, è il rifacimento del racconto di Agatha Christie, con qualche leggera differenza: le persone convocate dal misterioso giustiziere sono rinchiuse in un castello raggiungibile soltanto con una funivia che malauguratamente si rompe dopo che l’ultima vittima è entrata nel castello.
Il dottor Tremayne (Donald Pleasence), direttore di una clinica psichiatrica, racconta al professor Nicholas (Jack Hawkins) quanto è accaduto a quattro suoi pazienti sostenendo che sono stati erroneamente giudicati malati di mente. Il ragazzo che gioca con una tigre inesistente che pure avrebbe sbranato i genitori, l’antiquario che ha fatto un viaggio nel tempo, l’uxoricida innamorato di un tronco d’albero a suo dire dotato di spirito umano e la signora convinta che sua figlia sia stata data in pasto ai suoi commensali per celebrare un rito sacrificale, non sono – a giudizio di Tremayne – pazzi furiosi, ma persone normalissime che hanno visto materializzarsi una dimensione parallela.Lo scettico professor Nicholas, dubitando della lucidità del collega, lo psicanalizza, ma improvvisamente è assalito e sbranato dalla tigre “immaginaria”. Dopo Le cinque chiavi del terrore e Il giardino delle torture, la Amicus torna ad affidare a Freddie Francis una nuova storia “ad episodi”. Delle quattro vicende, la terza attinge ai temi della fantascienza: ne è protagonista Peter McEnery che nei panni dell’antiquario Timothy Patrick, inforca un impolverato velocipede e fa un salto nell’età vittoriana… L’uomo incontra in un’altra donna (Suzy Kendall) la propria moglie e, paradossalmente, in sé stesso il defunto zio Albert (Frank Forsyth) il ritratto del quale, nel frattempo, riprende diabolicamente vita.A parte l’elemento di curiosità costituito dall’episodio citato, il film va segnalato per la presenza di un cast di rilievo.Kim Novak, protagonista della quarta storia, subentrò a Rita Hayworth quando quest’ultima, all’ultimo momento, decise di abbandonare il set a causa di una forte influenza.
Chi ama l’umorismo di situazione di Tati e la comicità impassibile di Keaton, non perda questo film del palestinese Suleiman. Dai racconti del padre e dalle lettere della madre l’autore ha allineato 4 episodi familiari, situati a Nazareth nel 1948, nel 1970, nel 1980 e a Ramallah oggi. Ha un sottotitolo: Arab-Israelis , il termine ufficiale con cui gli israeliani indicano i palestinesi rimasti sulla loro terra. Tolto l’episodio del ’48, esplicitamente realistico e antisraeliano, è una commedia dove la violenza non è quasi mai esibita, ma una presenza costante con una catena di gag che spesso trovano nella ripetizione la fonte della loro buffoneria. È il ritorno di Suleiman, dopo anni di esilio, nella parte di sé stesso che continua a tacere perché, spiega da regista, il silenzio è molto cinegenico, un’arma di resistenza che destabilizza e fa impazzire i potenti.
Alice è una bambina che immagina di lanciare sassi sulla riva di un fiume ma che, in realtà, vive in vecchio condominio circondata da bambole decrepite, cianfrusaglie scrostate ed animali imbalsamati. Quando un coniglio impagliato, all’improvviso, si anima fuggendo dalla teca di vetro nella quale era rinchiuso, Alice lo insegue a perdifiato, non esitando ad infilarsi all’interno del cassetto di una scrivania pur di raggiungerlo. Comincia così quest’opera monumentale del maestro Jan Svankmajer, forse l’ultimo vero surrealista ancora vivente in Europa, purtroppo ancora troppo poco conosciuto dal grande pubblico.
Un ragazzo viene abbandonato da un padre violento e insensibile, mentre la madre si suicida: con lui resterà solo un pupazzo di neve, inquietante presagio di orrore e infelicità. Un poliziotto della Omicidi, celebre per i casi impossibili risolti con successo, riceve un messaggio scritto da un certo “uomo di neve”, che ha tutta l’aria di una minaccia incombente. Capita spesso che le aspettative createsi attorno a un film siano tali da generare una delusione a visione avvenuta. Tuttavia accade assai di rado che la sproporzione tra attese e risultato raggiunga i livelli di L’uomo di neve di Tomas Alfredson.
Sulla carta la trasposizione dal best seller di Jo Nesbo sembrava avere tutto: un cast eccellente, tanto nei protagonisti che nei comprimari; un regista dal curriculum immacolato; un’ambientazione suggestiva. Nei fatti bastano pochi frame di un incipit destabilizzante per lasciar intendere che qualcosa non è andato per il verso giusto.
La macchina da presa sembra da subito incerta, priva di una guida salda: i molti primi piani e il montaggio enfatico sembrano suggerire una scelta stilistica, ma la qualità delle scene successive, come l’auto vista da dietro, lanciata a rotta di collo sul ghiaccio, o la morte della matrigna, desta sgomento. Uno sconforto che diviene certezza, man mano che la storia si dipana. Le difficoltà e i ripensamenti che hanno caratterizzato L’uomo di neve – la direzione in un primo momento era affidata a Martin Scorsese, poi a Morten Tyldum, prima di arrivare, diniego dopo diniego, ad Alfredson – emergono con la chiarezza cristallina di una sceneggiatura riscritta troppe volte, forse transitata da troppe mani. Alfredson, irriconoscibile, si adagia ben presto su una routine da mystery convenzionale, che abbandona il “come” per dedicarsi esclusivamente al “cosa”: a tenere desto l’interesse del giallista interiore, che alberga in ognuno di noi, rimane solo l’identità dell’assassino. Ma anche questa è intuibile con poco sforzo già a metà film: il profilo psicologico e le fattezze dell’assassino lasciano infatti pochi dubbi in merito, complice qualche inquadratura di troppo del killer di spalle.
Ci sono tutti, i personaggi principali del romanzo di Collodi, nel Pinocchio di Matteo Garrone: Geppetto e il suo burattino di legno, Lucignolo, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, fino all’Omino di burro, il Tonno e la Balena. Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell’originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile.
C’è una cura devota nella ricerca delle facce giuste, negli scenari che chiunque abbia letto Pinocchio ha immaginato, nei dettagli dei costumi, del trucco (impressionante il legno con cui è costruito il bambino), degli effetti speciali artigianali, come lo erano stati ne Il racconto dei racconti, e utilizzati con grande parsimonia, ovvero solo quando narrativamente necessari.
In questa cura c’è tutto l’amore e la reverenza che Garrone ha verso il testo di Collodi, il suo perfetto equilibrio nel dosaggio degli elementi narrativi e nella caratterizzazione di personaggi che sono diventati archetipi, verso quell’ingranaggio drammaturgico che vede il percorso di iniziazione alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino (e dunque un uomo) vero dipanarsi per corsi, ricorsi e inciampi, sempre due passi avanti e uno indietro, con un andamento ad elastico sempre pronto a ritornare bruscamente al punto di partenza, proprio quando sembrava così vicino al salto evolutivo.
Gli interpreti son perfetti: Benigni trattenuto e straziante (come già il Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), il piccolo Federico Ielapi minuto ma tosto, sempre in equilibrio fra intraprendenza e desiderio di appartenere, disobbedienza e lealtà.
E poi Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, nati per diventare la Volpe e il Gatto, Gigi Proietti credibilissimo come il burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile, le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna; il grillo parlante Davide Marotta. Standing ovation per Maria Pia Timo (la Lumaca), Enzo Vetrano (il Maestro) e Nino Scardina (L’Omino di burro).
Da 3 fiabe ( La cerva fatata , Lo polece , La vecchia scortecata ) di Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (1575-1632) trasposte a intreccio e con sostanziali modifiche dai 4 sceneggiatori, tra cui Garrone stesso. Divenuta madre in seguito a una gravidanza magica, una regina è turbata dal rapporto del suo unico figlio col figlio di una serva, suo sosia. Un re deve dare la figlia in sposa a un orco perché è l’unico che riesce a superare la prova creata per ottenere la mano della principessa. Una vecchia, scambiata dal suo re per una giovane, accetta di passare la notte con lui, purché al buio; scoperta e gettata da una torre, si salva e diventa una meravigliosa fanciulla. Nella sua rivisitazione delle fiabe barocche di Basile, Garrone ne ha accentuato i toni grotteschi e truculenti ma anche il carattere di apologhi sulla tracotanza dei potenti. Esercizio di stile di altissimo livello, certo, ma fine a sé stesso e, alla fine, lungo e noioso. Se nei film precedenti Garrone aveva sfiorato il formalismo, questa volta lo ha abbracciato. Fotografia incantevole di Peter Suschitzky, splendide scenografie di Dimitri Capuani, costumi fiabeschi di Massimo Cantini Parrini, musiche suggestive di Alexandre Desplat.
Sotto il titolo originale (“una zeta e due zeri”, crittogramma dai molti significati) c’è una storia – si fa per dire – con Alba che perde una gamba e un figlio in uno scontro in auto con un cigno, incidente in cui muoiono le mogli di due gemelli (già siamesi) etologi, Oswald e Osmund Deuce (i due O, zeri, del titolo inglese) che lavorano nello zoo di Rotterdam. I due diventano prima amanti di Alba, poi “padre” dei suoi nascituri e, infine, suicidi dopo che la donna, amputata anche all’altra gamba, trova l’anima gemella nel signor Arcobaleno, monco in carrozzella. 3° lungometraggio di finzione di Greenaway, secondo il quale “il cinema è troppo importante per lasciarlo fare ai narratori di storie”. Cerebrale sino all’esasperazione e perverso, è basato sul rapporto uomo-animale, sul corpo dei personaggi (sempre a figura intera senza piani ravvicinati) e sulla pittura (Vermeer soprattutto e i fiamminghi del ‘400 come Robert Campin e Jan Van Eyck). Fotografia: Sacha Vierny. Da vedere nell’edizione originale: la traduzione fa svaporare i frequenti giochi linguistici.
Per organizzare una mostra in onore del francese Etienne-Louis Boullée (1728-99), architetto cinquantenne di Chicago soggiorna a Roma per nove mesi: gli va a monte il matrimonio, falliscono le sue ambizioni professionali, va incontro a una tragica morte. 4° film del cineasta britannico più eterodosso e sperimentale degli anni ’80: il più semplice, sanguigno, viscerale dei suoi film, in cui sa coniugare concretezza visiva e astrattezza narrativa sullo sfondo di una Roma come al cinema non s’era mai vista. Una certa artificiosità di fondo riscattata dallo stile, dal graffiante sarcasmo, dalla corposità recitativa di Dennehy, truculento alla Welles.
Durante una sosta in un pianeta sconosciuto un essere s’introduce nella Nostromo , gigantesca astronave da carico, e semina terrore e morte tra i sette membri dell’equipaggio. Sopravvive soltanto la coraggiosa Ripley. È un thriller fantascientifico con componenti di horror e suspense che conta poco per quel che dice, ma che lo dice benissimo, grazie a un apparato scenografico di grande suggestione e a un ritmo narrativo infallibile. La sua chiave tematica è la paura dell’ignoto, perciò pesca nel profondo. Oscar per gli effetti visivi a Carlo Rambaldi, H.R. Giger, Brian Johnson e Nick Allder. Da novembre 2003 è in circolazione una nuova edizione rimasterizzata in digitale curata da R. Scott. Colonna musicale di J. Goldsmith.
L’ordine di visione è come li ho segnati nella cartella Mega.
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