Un giovane fugge da un manicomio e sequestra in un casolare due donne parigine, madre e figlia. Figlio di Georges Simenon (l’autore di Maigret), Marc ha dipinto con acume, in questo “giallo sociologico”, la realtà provinciale e gretta di una cittadina francese.
René Clair si accosta al mito di Faust facendosi riscrivere la storia del commediografo Armand Salacrou. La principale novità è nello scambio delle sembianze fra il vecchio scienziato che fa il patto con il diavolo e il diavolo stesso (Michel Simon impersona Faust prima della cura e, dopo, un furfantesco e gibboso Mefistofele, mentre Gérard Philipe è all’inizio un aitante e spiritoso Maligno e poi lo stupefatto Faust giovinetto). Vediamo Faust, dopo il patto col diavolo, ridiventare giovane, conquistare Margherita, la potenza e la ricchezza. Ma la potenza genera morte e corruzione, Faust vuole abbandonare tutto e Mefistofele lo accontenta. Ma il paese va in rovina e la folla (che incolpa Faust) lo identifica con Mefistofele e così lincia lo sfortunato demonio. Film ambizioso, anche se un tantino retorico specie nel messaggio finale.
Un cantante di strada arrestato per sbaglio fa a pugni con il suo migliore amico che gli ha rubato la donna; poi, vedendo ch’ella lo ama, gliela lascia. Sequenze celebri: la carrellata iniziale, la gazzarra notturna. È il 1° film sonoro di R. Clair, ancora intriso dell’aria del cinema muto, con pochi dialoghi spesso sostituiti da canzoni o cori. Deliziosa storia d’amore e amicizia ambientata in una Parigi da cartolina, tutta ricostruita. Primo esempio di cinema populista poetico: l’umorismo crudele degli anni ’20 diventa tenero. In un primo tempo ebbe più successo a Berlino che a Parigi. Nemo propheta in patria . Tra gli aiutoregisti figurano G. Lacombe e M. Carné.
La banda musicale della polizia di Alessandria d’Egitto viene invitata a suonare all’inaugurazione del centro culturale arabo di una cittadina israeliana. All’aeroporto di Tel Aviv non c’è nessuno ad attendere il gruppo di musicisti, così il pragmatico direttore d’orchestra e colonnello Tewfiq decide di raggiungere il luogo con un autobus locale. Arrivato nella remota e desertica cittadina (una sorta di Las Vegas spoglia di luci scintillanti, giochi e schiamazzi) capisce che, per un difetto di pronuncia, ha sbagliato destinazione. Non si trova nella moderna Petah Tikva, bensì nell’arida Bet Hatikva. Poiché non c’è modo di andarsene da lì (c’è una sola corriera che passa una volta al giorno) gli otto egiziani sono costretti ad accettare l’ospitalità di Dina, la bella proprietaria dell’unico ristorante del posto. Al suo esordio in lungo l’israeliano Eran Kolirin realizza una piccola opera cinematografica, densa di valore, trovando il modo per fotografare e raccontare il suo paese con umorismo, sentimento e nostalgia, utilizzando un linguaggio (e lanciando un messaggio) universale. La banda è una brillante commedia dal retrogusto amaro che parla innanzitutto dell’essere umano. Le inamidate uniformi azzurre della banda celano i disagi esistenziali dei componenti. L’unica voce fuori dal coro è quella di Haled, dongiovanni nell’anima che seduce le fanciulle sussurrando i versi romantici di Chet Baker. La musica fa da collante tra lo sgangherato gruppo in terra straniera e i loro ospiti. È una canzone jazz israeliana che Dina sceglie per trasmettere a Tewfiq – il suo personale Omar Sharif – il desiderio di dirgli “tante cose”. È la danza delle mani del colonnello, che muove sinuosamente nell’aria per mostrare alla locandiera come si dirige un’orchestra, a creare un momento d’intesa tra l’uomo e la donna. E, infine, intorno alla tavola apparecchiata a festa, nel silenzio imbarazzante e un tantino ostile, basta intonare un’approssimativa “Summertime” per comunicare e azzerare la distanza di due paesi avversi. Al di là delle divergenze culturali e delle barriere linguistiche c’è la musica, ma c’è anche l’amore. Quello agognato da una giovane che vede la sua vita come un (melodrammatico) film arabo, quello perduto a causa del proprio rigore, quello cercato tra le braccia di uno sconosciuto. Il finale de La banda è preannunciato da una frase di Itzik. È “come un concerto che finisce di colpo, né triste, né allegro”. Un concerto, aggiungiamo noi, da godere fino all’ultima nota.
È, nella struttura di un puzzle, un ballo di ladri, un girotondo di destini in cui volteggiano i sentimenti e gli oggetti, rubati e rivenduti, che buone o cattive azioni fanno passare di mano in mano. E una folla di personaggi: mercanti d’armi, bionde ricche d’energia e di amanti, scassinatori romantici, battone dal cuore d’argento, anarchici della terza età, un barbone filosofo, un genio della meccanica, camerieri, manicure, bambini, poliziotte. E un ritratto di una dama dell’Ottocento che diventa a rasoiate sempre più piccolo. 1° film occidentale di un regista georgiano, anarchico sorridente che ha il genio di un’insopportabile leggerezza.
Israele. Zaza, ebreo di origine georgiana, ha 32 anni e non è ancora sposato. Questo è un problema per la sua famiglia che vorrebbe per lui una fanciulla vergine, di buona famiglia e ricca. I suoi genitori non smettono di proporgli ragazze da marito ma l’uomo trova sempre una scusa per sottrarsi. Perché lui una compagna ce l’ha già: Judith, divorziata e con una figlia di sei anni. Ma il momento della scelta non può essere ulteriormente procrastinato. Opera prima di un regista anche lui ‘scapolo’ e che ne ammette la ‘semiautobiografia’ Matrimonio tardivo è una commedia che rischia di apparire ‘già vista’ dopo Jalla!Jalla! o Sognando Beckham. Il problema nasce da una distribuzione che si è accorta solo nel gennaio 2003 di un film presentato a Cannes 2001. Il film si segnala per la più lunga e più giocosa scena di sesso vista al cinema che nella copia italiana sembra più corta dell’originale.
Nel corso dei secoli Israele ebbe una serie di uomini dalla forte personalità, capaci di ricondurre il proprio popolo lontano dai culti idolatrici nei quali ricadevano continuamente. Il più noto è senza dubbio Sansone, uomo dalla forza leggendaria che fu tradito dalla moglie Dalila. Sansone le aveva rivelato che il segreto della sua potenza risiedeva nella folta capigliatura. Dalila tagliò le sue sette trecce, rendendolo inerme e facendolo imprigionare e accecare. Legato alle colonne del tempio, durante una festa idolatrica, Sansone pregò Dio di restituirgli l’antico potere e “uno solo dei suoi due occhi” per castigare e avere vendetta sui Filistei. Ripercorrendo le gesta di uno dei “giudici” di Israele, morto suicida uccidendo i Filistei, il documentarista Avi Mograbi riflette sulla cultura della morte nell’Islam, assimilabile e per nulla estranea a quella dei miti ebraici. Storia, mito e attualità si intrecciano e si fondono sullo sfondo della realtà palestinese, occupata e bloccata ai check-point dall’esercito israeliano. Il dramma palestinese è una realtà innegabile per il documentarista israeliano, che al suo debutto in lungo (ma lo aveva fatto anche “in corto”) affronta la crisi tra Israele e Palestina, rilegge in modo critico il mito di Sansone e di Massada e prova ad aprire una breccia nel muro segregazionista che si sta erigendo.
L’articolazione narrativa, ovvero la modalità prescelta di esporre il racconto dei testimoni (israeliani e palestinesi), non ha in apparenza un disegno cronologico né tematico, somiglia piuttosto a un flusso che amplifica l’impatto emotivo sullo spettatore. Pur dichiarando una posizione critica verso la politica dello Stato d’Israele, che si trasforma nell’epilogo in un atteggiamento addirittura e giustamente sprezzante, lo sguardo di Mograbi contempla con rispetto gli israeliani che incontra nelle scuole o nelle gite culturali e i palestinesi che cercano di arare le terre occupate o di raggiungere l’ospedale o il posto di lavoro. Il benessere di un popolo coincide con la condanna di un altro, la costruzione di uno Stato con la distruzione di un altro e ciascuno si adegua a questo stato di cose con un dolore di vivere straziante. Non ci sono aperture fra loro, che si muovono come monadi in una realtà priva di compromessi. Ciascuno nella sua via, solo, alla ricerca di un senso al caos in cui si è perduto. Il documentario di Avi Mograbi riflette al telefono (con un amico palestinese) sulle ragioni mitologiche (la morte di Sansone e l’assedio di Massada) e su quelle storiche che hanno condotto ai drammatici fatti che accadono oggi in Palestina: il fallimento degli accordi di Oslo e della mediazione statunitense, l’esplosione della nuova Intifada, la devastazione di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme (est) dopo quarantun’anni di occupazione militare, lo smantellamento dell’Autorità Nazionale Palestinese e, sopra tutto, la strage di ebrei e palestinesi innocenti. Capire cosa sta accadendo in Palestina non è facile e la televisione e i giornali non ci aiutano. Ignorano o rimuovono. Proviamo col cinema.
Per la prima volta alle prese con la comicità realistica del vaudeville omonimo (1851) di Eugène Labiche e Marc Michel, R. Clair ne sposta l’azione al 1895, la serra dentro una giornata di festa per la celebrazione di un matrimonio, scandita dalle tappe dell’affannosa ricerca di un cappello di paglia, la limita nello spazio mobile di cinque ambienti, annullandone la staticità teatrale originaria secondo l’effetto dinamico “a palla di neve”, come lo chiama H. Bergson (nel saggio Il riso ). L’azione – danza di oggetti e di personaggi ridotti a marionette – si svolge al ritmo frenetico di un indemoniato balletto. È la punta alta nel cinema muto di Clair, sostenuta da un impeccabile senso dell’organizzazione farsesca, dalle invenzioni scenografiche di Lazare Meerson e dalla leggerezza di tocco con cui il regista governa un gruppo eterogeneo di attori europei e di immigrati russi. Non a caso il vaudeville di Labiche-Michel ispirò alcuni tra i più importanti musicisti del ‘900 tra cui Jacques Ibert (1929) e Nino Rota che ne compose una felice trasposizione teatrale, messa in scena nel 1955 a Palermo e poi per tre stagioni di seguito al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Giorgio Strehler. Le sue musiche, trasposte per pianoforte e eseguite da Angela Annese, accompagnarono la ripresa del film alle Giornate del Muto 2007 a Pordenone. Ebbe altre 3 versioni filmiche in Germania (1939), Francia (1940-44) e Argentina (1946).
Nel quartiere dei Lilas, periferia vecchia di Parigi, vive Juju (Brasseur), pigro beone di cuore generoso, che ha per amico l’Artista (Brassens), cantante e chitarrista. Costretti a nascondere in cantina Barbier (Vidal), febbricitante bandito braccato dalla polizia, i due si prendono cura di lui, ma quando Juju scopre che per interesse sta per coinvolgere nella sua fuga l’ingenua Maria, lo affronta. Nel suo terzultimo lungometraggio, ispirato a un romanzo di René Fallet, R. Clair ritorna alla Parigi della sua giovinezza, ma in chiave di dolorosa malinconia e di una meditazione sconsolata sull’amicizia e l’egoismo. Brasseur e Brassens (e la sua musica) sono ammirevoli in un film lirico e amaro, sfiorato dall’ombra dell’accademia.
Prodotto, come Entr’acte , da Rolf de Maré, impresario teatrale che voleva procurare una parte di protagonista al suo primo ballerino/coreografo (e amante) Borlin che, tra l’altro, risultò attore insipido. Il 3° lungometraggio muto di Clair è scomponibile in tre atti. Il 1° e il 3° raccontano le disavventure di Jean, timido impiegato di banca, innamorato della graziosa Dolly e perseguitato da due colleghi rivali. Il 2° è un sogno in cui Jean è trasportato in una grotta magica, abitata da vecchie fate cui rende bellezza e gioventù con un bacio. Ritrova Dolly. Una fata cattiva li trasporta in volo alla cattedrale di Nôtre Dame dove Jean è trasformato in un bulldog. L’azione si sposta nel museo delle cere Grévin i cui personaggi storici tornano in vita. Dalla ghigliottina Jean è salvato da Charlot e dal suo monello. “È il [suo] primo film in cui la scenografia acquista un ruolo esplicitamente significante” (G. Grignaffini). È anche, nella storia del cinema, uno dei primi film autoreferenziali. Muto.
Uno scrittore polacco che vive a Parigi viene ritenuto erroneamente un aspirante suicida. Due suoi conoscenti, ex sessantottini ora integrati, decidono di organizzargli un suicidio in grande stile. Dovrà darsi fuoco in piazza San Pietro durante una megamanifestazione per protestare contro la politica delle grandi potenze. L’uomo non è per nulla intenzionato a uccidersi anche se intorno a lui si sta costruendo tutta una struttura che dovrà “lanciare” l’evento ricavandone molto denaro. Riuscirà a salvarsi solo all’ultimo momento, mentre altri stanno “veramente” dandosi fuoco. Costa-Gavras ha spiazzato tutti i suoi estimatori con un film che “osa” riflettere sui reduci del Sessantotto per di più facendo uso del grottesco. Successo di pubblico e critica bassissimi per un film che merita invece un’attenta lettura.
Shun Li confeziona quaranta camicie al giorno per pagare il debito e i documenti che le permetteranno di riabbracciare suo figlio. Impiegata presso un laboratorio tessile, viene trasferita dalla periferia di Roma a Chioggia, città lagunare sospesa tra Venezia e Ferrara. Barista dell’osteria ‘Paradiso’, Shun Li impara l’italiano e gli italiani. Malinconica e piena di grazia trova amicizia e solidarietà in Bepi, un pescatore slavo da trent’anni a bagno nella Laguna. Poeta e gentiluomo, Bepi èprofondamente commosso dalla sensibilità della donna di cui avverte lo struggimento per quel figlio e quella sua terra lontana. La loro intesa non sfugge agli sguardi limitati della provincia e delle rispettive comunità, mettendo bruscamente fine alla sentimentale corrispondenza. Separati loro malgrado, troveranno diversi destini ma parleranno per sempre la stessa lingua. Quella dell’amore. Per quelli che ‘fanno il cinema a Roma’ e per cui un veneziano vale un triestino, il Veneto è un set popolato da improbabili abitanti che si limita a fare da sfondo a storie italiane altrettanto improbabili. Serviva evidentemente un po’ di sangue di quella terra per raccontarne la sorprendente bellezza e per far crescere un film preciso nell’ambientazione e credibile nelle emozioni lambite ‘ogni sei ore’ dalla Laguna. Partendo da un luogo esistente, ‘provocato’, smontato e ricomposto attraverso l’osservazione soggettiva di un’immigrata, Andrea Segre lo mostra nelle concrete trasformazioni stagionali e nelle più sottili conversioni sociali. Contro gli stranieri impersonali e posticci di Patierno e le sue ‘cose dell’altro mondo’, il documentarista veneto ribadisce quelle di questo mondo e di questa Italia in rapporto dialettico, ostile o conciliato, con l’altro da sé. Un altro che è persona e mai personaggio. Io sono Li è un’architettura delle posizioni relative tra le figure in campo, al cui centro si colloca la protagonista di Zhao Tao, centrata in ogni dove e concentrata su un proponimento che ha il volto di un bambino di otto anni. Come satelliti le gravitano intorno pescatori cauti e imprenditori (cinesi) rapaci che non la spostano da ‘Li’, che è insieme identità, punto, momento e baricentro. Dopo i documentari (Magari le cose cambiano, Il sangue verde, La Mal’ombra, Come un uomo sulla terra) e congiuntamente alla ricerca sociale, Segre debutta nel cinema a soggetto, sposando sentimenti affettivi e sociali con una limpidezza di esposizione che non riesce sempre a scongiurare l’inciampo didascalico. Di fatto, pur romanzando con sensibilità la realtà, il film non è in grado di rimettere in gioco la finzione con la verità, incorrendo troppe volte in formule da dibattito. Meglio sarebbe stato lasciarsi cullare dalle perifrasi dei sentimenti, così magnificamente comprese nell’interpretazione implosa di Zhao Tao e in quella lirica di Rade Šerbedžija. Portatore sano della condizione umana di straniero lui, portatrice pudica lei del cinema poetico e reale di Zhangke, del cambiamento epocale della Cina e dell’incanto a cui rinuncia per cambiare anima.
Una coppia senza figli incontra una giovane donna, Malvina, incinta di sei mesi. Strani legami legano il terzetto. Morto l’uomo accidentalmente, Malvina mette al mondo un bambino che consegna all’amica. Come il solito nel cinema di Ferreri il contenitore scenografico della storia (una futuristica megalopoli dove coabitano Palermo, Milano, Ferrara, discoteche emiliane, supermercati lombardi) è suggestivo, ma dentro si muovono fantasmi impacciati dalle catene dell’ideologia. Fin quando mostra, funziona; quando comincia a dire, ristagna e affonda. Il solo modo di divertirsi è leggerlo in chiave di fumetto ironico-grottesco.
Lo sguardo di una donna incinta sul variopinto mondo di rue Mouffetard, “la Mouffe” come la chiamano i parigini e situata nel Quartiere Latino della Ville Lumière.
La tratta delle bianche in Israele. Trasportate specialmente dai paesi dell’Est già socialista, le donne entrano in Israele attraverso il deserto del Sinai e sono smistate in varie città, persino nei Territori palestinesi. Teso da sempre a scandagliare le gravi contraddizioni del suo paese sul piano storico, religioso, sociale, esistenziale, Gitai non era mai stato, forse, così duro e crudo, così violento e pessimista sul legno storto dell’umanità. Così indignato e scomodo. Il calvario di queste donne, ridotte a merce con la violenza, è raccontato – specialmente nell’impietosa, centrale sequenza notturna – con un’immediatezza da cinema diretto. Non a caso dalla Mostra di Venezia 2004 dove Gitai era in concorso, il critico Marco Bertolino lo accostò al Salò di Pasolini. Il linguaggio registico è gelidamente furioso: cinepresa a mano, inquadrature sbilenche, montaggio stretto, luci livide, colore compresso sullo spettro dei grigi. Scritto da Gitai con Marie-Jose Sanselme. Anche fotografia e montaggio sono di donne: Caroline Champetier e Isabelle Ingold. Non può essere una scelta casuale. Musiche di Ärvo Part e Simon Stockhausen.
Una giovane giornalista, Yael, si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono. Ha sentito parlare di una donna ebrea che, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva sposato un arabo ed era andata a vivere lì. Yael, nella sua visita ascolta ciò che Il marito Youssef ha da raccontarle e raccoglie anche le testimonianze di parenti e conoscenti. Amos Gitai venne a conoscenza grazie alla stampa della storia di una donna nata ad Auschwitz e poi sposatasi, nonostante molteplici ostilità, con un arabo da cui ebbe cinque figli e 25 nipoti. Si tratta di una vicenda che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista israeliano da sempre attento ad indagare i perché di una rivalità (che spesso si trasforma in odio) tra due popoli che hanno saputo convivere nel passato e potrebbero tornare a farlo. Bisognava però decidere con quale taglio raccontarla e Gitai ha deciso di portare all’estremo quello che per lui si è spesso configurato come un codice linguistico particolarmente interessante.
Gli spettatori più attenti al suo cinema ricorderanno sicuramente l’episodio del film collettivo 11 settembre 2001 in cui descriveva la concitazione presente sul teatro di un attentato e l’assoluta incapacità della giornalista inviata sul posto a comprendere cosa accadeva grazie a un piano sequenza di 11 minuti. Altri faranno invece riferimento alla lunghissima e tesissima sequenza in apertura di Free Zone tutta incentrata sulle reazioni emotive del volto di Natalie Portman. Questa volta il piano sequenza ha la durata dell’intero film che si svolge quindi in tempo reale. Sul piano simbolico la scelta estetico-narrativa è di grande valore perché avvolge ed unisce due mondi, due culture e due memorie che si vorrebbero opposte realizzando un film ‘senza stacchi’, senza separazioni, neppure di montaggio. Non ci sono, in questo microcosmo, quei muri che altrove istituzionalizzano la separazione. Si tratta però di una formula punitiva per il pubblico non israelo-palestinese sotto un duplice aspetto. Sul piano storico perché nei dialoghi e nelle memorie dei personaggi emergono innumerevoli elementi che fanno parte della storia socio-culturale di quei popoli ma che non tutti nel mondo hanno presenti. C’è poi la fatica del seguire (e talvolta subire) gli inevitabili tempi morti che fanno parte della quotidianità di ognuno ma che sullo schermo e in una sala bui sembrano espandersi all’ennesima potenza. Gitai è sempre stato un regista ‘in ricerca’, sia sul piano storico che su quello formale. Una ricerca che, in questo caso, rischia di rivolgersi a un pubblico molto ristretto.
Il Natale dovrebbe essere un giorno di festa da passare coi propri cari, come è sempre stato negli ultimi vent’anni, per la famiglia Harrington, ma quest’anno qualcosa cambierà… In viaggio con la famiglia per raggiungere la suocera, Frank Harrington decide di prendere una scorciatoia. L’incubo inizia. Una misteriosa donna in bianco vaga nel bosco, lasciando un alone di terrore al suo passaggio. Una strana auto scura, con un conducente invisibile, porta gli Harrington in una spirale di morte e follia verso una inquietante destinazione…
Un coscienzioso assassino di professione s’appresta ad eliminare un pericoloso testimone, che potrebbe far condannare un’intera cosca mafiosa quando, per caso, si trova a salvare un aspirante suicida (vedi anche Buddy Buddy).
Per vendicare il marito, impiccato da ricco allevatore, assolda ex pistolero che sequestra la figlia del ras per ottenere in cambio solenni funerali. Carneficina finale. Anomalo “spaghetti-western” in salsa francese tra i cui sceneggiatori figura anche Dario Argento. La vicenda è aggrovigliata, ma messa in scena con una certa eleganza.
Polonia, 1945. Dottoressa della Croce Rossa francese impegnata ad assistere i soldati feriti dopo la fine della seconda guerra mondiale, Mathilde è chiamata da una suora di un vicino convento e scopre, con il collega Gaspard, che molte benedettine sono rimaste incinte a seguito di ripetuti stupri compiuti dall’esercito russo. Nonostante la volontà della madre superiora di tenere nascoste le gravidanze al fine di evitare lo scandalo, tra l’atea Mathilde e le sorelle si crea un clima di progressiva fiducia che rimette fortemente in discussione equilibri e gerarchie. Ispirato al diario di Madeleine Pauliac sugli orrori postbellici compiuti dai sovietici, affronta temi complessi che non si limitano solo all’atto di accusa nei confronti delle violenze perpetrate, ma si estendono a una profonda riflessione sul senso della vocazione e l’utilizzo della fede come strumento di imposizione. Ottima prova della protagonista.
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